Intervista allo scrittore, medico e critico d’arte Roberto Gramiccia sul suo ultimo libro uscito per Mimesis. Un “saggio narrato”, scritto durante la pandemia da Covid-19, con pagine sparse sulla crisi della Sinistra, sulla medicina e sull’arte
Questo saggio, come anticipa Fabrizio Catalano nella prefazione e come lei sottolinea nelle avvertenze della Premessa, non vuole essere un’autobiografia di Roberto Gramiccia. O se lo è, si tratta di “un’autobiografia sognata”, da una definizione di Gerarde Genette. Perché ha scelto questo genere un po’ a latere per raccontare la storia di una generazione? Di quale generazione si tratta?
La generazione è quella di chi nasce negli anni Cinquanta e attraversa e supera tutta la seconda metà del secolo scorso, arrivando fino ai giorni nostri. Ho deciso di scrivere quello che in termini colti si definisce un memoir per raccontare in modo antiretorico, asciutto e, spero, anche divertente, la storia non di una persona soltanto ma, appunto, di un’intera generazione.
Nell’incipit afferma che se non fosse esplosa la pandemia da Covid-19 probabilmente non avrebbe mai scritto questo libro. Quindi si può affermare che nella malattia si nasconda il suo antidoto?
Qualsiasi malattia è espressione di una fragilità. E la fragilità è la precondizione di ogni riscatto, rivolta, rivoluzione. La pandemia è stata una terribile malattia, divenuta sociale, che avrebbe dovuto evocare una grande risposta collettiva. Una riflessione di massa su come siamo e come viviamo. Non è accaduto purtroppo. E il libro si interroga anche su questa grande “occasione mancata”.
Racconta che la stesura delle sue Cronache nasce da un’esigenza interiore e non da una libera scelta. Perché ha avvertito questa esigenza?
Perché la paura del contagio ha aumentato il livello e la consapevolezza della mia fragilità e, quindi, mi ha fornito le energie e la pazienza necessarie per ricostruire il viaggio ulissico di una vita intera. Un’esperienza vissuta per il piacere di farlo e per quello di dare ad altri, specie ai più giovani, il distillato di una memoria che ho la presunzione di ritenere non banale.
Lungo il libro s’incontrano descrizioni delle sue frequentazioni con scuole di artisti e gallerie romane che hanno fatto la storia, come L’attico di Sargentini o L’Oca di Laureati. Quali sono i principali cambiamenti che rileva tra il clima artistico romano dell’epoca e quello presente?
In poco tempo, è cambiato tutto. Oggi, anche se l’Attico è ancora attivo, non esistono più Gallerie che dettano la linea culturale portando a valore la ricerca autonoma di singoli o scuole di artisti. Oggi esiste un sistema dell’arte onnivoro che tutto divora e digerisce per garantire business e accumulazione di capitali e di potere. Su questo ho scritto un breve libro che vi consiglio. Si intitola Se tutto è arte (Mimesis).
Rendere le atmosfere e individuare le specifiche linee di ricerca di una generazione che si è attraversata è un’operazione spesso complessa, perché alle volte si rischia di non essere oggettivi o di mettere a fuoco solo una parte del tutto. Cosa ne pensa della recente e dibattuta mostra messa in piedi alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea Un presente indicativo, che si propone di ricostruire le poetiche degli artisti romani nati negli anni Sessanta?
Ci sono delle assenze, come spesso capita in questi casi, ma la mostra merita il successo che ha avuto. Soprattutto per l’attenzione che presta ad alcuni artisti di valore come Andrea Aquilanti, Roberto Pietrosanti, Maurizio Savini, Paolo Canevari, Marco Colazzo e altri ancora.
“Viva gli irregolari” esclama in un capitolo del suo libro, riferendosi a chi non ha intrapreso un percorso di studi lineare, ma si è trovato, come lei, a toccare discipline diverse. Alberto Burri era anche un medico, Jerry Saltz, che prima era un camionista, ora è un critico d’arte e un’editorialista. Qual è il vantaggio di una formazione ibrida?
Io non sono contro le competenze, ci mancherebbe altro: sono contro la “dittatura delle competenze” soprattutto in certi ambiti. Non c’è dubbio ad esempio che Carlo Emilio Gadda sia stato uno dei massimi scrittori italiani del Novecento e che fosse laureato in Ingegneria, Burri un artista enorme laureato in Medicina, Renato Caccioppoli un matematico sublime e anche uno straordinario pianista. Sono a favore di una visione unitaria e immanente dell’attività umana, la cui capacità di espressione è appunto “irregolare” e indisciplinata, non suscettibile quindi di volgari e misere semplificazioni tassonomiche.
Proprio in questi giorni si sta agitando nel web un dibattito sul sistema dell’arte, nato da un corsivo di Achille Bonito Oliva su Robinson di Repubblica al quale anche lei ha preso parte con un intervento. Se dovesse vagliare il sistema dell’arte e sottoporlo ad un esame medico, quale sarebbe la sua malattia?
Molto stimolante il dibattito seguito al pronunciamento di ABO, onore e merito ad ArtsLife che lo ha sollecitato. La diagnosi della malattia dell’arte è semplice e complessa insieme. L’ho analizzata nel dettaglio alcuni anni fa in un saggio intitolato Arte e potere (Ediesse). Personalmente sono convito che, per secoli, l’arte sia riuscita a negoziare con il potere una sua possibile autonomia espressiva. Spuntando risultati che le hanno consentito straordinari sviluppi. Oggi, semplicemente, l’arte in linea tendenziale si è arresa (ma non è la sola ad averlo fatto) di fronte alla forza smisurata di un potere economico-politico-tecnologico-ipercomunicativo che l’ha – speriamo temporaneamente – silenziata.
Il capitolo Il collettivo di medicina è tangente ad alcune questioni politiche, racconta anche della crisi della sinistra italiana. Oggi però l’arte che si fa sociale e/o politica spesso corre dei rischi, si sente minacciata e per questo rientra nei suoi recinti estetici. Quale può essere un rimedio a queste dinamiche?
L’arte purtroppo – tendenzialmente – risulta essere “a catena” del sistema dell’arte. Achille Bonito Oliva, uno dei più grandi esponenti di questo sistema, lo ha del resto affermato senza tanti giri di parole nel suo recente corsivo. L’importante è capire qualcosa che ABO non precisa: questo sistema non è altro che una forma particolare di un’Industria culturale, espressione del Capitalismo finanziario dominante. È intuitiva dunque la direzione da scegliere per liberare l’arte dalla morsa di cui è prigioniera.
Nel suo saggio narrato tra i molti flashback, pensieri, riferimenti storici e letterari c’è spazio anche per un’osservazione “morale”. Menziona il “tradimento” tra coniugi come un gesto salubre e beneaugurale con una leggerezza quasi invidiabile e con un’audacia non indifferente per un paese di millenaria e consolidata tradizione cattolica…
Il libro alterna effettivamente piani di narrazione per così dire alti e bassi. Vi sono storie d’amore e di odio, di fedeltà e di tradimento, di amicizia e di rancore che si alternano a riflessioni di carattere più generale. Io non “consiglio” il tradimento (casomai non lo sconsiglio). Mi provo, questo sì, a ridimensionarne, in alcune particolari circostanze, l’importanza e il dis-valore sociale. Criticando un fondamentalismo giudicante che, spesso, non fa i conti con la natura umana e, soprattutto, con la circostanza, regolarmente rintracciabile, di lunghe relazioni pluridecennali che possono mantenere in vita un forte e pregiato sentimento, liberato però da quelle implicazioni patologiche che facevano considerare a Freud l’amore come “una malattia che però guarisce presto”. Il capitolo che lei cita, poi, è particolarmente giocoso e non intende “insegnare” niente a nessuno (o forse sì).
Da medico e cultore dell’arte nel suo saggio mette in pratica un’operazione affascinante: filtra la storia culturale italiana attraverso le malattie o le vulnerabilità che hanno colpito alcuni personaggi del nostro Paese. Il Covid-19 è la malattia che racconta il nostro tempo. Ritiene che dalle affinità del morbo si possa dedurre un’affinità mentale?
Non in senso stretto evidentemente. Ma sono convinto che la condizione di sofferenza, di fragilità che connota alcune patologie possa predisporre a controreazioni illuminanti. A creazioni sublimi e/o pedagocicamente inarrivabili, come nel caso di Giacomo Leopardi e Antonio Gramsci.
La chiusa del suo libro, in linea con l’oscurità del titolo – La notte più buia – non lascia spazio a molta speranza per un cambiamento attuale a livello socio-politico e quindi anche culturale e artistico. Ma dev’esserci una cura, qualcosa di amaro da poter mandare giù per poter trovare un equilibrio nuovo. Come medico quale cura consiglierebbe per uscire dalle tenebre e tornare a vedere la luce del sole?
Non basta inghiottire uno sciroppo, purtroppo, anche se amaro. Si tratta di rimuovere le condizioni che hanno messo l’arte al guinzaglio e nel tempo rischiano di inaridirla, di annichilirla. Per farlo bisogna attaccare e vincere quel potere che la domina. Ciò che mi rende ottimista, non nel breve periodo sicuramente, è che questa vittoria è necessaria, anzi indispensabile, non solo per salvare l’arte ma anche il pianeta e la specie. Lo dimostra la notte più buia della pandemia, dal profondo della quale questo libro è nato.