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Zakhòr, ovvero Ricorda. A Roma l’arte israeliana sul tema della Shoah

Simcha Shirman, Whose Spoon Is It? S.S. 470430-110927, 2011 Simcha Shirman, Whose Spoon Is It? S.S. 470430-110927, 2011
Simcha Shirman, Whose Spoon Is It? S.S. 470430-110927, 2011
Simcha Shirman, Whose Spoon Is It? S.S. 470430-110927, 2011

In sei musei comunali di Roma proiezioni di opere d’arte israeliana che affrontano il tema della memoria della Shoah

In occasione della recente Giornata Internazionale della Memoria, a Roma è stata inaugurata un’originale mostra, curata da Giorgia Calò, che si articola in sei musei comunali. In ognuno di essi l’abituale percorso di visita è interrotto dalla proiezione su grande schermo di un’opera d’arte israeliana che affronta il tema della memoria della Shoah. Un QR code mostra la mappa dei musei coinvolti nel progetto e le opere esposte, in modo da creare una sorta di percorso alternativo delle opere israeliane. Il progetto è frutto di una collaborazione tra l’Ambasciata d’Israele in Italia, la Comunità Ebraica di Roma, l’Assessorato alla Crescita Culturale di Roma Capitale e la Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali di Roma. Maya Katzir, addetta culturale dell’Ambasciata di Israele in Italia, illustra come la mostra rappresenta le varie sfaccettature della memoria della Shoah in Israele.

RICORD-ARIA

Il nome della mostra è “Zakhòr”, in italiano “Ricorda”, forma imperativa. Nel mio Paese, quando eravamo piccoli, non c’era bisogno di un imperativo per ricordare. Vedevamo gli avambracci con i numeri tatuati, spesso di sfuggita, talora la manica di quelli che ci sembravano anziani si tirava su accidentalmente, in autobus, nei negozi, per strada. Sbirciavamo con malcelata curiosità allora quel terribile segno che custodivano pudicamente. All’inizio era inquietante, poi forse abbiamo cominciato a capire, ad avere una vaga idea, e piano piano la consapevolezza si formava. Man mano che crescevamo cresceva anche la presa di coscienza, che ancora oggi si sviluppa, talvolta si perde talvolta si ritrova.
Non c’era bisogno che ci dicessero di ricordare, poiché molti di noi ricordavano aprendo la dispensa delle nonne che traboccava di cibo in scatola, conserve, ogni ben di Dio, sempre pronte per i giorni bui; ricordavamo ascoltando la babilonia delle lingue materne dei nonni, zii e genitori, e ricordavamo anche attraverso il significato sinistro di ingenue parole di uso comune: gas, doccia, treno, forno. Anche le biografie ci facevano ricordare. Molti di noi sono cresciuti con dei parenti traumatizzati, con dei genitori orfani.
Ricordavamo, dunque, soprattutto grazie ai testimoni viventi, quei sopravvissuti che erano tra noi. Paradossalmente proprio coloro grazie ai quali noi ricordavamo, spesso avrebbero voluto dimenticare. Purtroppo, l’oblio non è una grazia a cui si comanda. Non si può comandare: “Dimentica”.
Ora che la maggior parte di loro non è più tra di noi e non c’è più quello stimolo alla memoria, ora che un bambino non vive quel dualismo contradittorio tra curiosità e terrore, forse un imperativo istituzionale sarebbe opportuno. Ma è possibile ordinarci di ricordare? La storia ci insegna di si. Spesso la memoria collettiva è base fondante dell’identità nazionale, dell’unità civile, e come tale è una memoria condivisa, costruita e impersonale. È, quindi, possibile, porre l’imperativo di ricordare. Ma la società civile, i privati cittadini, noi, troveremo sempre il grimaldello per scardinare quel monito. Anche se ci si può obbligare a ricordare, non ci si può dire come.
L’importanza della mostra allestita nei musei comunali risiede proprio qui, nella tensione tra la rigidità dell’imperativo e la variegata flessibilità delle risposte, tra il generico comando di ricordare e le singole interpretazioni degli artisti, degli individui. In questo spazio tra univocità e individualismo nascono possibili corrispondenze, tra epoche e culture.
Ogni video installazione è una lettura del passato, un’interpretazione dell’imperativo, e allo stesso tempo, come sempre lo è l’arte, anche una testimonianza dell’oggi. Ogni artista si confronta con l’iconografica della memoria tramandata dagli avi e quindi con una memoria nata altrove, memoria fatta di immagini che non appartengono alla terra di Israele, e, ciò nonostante, divenute parte fondante della nostra identità. Così si apre un dialogo fra il testimone di oggi, l’artista, e il passato europeo, un dialogo che invita lo spettatore a riflettere su tutto quello che è andato perduto o che sarebbe potuto anche non esistere (per esempio gli artisti, per esempio io) se la soluzione finale avesse avuto successo. La proiezione delle opere su schermo, anziché l’aver portato in mostra le opere stesse, mira proprio a illustrare quella casualità, quell’esistenza effimera. In questo senso, le sei opere sono impalpabili pietre d’inciampo, infisse lungo il cammino, che distolgono l’attenzione dal solito percorso museale, dalla routine, per catapultare il visitatore nel passato. Un primo dialogo che echeggia quindi dalla mostra è il dialogo fra il presente israeliano e le tracce di Europa che sono arrivate in Israele dopo la guerra, un confronto fra coloro che sono nati dopo la guerra e il patrimonio emotivo scomposto dei sopravvissuti.
Ogni opera è conclusa in sé stessa, ovviamente, ma il QR code permette di collegarla anche a tutte le altre disseminate nei musei aderenti al progetto. In tal modo si realizza una mostra scomposta che testimonia la varietà di voci presente nella società israeliana odierna, riflesso di un sano processo di disgregazione ivi in atto almeno dagli anni Sessanta, a seguito del Processo Eichmann, e ancor più dagli anni ’80; un processo che consente a memorie diverse, private, di affiorare alla superficie arricchendo la narrazione storica nazionale, ma anche di criticarla, facendo spazio a voci che all’inizio non vi erano incluse.

In questo senso, la mostra nel suo insieme, e non solo attraverso le singole opere, cerca di sollecitare anche una riflessione sul modo di plasmare la memoria anche in Italia. La grande consuetudine degli artisti israeliani al tema della Shoah, e il fatto che esso è intensamente intrecciato alla quotidianità conferiscono al dibattito nazionale una dimensione introspettiva e, allo stesso tempo, lo rendono libero da ogni retorica nella quale si può scivolare, trattando questo delicato argomento. Tra gli obiettivi principali di questo progetto c’è anche il tentativo di presentare un nuovo spirito, che, oltre alle ovvie espressioni di rispetto, compassione e orrore, sdrammatizza anche ricorrendo all’ironia. Un esempio è il lavoro di Simcha Shirman, “Di chi è questo cucchiaio? S.S. 470430-110927”, esposto al Museo di Roma in Trastevere. Il cucchiaio smarrito, di cui non si riesce più a trovare il proprietario, poggia su un tagliere con tracce di uso. L’immagine rimanda a un chiaro insieme di associazioni: cucina, nutrimento, casa. Ma il titolo trasforma l’ovvio, il banale, in un enigma, un enigma molto personale, e anche universale, come lo è il concetto di casa.

Di chi è questo cucchiaio? Di chi “era” questo cucchiaio? Lo spettatore poco a poco comincia a darsi delle risposte. L’artista stesso ha proposto una chiave di lettura in un testo che accompagna l’installazione e suggerisce diverse interpretazioni, senza comunque proporre una soluzione. Il dramma si consuma nel dibattimento tra lo spettatore e l’immagine e tra lo spettatore e sé stesso, facendogli ripercorrere nella sua mente possibili narrazioni storiche. L’ironia appare anche nel titolo dell’opera. Shirman insiste che accompagni l’opera la scritta completa “SS 470430-110927”, consapevole dell’effetto del doppio senso delle sue iniziali SS e dai numeri presenti nella didascalia che ammiccano i famigerati numeri tatuati. Infatti, il primo numero è la data di nascita dell’artista scritta al contrario – 30 aprile 1947 –, mentre il secondo è la data di realizzazione della foto – 27 settembre 2011: effetto di straniamento dell’immagine che ritorna anche nel titolo. La licenza di giocare con simboli del male talmente evidenti, come il monogramma “SS” e come quei numeri, è una delle caratteristiche del discorso israeliano attuale sulla Shoah: libero, provocatorio, propenso all’ironia che suscita un sorriso velato di tristezza.

 

Vardi Kahana, Three Sisters, Tel Aviv, 1992
Vardi Kahana, Three Sisters, Tel Aviv, 1992

Le opere scelte per la mostra si relazionano ovviamente anche al luogo di esposizione, e lo fanno in modi diversi, più o meno espliciti. All’Ara Pacis è in mostra “Tre sorelle”, foto di Vardi Kahana, dove le protagoniste, di cui una è la madre dell’autrice, mostrano i numeri consecutivi tatuati sui loro avambracci. La foto con quei numeri che furono impressi all’arrivo ad Auschwitz, in fila l’una dietro l’altra, si carica di ulteriore significato dall’esposizione accanto ad un quasi “ritratto di famiglia” costituito dalla teoria di teste romane della gens augustae, tutte modellate con acconciature simili a mostrare il legame di parentela. Un altro momento di riflessione, sempre all’Ara Pacis, deriva dalla dialettica tra le celebrazioni della vittoria di Augusto, monumento tra i più alti della cultura occidentale, e il ricordo di uno degli abissi in cui è precipitata quella stessa cultura, espresso dallo sguardo di rimprovero delle tre sorelle. E come se ciò non bastasse, la politica della memoria che caratterizzò Augusto e le risorse che egli investì per perpetuare il proprio nome, testimoniano quanto sia ampio e manipolabile l’imperativo “Ricorda”.

In maniera del tutto differente ma non meno interessante, l’opera “Nazi Hunter’s Room” di Boaz Arad si ricollega al genius loci del Museo Centrale Montemartini. La video installazione mostra un tappeto di silicone con le fattezze di Hitler, a mo’ di pelle di leone, posto in una stanza piena di svastiche dai colori allegri. Essa fa parte di una serie di tentativi di Arad, che non è figlio di genitori sopravvissuti alla Shoah, di far esplodere con uno spillo il grande pallone del tabù che circonda l’immagine di Hitler. Quel che può apparire come un’attrazione per il simbolismo nazista (o come lo ha definito Susan Sontag “Fascismo affascinante”) è in realtà un riferimento al posto ancora centrale di quell’immagine nel presente israeliano.
Trasformandolo in preda, l’opera rimanda alle fantasie di vendetta, retaggio del passato in Israele, quindi con una valenza catartica, così come al dibattito stereotipato sulla Shoah che ricorre spesso alla metafora della “bestia nell’uomo”. Rappresentare Hitler in questo modo significa anche capovolgere la retorica gerarchia di poteri che si basa sulla visione: animale uguale ferocia, sottolineando invece la violenza dell’uomo, il vero colpevole della tragedia.

 

Boaz Arad, The Nazi Hunters Room, 2007
Boaz Arad, The Nazi Hunters Room, 2007

Eppure sembra che la evidente giocosità presente nell’installazione, non riesca a calmare l’ansia che nasce dall’affrontare questi simboli. Più che cercare di offrire una soluzione, quindi, il lavoro di Arad, come altre opere non israeliane (si pensi a “Him” di Cattelan o a “Lego Concentration Camp” di Zbigniew Libera), cerca di riflettere sui rapporti dell’individuo con la sempre attuale, benché sotto diverse forme, affabulazione del potere. Era impossibile pensare a un museo più adatto di Centrale Montemartini per illustrare gli effetti del carisma sulla società. Questo luogo, infatti, coniuga con rara grazia l’antico passato romano con l’era industriale, disaminando ascesa e caduta di antichi e nuovi miti. Difatti, la mostra che nel 1997 inaugurò il museo col titolo “Le macchine e gli dèi”, metteva al centro proprio questa fascinazione del potere sugli esseri umani, fondato sul cieco credo negli dèi e sulla cieca fiducia nella tecnologia e nel progresso. L’opera di Arad getta ulteriore benzina sul fuoco dei pensieri, invitando il visitatore a riflettere sulle diverse forme di autoritarismo.
Tutti i significati menzionati, e molti altri che si potrebbero approfondire, sono svelati grazie a un semplice trucco, noto al vasto pubblico principalmente dal linguaggio cinematografico, che si chiama elemento extra diegetico. Consiste nell’introduzione di un elemento esterno alla trama, in genere un brano musicale, che sente solo lo spettatore e non i protagonisti e che orienta la lettura della scena. Un messaggio subliminale del regista nella sfera dell’emotività che aggiunge informazione. Allo stesso modo, la collocazione delle sei installazioni all’interno del normale percorso museale, e il fatto che le opere si relazionino virtualmente l’un l’altra, è l’espediente per gettare il seme del confronto dell’opera infiltrata con vari elementi: con il luogo che la ospita, con il presente italiano, con il passato “europeo” di Israele, e con altri ancora qui non affrontati, creando un contrappunto di riferimenti e dialoghi storico-culturali.
“Zakhòr/Ricorda” è un una mostra che apparentemente si contrappone all’imperativo nel titolo. Non obbliga a un ricordo ma contempla diverse sfumature di memoria. In contrasto con la rigidità che ha caratterizzato la memoria dell’Olocausto nei primi anni dello stato di Israele, la mostra propone un’altra visione. Come i frammenti della memoria sono scomposti, così la mostra è parcellizzata. Vola leggera nell’aria per riflettere la flessibilità individuale, che si infiltra nell’imperativo granitico, instillando bolle d’aria, spazi di libertà, che permettono di respirare. Questo respiro è la garanzia per il futuro della memoria.

Maya Katzir

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