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Il “Settimo Giorno” di Borondo a Bologna: intervista all’artista

Settimo Giorno, di Gonzalo Borondo, ph: Roberto Conte
Settimo Giorno, di Gonzalo Borondo, ph: Roberto Conte
La mostra personale di Gonzalo Borondo a Bologna, tra Ex Chiesa di San Mattia e MAGMA gallery, per un senso del sacro dell’arte. Intervista all’artista

Inaugurata durante l’Art Week bolognese e presentata da MAGMA gallery, “Settimo Giorno” è la personale di Gonzalo Borondo tra l’Ex Chiesa di San Mattia e la sede di MAGMA gallery. L’artista spagnolo esplora il tema del sacro con un mezzo espressivo mai utilizzato prima, quello del video, sviluppandone le potenzialità più coinvolgenti in una particolare soluzione. A partire dal libro della Genesi, Borondo riflette sui giorni della creazione in racconto visivo che rianima l’ex Chiesa di San Mattia. Oltre la grande installazione audiovisiva nella chiesa sconsacrata, undici nuove opere dell’artista si trovano presso la sede della galleria in via Santo Stefano 164.

Borondo: una narrazione multimediale del sacro

Il tema della natura umana e della sua complessità e quello del sacro sono al centro della pratica artistica di Gonzalo Borondo. Con installazioni e murales in tutto il mondo, l’artista spagnolo ci restituisce un’immagine del nostro tempo che spesso deriva da una commistione tra impressioni contemporanee e suggestioni che arrivano da un lontano passato. Per “Settimo Giorno” nell’ex Chiesa di San Mattia, Borondo ha pensato a una grande installazione audiovisiva che immerge lo spettatore in una realtà sospesa e buia, illuminata da immagini in movimento accompagnate da suoni e parole. Attraverso un mix di tecniche di sviluppo analogico e tecnologia 3D, l’artista ha manipolato quasi un migliaio di fotogrammi in cianotipia ottenendo così i video che, nelle sei cappelle dell’ex chiesa, narrano i sei giorni del mito della creazione.

«In principio Dio creò il cielo e la terra. Ora la terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l’abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque». Così recitano i primi versetti del libro della Genesi in cui l’immagine della terra, informe, deserta e ricoperta di tenebre, si avvicina all’atmosfera creata da Borondo nell’ex Chiesa di San Mattia. Completamente al buio, sono i video animati dell’installazione ad accendere l’architettura dell’ex chiesa, avvolta in una trama di immagini, luci e suoni. Qui, accompagnano le voci sussurrate e gli effetti sonori della poetessa Ángela Segovia e della compositrice Irene Galindo Quero. Così orchestrati da Borondo, i sei giorni della creazione si sviluppano in un racconto audio-visivo che, dalle sei cappelle, conduce al grande cerchio di corpi in movimento, fluttuanti, sospesi al di sopra dell’altare. L’umano prende il posto della celebrazione del divino, in una nuova liturgia terrena disegnata dall’artista.
Frutto di un lungo processo creativo, il lavoro per “Settimo Giorno” di Gonzalo Borondo rimette al centro il discorso sul sacro, intrecciando la storia di luoghi e persone. Abbiamo raggiunto l’artista per qualche domanda sulla nuova mostra a Bologna.

Settimo Giorno, di Gonzalo Borondo, ph: Roberto Conte

Hai realizzato lavori all’interno di luoghi originariamente dedicati al culto, come il Temple des Chartrons a Bordeaux. Cosa cambia per te nell’operare tra questo tipo di spazi e gli spazi in strada dove realizzi murales?
Il mio lavoro si basa sul dialogo con lo spazio sia a livello formale che concettuale. Un ambiente chiuso, nato con l’intenzione di accogliere e coinvolgere emotivamente uno spettatore non ha nulla in comune con una qualunque anonima parete per strada, così come anche il tipo di pubblico e di esperienza sono totalmente diversi. All’interno di uno spazio chiuso si può creare un’esperienza più intima e profonda, completamente diversa da quella che uno spazio pubblico all’aperto può offrire e questo accade in particolar modo nel caso in cui tale esperienza si basi sulla contemplazione di un’opera pittorica: è tutta un’altra storia! Inoltre, lavorare con il patrimonio culturale e la sua eredità ti pone in una condizione di suggestione e di rispetto e per quanto anche lo spazio pubblico implichi delle responsabilità, queste sono di tutt’altro tipo, più legate al come si va a condizionare un contesto pubblico piuttosto che al come si interagisce con la memoria.

Per questa tua nuova mostra il Libro della Genesi ti ha ispirato. Da dove questo spunto e qual è il tuo rapporto col sacro?
Lo spunto è nato in maniera molto casuale, probabilmente dal desiderio di andare a indagare l’idea di origine e di originale e quindi inevitabilmente sono arrivato a questo mito della creazione che, proprio per tutte le sue incoerenze e incongruenze sulla creazione del mondo, risulta in qualche modo essere anche molto poetico: oggi siamo consci del fatto che la creazione non sarebbe mai stata possibile in questo modo. Passiamo ora al punto interessante: il mio rapporto con il sacro. Dal mio punto di vista l’arte ha molto a che vedere con il sacro, è un atto di fede, un lavoro a vita che si sviluppa su qualcosa di apparentemente inutile, ma che invece serve in qualche modo: serve come stendardo per portare avanti la propria esistenza. Inoltre, dal mio punto di vista, l’arte e il sacro sono i due modi che l’essere umano ha trovato per parlare tramite il visibile dell’invisibile. Sono molto affascinato da questo aspetto, la dimensione del nascosto, sotterrato, l’invisibile ma presente, quello che c’è ma che non è evidente.

L’atto artistico nella rappresentazione del sacro è un qualcosa che ha avuto numerose e diverse declinazioni nelle varie epoche. Il linguaggio del sacro può essere un potente veicolo per parlare dell’uomo ma nella contemporaneità ha perso il peso che aveva un tempo, per lasciare spazio a nuove tematiche. Cosa ne pensi?
Nel mio caso io uso semplicemente i simboli e le narrative che ho ricevuto in eredità dal mio contesto. Questa non è stata una scelta ma un dato di fatto. La mitologia e le storie mi servono come spunto per parlare delle inquietudini contemporanee ma anche dei conflitti arcaici dell’essere umano. In arte non mi interessa parlare di cose appartenenti solo e strettamente all’attualità, sento che domani saranno già ‘scadute’ e smetteranno di comunicare e raccontare. Inoltre, per me, molto spesso si tratta di tematiche contingenti a un periodo storico breve e che quindi, dal mio punto di vista, appartengono a una visione limitata e superficiale di noi stessi. Per quanto possa capire che la ricerca dell’immediato venga preferita nella nostra società, a me sembra molto più interessante cercare altri veicoli o immagini per parlare dell’essere umano.

Settimo Giorno, di Gonzalo Borondo, ph: Roberto Conte

Con “Settimo Giorno” hai sperimentato il mezzo espressivo del video, accompagnato dalla parola e dal suono. Cosa ti è piaciuto in particolare di questa nuova esperienza?
Personalmente, quello che mi è piaciuto di questo ultimo lavoro è stato l’esercizio di sintesi: rimuovere quel materico che tanto mi è stato caro nei lavori precedenti e lasciare che di materico resti soltanto la parte storica dell’edificio. Anche collaborare con la poetessa Ángela Segovia e la compositrice Irene Galindo è stato molto interessante: credo che la dimensione sonora sia stato un elemento molto appropriato per la realizzazione dell’esperienza emotiva che cercavo di trasmettere. Il video è un elemento che ho già presentato negli ultimi anni, ma sicuramente in un modo molto più timido. In genere dopo aver sperimentato un’immersione così profonda in un medium espressivo, ho bisogno di cambiare radicalmente direzione per un po’ di tempo, così da rinverdirne nuovamente la passione e l’interesse.

Da dove vengono le cianotipie che hai utilizzato per gli oltre sessanta video dell’installazione dell’ex Chiesa di San Mattia e cosa ci dici invece delle opere esposte da MAGMA gallery?
Le cianotipie vengono principalmente dai full frame (i fotogrammi) dei video realizzati con il mio studio. Alcuni sono stati realizzati con programmi 3D, altri registrati da noi, altri invece disegnati; è dunque una combinazione di tanti media. Il lavoro poi è passato attraverso un processo fotografico analogico, che ha fatto sì che tutti questi video avessero un’uniformità stilistica e una stessa grana. Le opere in galleria, invece, sono una proposta nuova a livello di tecnica, che presto porterò su grande formato in installazioni di grandi dimensioni. Si tratta di un lavoro pittorico di stratificazioni, dove il solo uso del bianco e nero crea una sorta di finti diorama o bassorilievi, in cui prendono vita tematiche della mia poetica artistica che non avevano trovato spazio nei video.

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