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Franco Angeli e i simboli come “vacuità etica”, in mostra a Roma

Franco Angeli, Senza titolo, 1978
Franco Angeli, Paesaggio con giallo cromo, 1982
Allo Spazio WeGil una bella mostra antologica di Franco Angeli, in collaborazione con l’Archivio dell’artista, per presentare le opere realizzate dagli ultimi anni Cinquanta fino agli anni Ottanta e provenienti da collezioni private e dalla Galleria Marchetti

«Noi tireremo dritto. Il IX Maggio XIV Benito Mussolini fonda l’Impero» è la enorme scritta che campeggia su una mappa dell’Africa coloniale, realizzata nel 1937 per decorare la Casa della Gioventù Italiana del Littorio, a Trastevere, all’epoca appena inaugurata su progetto di Luigi Moretti. Oggi l’edificio è stato convertito in uno spazio polifunzionale, WeGil, e ospita in questi mesi una bella mostra antologica di Franco Angeli curata da Silvia Pegoraro, in collaborazione con l’Archivio Franco Angeli, con opere realizzate dagli ultimi anni Cinquanta fino agli anni Ottanta e provenienti da collezioni private e dalla Galleria Marchetti.

Fa dunque un effetto strano, abbassando lo sguardo dal proclama fascista, vedere le opere di Angeli.

Fa un effetto strano per la natura squisitamente, ma non banalmente, politica che ebbe la ricerca di Angeli, artista romano, e precisamente sanlorenzino, comunista per tradizione familiare ed iscritto alla sezione Campo Marzio del PCI dal 1955.

Franco Angeli, O.A.S, 1961

Già alla base dei primi lavori, quegli informali polimaterici degli ultimi anni ripresi dalla sua fascinazione per i Catrami di Burri, conosciuto tramite lo scultore Edgardo Mannucci, risiedeva un ben preciso e vigile sentimento politico, sconfinante in una dolorosa e sorda denuncia esistenziale: l’inserimento di inserti materici di calze di nylon lacerate voleva essere eco dell’orrore provato nel sapere che nei campi di sterminio nazisti la pelle dei deportati venisse utilizzata per fabbricare oggetti. «I miei primi quadri erano così» scriveva Angeli «come una ferita dalla quale togli dei pezzi di benda…dove il sangue si è rappreso ma non è più una macchia rossa- Tutto doveva apparire lacerato, affranto».

Poi arrivarono i simboli – falci e martello, croci, svastiche, mezzelune, lupe capitoline, aquile americane, ma anche imperiali romane e fasciste – che l’artista utilizzò in un certo senso desimbolizzandoli, trasformando la sua ricerca in «un mezzo per additare la vacuità etica di quelle immagini abitudinarie – bandiere, stemmi, iscrizioni lapidarie, su cui si esercita da secoli la retorica che serve a distogliere dalla verità – un mezzo per ritrovare questa verità», come ne scriveva Nello Ponente per la mostra alla Galleria dell’Ariete nel 1964. Il 1964, per altro, fu anche l’anno in cui Rauschenberg venne premiato alla Biennale di Venezia, sancendo di fatto sia il riconoscimento del primato contemporaneo all’arte americana a discapito di quella europea, nel quadro di quella che fu la cosiddetta guerra fredda culturale, sia un’affermazione della poetica Pop. E per quanto si sia tentato di inscrivere anche i simboli reiterati e svuotati di Angeli nel Pop, cui del resto vennero riportati talvolta anche i suoi colleghi e amici Festa e Schifano, fu lo stesso artista a dichiarare di «non aver mai dipinto un quadro nello spiritop della PopArt».

Franco Angeli, Elettorale, 1970

In una intervista con Luisa Di Gaetano fatta nel 1972, Angeli si riferiva alle icone della Pop Art americana – le Marylin, le Coca Cola, i fumetti, etc. – come «cose che si sono prestate all’egemonia imperialistica della cultura…sono servite allo stesso modo in cui sono servite e servono le basi Nato», là dove i suoi simboli erano nient’altro che quelli visti fin da ragazzo per le strade di Roma, carichi e densi di significato politico, e da cui l’artista cercava di distaccarsi quasi per isolarne la mera essenza formale. I simboli resteranno una costante nella ricerca pittorica di Angeli, fino all’ulteriore rarefazione formale nei lavori degli anni Ottanta, inseriti in composizioni geometriche insieme a piramidi, aerei, ruderi, e sagome pupazzettistiche.

Franco Angeli, Polaroid, fine anni ’70-primi anni ’80

La mostra testimonia un progredire della pittura di Angeli assai articolato e poliedrico, che spesso tradisce la vicinanza con Schifano (di cui è esposto un bel ritratto del 1973): si vedano a tale proposito Souvenir, fine anni Sessanta, elaborato a stencil in un modo così affine a Futurismo rivisitato a colori di Schifano, oppure certi dipinti degli anni Settanta (Atmosferico, Primavera, etc.), perfettamente in risonanza con i Paesaggi anemici di Schifano. Un tipo di pittura più caldo e gestuale viene poi utilizzato dall’artista per parlare di aspetti più intimi e poetici dell’esistenza dell’artista – il rapporto con i poeti dell’epoca, Elio Pagliarani, Sandro Penna, Nanni Balestrini, tra i molti, è poi un aspetto cruciale del percorso di Angeli, approfondito in catalogo – e lo si trova non a caso nei lavori dedicati a Marina, Ripa di Meana, con cui Angeli ebbe un intenso e folgorante legame amoroso, o in raffigurazioni di oggetti dell’affetto, come la Brocca di ottone trovata a Positano in casa Von Frannberg del 1981.

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