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Il cielo stellato, intervista all’artista Caterina Erica Shanta

Caterina Erica Shanta. Ph. Diego Mayon
Caterina Erica Shanta. Ph. Diego Mayon

Venerdì 17 marzo, presso la sede di Careof di Milano, si svolgerà il finissage della mostra “Il cielo stellato” dell’artista Caterina Erica Shanta, proponiamo un’intervista che affronta la complessità e la stratificazione di un progetto in cui la fotografia e il video interrogano la memoria, il vuoto e la sparizione.

Il progetto “Il cielo stellato” in mostra alla Fabbrica del Vapore presso gli spazi di Careof è l’esito di un lavoro durato anni in cui hai raccolto, attraverso una open call, immagini vernacolari che potessero ricostruire il rito collettivo della festa della Madonna della Bruna a Matera. Perché hai scelto come caso studio quell’evento?
La domanda che ha guidato la mia ricerca è stata: cosa accade alle immagini quando l’elemento attorno cui sono state create scompare? E soprattutto, cosa accade quando le immagini sono generate da una massa di dispositivi, ad esempio smartphone e macchine fotografiche digitali, puntati su questo unico elemento di attenzione destinato a scomparire?
Ho cercato un rito – quindi un evento che si reitera nel tempo – che facesse della sparizione dell’oggetto d’attenzione collettiva il suo elemento cardine.
La festa della Madonna della Bruna è un caso studio perfetto: l’elemento di attenzione è il Carro Trionfale della Madonna della Bruna, un gigantesco artefatto in cartapesta che viene smembrato – nel momento dello “strazzo” nel dialetto locale – fotografato e documentato ampiamente dalla popolazione nella piazza principale della città al culmine della festa.
La festa si svolge ogni anno il 2 luglio a Matera e dura quasi 24 ore, dall’alba a notte fonda.

Il cielo stellato, Caterina Erica Shanta. Installation view, Careof, Milano. Ph. Diego Mayon

Per tutto l’intero arco della giornata si assiste ad una particolare oscillazione che trasforma geometrie e spazi, attraverso l’uso strumentale di immagini bidimensionali e a tuttotondo, che però sforano nella virtualità e quindi nell’astrazione, nel momento culmine della festa.
Nello specifico la festa inizia all’alba con la “processione dei pastori”, alla quale partecipa simbolicamente chi appartiene al mondo agreste, quindi i pastori, che entrano in città con gli animali al seguito. In questa fase viene portata in processione attraverso la città l’immagine bidimensionale della Madonna della Bruna, riproposta sotto forma di dipinto su rame decorato con gioielli. Già nel pomeriggio l’effigie della madonna acquista “carne” e diventa tridimensionale, ossia una statua a tutto tondo in materiale ligneo a grandezza naturale – quasi – che viene trasportata in processione sino alla periferia della città. Prima della sua uscita, la Madonna della Bruna viene vestita in un luogo sacro nel cuore della città: la vestizione è un momento molto intimo e compiuto esclusivamente da donne – aggiungerei che è proprio per questo motivo che sono riuscita a realizzare le riprese video di questo momento solitamente poco rappresentato della festa.
Una volta giunta in periferia, la statua della Madonna della Bruna viene esposta al pubblico nella chiesa che in antichità si trovava fuori dalla città, Piccianello, oggi inglobata tra i quartieri costruiti negli anni del boom economico. È nella periferia che simbolicamente la città si rovescia, quindi la civitas medievale, nell’antica logica che oppone natura e cultura, entra in contatto con l’esterno o il “selvaggio”.
La Madonna viene perciò elevata sopra al suo “trono”, un carro trionfale di cartapesta costruito sopra lo chassis di un treno lungo 13 metri. Una volta sistemata sul carro, la Madonna viene scortata nuovamente verso il centro città e deposta in cattedrale.
Da quel momento il trono resta vacante e quindi consegnato alla popolazione che fremente lo aspetta nella piazza principale della città. Quest’ultimo momento è quello più concitato della festa, il suo climax che contiene la sovversione rituale: il carro trionfale viene lanciato con grande velocità in mezzo alla folla in attesa scalpitante. Nell’attimo in cui il primo braccio strappa un pezzo di cartapesta, inizia l’assalto. Dura pochi minuti in cui migliaia di mani afferrano ogni cosa.
È lo “strazzo”, la grande abbuffata nella quale il carro viene demolito dalla popolazione e scompare sotto gli occhi di tutti in pochi attimi.
Nell’attimo prima dello “strazzo”, le persone disposte circolarmente attorno al carro nella piazza, documentano, fotografano, realizzano video, attraverso smartphone e fotocamere. Il carro in questo breve istante è ancora integro e la folla disposta a 360° attorno scatta fotografie, generando così una fotogrammetria completa dell’oggetto centrale. Quindi la piazza inconsciamente realizza un rilievo del carro trionfale attraverso gli innumerevoli dispositivi.
Osservando questo momento ho deciso di diffondere l’open call per raccogliere proprio queste immagini massive, nel tentativo di mettere in evidenza un processo collettivo inconscio in grado di ricostruire virtualmente ciò che è scomparso.

Il cielo stellato, Caterina Erica Shanta. Installation view, Careof, Milano. Ph. Diego Mayon

In cosa consiste il lavoro di fotogrammetria che hai utilizzato e in che rapporto si colloca con la ricostruzione di Palmira dopo la devastazione terrorista?
La fotogrammetria è una tecnica di rilievo oggi ampiamente utilizzata in architettura e archeologia digitale. È una tecnica di conservazione che, con l’ausilio della fotografia, permette di creare un modello tridimensionale virtuale simile all’originale. Le fotografie dell’oggetto sono scattate in gran numero da diverse angolazioni a 360°, in questo modo il software che elaborerà le fotografie nel loro complessivo sarà in grado di comprendere dimensioni e dettagli dell’oggetto restituendone una copia virtuale tridimensionale in nubi di punti o poligoni.
Mi sono avvicinata al tema e a questa tecnica con un progetto precedente nato dalla collaborazione con l’università IUAV di Venezia sulla città di Palmyra e il suo sito archeologico. Era il 2015, c’era la guerra in Siria e ovviamente non era possibile andare fisicamente in loco. Il lavoro nato con la collaborazione con l’università “Omaggio di Venezia a Palmyra” ha permesso di focalizzarmi sulle persone che Palmyra la vivevano e l’hanno vissuta, tra città e sito archeologico, e che hanno creato e diffuso via internet immagini su di essa, al di là del turismo di massa. Ad esempio prima di ISIS il sito archeologico veniva utilizzato come piazza virtuale – con video caricati su youtube, attraverso i social o altri canali web – dalla popolazione locale per manifestare il proprio dissenso contro la dittatura di Bashar Al-Assad. Durante la ricerca la mia attenzione è caduta sulla reazione che ha avuto la comunità archeologica internazionale a seguito della distruzione del sito archeologico di Palmyra ad opera di ISIS. La comunità archeologica internazionale si chiese come preservare a distanza ciò che era andato distrutto dalle bombe, e tentò la via della ricostruzione virtuale avvalendosi di open call per raccogliere immagini finalizzate anche a fotogrammetrie.
Questa reazione ha acceso in me delle domande sulle prassi che delineano i nostri modi di agire per costruire la realtà che ci circonda. Mi sono perciò chiesta se non fosse possibile applicare lo stesso processo in un contesto più protetto all’interno del quale si reiterano centri elementi, ad esempio un oggetto rituale, in modo da poter delineare delle tensioni attorno alla mancanza dello stesso.
È qui bene evidenziare che i contesti sono differenti, come le radici storiche che hanno portato agli eventi, per cui non metterei mai Palmyra e Matera sullo stesso piano perché non sono la stessa cosa. Ho cercato di focalizzare l’attenzione sul processo tecnologico che si andava costruendo attorno a questo senso di mancanza e al tentativo di controllo sullo stesso in modo da metterlo in evidenza con Il Cielo Stellato.
Con Matera e il suo rito mi sono resa conto che fare fotografia – e quindi fotogrammetria se si costituisce una massa in relazione ad un oggetto di attenzione – è parte effettiva del nostro vivere odierno.

Il cielo stellato, Caterina Erica Shanta. Installation view, Careof, Milano. Ph. Diego Mayon

Il progetto e la mostra offrono due punti vista, le immagini fotografiche che ripropongono la fisionomia di strutture fantasma e un video che restituisce il prodromo della distruzione e quindi del lavoro stesso. Come dialogano questi due linguaggi?
Come accennato poc’anzi, il rito, la cui durata complessiva è di 24 ore, nella sua interezza è potenzialmente narrabile per intero attraverso le immagini vernacolari e gli innumerevoli punti di vista di coloro che vi partecipano. Quando sei li in mezzo ti rendi conto che tutto è fotografato e filmato, ovunque ti giri puoi vedere dispositivi che compartecipano all’evento. Da qui l’idea di ampliare l’intero progetto in modo da raccogliere i diversi punti di vista narrativi in un film mediometraggio, Il Cielo Stellato, dove la fotogrammetria si costituisce come momento finale. Inoltre il rito stesso è portatore di innumerevoli storie, animato ed attraversato da leggende e documenti generati da altre narrazioni.
Il film, prodotto da Careof e Invisibile film di Gabriella Manfrè e sostenuto da Lucana Film Commission, raccoglie diverse interviste che ho effettuato a Matera, in cui ho chiesto ad ognun3 di raccontare una propria storia della festa della Bruna. Alternate a queste interviste vi sono le immagini della festa stessa, girate sia da chi la vive, quindi con immagini effettuate da smartphone, sia da me e dai due operatori, Daniele Vascelli e Ugo Carlevaro.
Nel film si sovrappongono tempi e storie, con una narrazione che si propaga tra le case e connette le persone che vivono la città. Attraverso questi racconti ho tentato di mettere insieme i frammenti di una festa le cui origini sono antiche ed oscure, ripercorrendo i modi in cui essa si è trasmessa e rappresentata in tempi recenti.
Un capitolo del film è dedicato proprio al cinema che a Matera venne visto o girato quando i Sassi furono sfollati. La festa è entrata anche nelle narrazioni filmiche, come la storia del Conte di Matera di Luigi Capuano, un film che fu visto al cinema Impero a Matera negli anni ’50 e che ha consolidato nell’immaginario collettivo la figura del conte come tiranno. O ne La Lupa di Alberto Lattuada dove il Carro Trionfale della Bruna sfilò per il film, o lo spirito mistico locale ripreso dal Vangelo Secondo Matteo di Pier Paolo Pasolini. L’idea che il cinema, quindi la narrazione filmica e il suo apparato tecnologico siano entrati dentro la festa è ripresa anche nell’atto finale del film Il Cielo Stellato, quando allo “strazzo” del carro si accompagna il momento radicale della sua astrazione virtuale nelle fotogrammetrie in nubi di punti generati dalla piazza. Migliaia di telefoni dallo schermo luminoso accompagnano e seguono gli oggetti in cartapesta strappati, mescolandosi sino a confondersi.
In mezzo a questa foresta di dispositivi la telecamera da oggetto tangibile diventa virtuale e si muove in totale libertà attraverso i modelli tridimensionali della fotogrammetria. L’immaterialità dei modelli virtuali oscilla nel suo potenziale riproducibile, per diventare nuovamente tangibile, in perenne oscillazione tra piani differenti. Per questo in mostra ci sono i prospetti – o rotazioni – dei modelli tridimensionali ricostruiti tramite la tecnica della fotogrammetria, “Soggetti Ricostruiti”, che sono stampati su carta come fotografie. Accanto ad essi ci sono le “Icone”, ossia le singole statue isolate dal contesto e riproposte in mostra sotto forma di processione virtuale degli oggetti.
In una sezione a parte ho riproposto delle immagini provenienti dall’archivio storico Franco Palumbo, che fornisce un rapido excursus sugli aspetti più storici e popolari della festa, accompagnato dal video “Acheronte” che ho realizzato sulla transumanza tra la Murgia materana e il fiume Bradano. La transumanza qui proposta contiene l’incipit del film Il Cielo Stellato, che racconta la processione dei pastori.

Il cielo stellato, Caterina Erica Shanta. Installation view, Careof, Milano. Ph. Diego Mayon

Il cielo stellato a cui fai riferimento nel titolo è la moltitudine di smartphone e macchine fotografiche che circondano e immortalano il carro prima della sua sparizione definitiva. Il tuo lavoro si confronta spesso con immagini d’archivio e si risolve, in molti casi, in video documentari. Qual è il tuo approccio metodologico all’archivio e nel caso specifico ad un archivio che tu stessa hai generato o raccolto?
L’archivio si è generato attraverso la libera partecipazione di chi ha voluto contribuire al progetto. La diffusione è stata capillare, tra social media, giornali locali e comunicato stampa presso la Fondazione Matera 2019. Era il 2017. L’open call è rimasta aperta per quasi un anno e sono riuscita a raccogliere moltissimi materiali tra fotografie e video, contributi narrativi e testimonianze. Questa grande partecipazione confluisce per la moltitudine sicuramente nel titolo Il cielo stellato.
Tuttavia il titolo stesso si riferisce a un percorso di astrazione e virtualizzazione dello spazio che si relaziona al corpo umano e ai suoi dispositivi attraverso il concetto di “uno e tre cieli”. Il primo cielo è una descrizione antica della città di Matera effettuata nel 1703 da Giovan Battista Pacichelli nel suo Regno di Napoli in prospettiva: “I lumi notturni” li fanno “parere un cielo disceso e stellato”. L’idea della vallata dei Sassi di Matera come città/cielo speculare alla volta celeste, si riferisce alle innumerevoli luci delle candele che di notte si diffondevano dalle aperture delle case scavate nel tufo.
Il secondo cielo si delinea con l’orizzonte tecnologico e digitale che si forma poco prima dell’assalto del carro trionfale, quando migliaia di smartphone dallo schermo luminoso, si elevano sopra le teste degli spettatori. Ognuno di essi scatta immagini fotografiche dell’oggetto e assieme realizzano inconsciamente una copia virtuale del carro trionfale sotto forma di fotogrammetria, ossia una nube vettoriale di punti luminosi nello spazio nero virtuale, ossia il terzo cielo stellato.
Appare quindi che lo “strazzo” fisico, dove le persone demoliscono fisicamente il carro, s’accompagna ad uno “strazzo” virtuale, dove ognuno si appropria di un prospetto fotografico dell’oggetto d’attenzione.
Chiaramente l’immagine restituita nella fotogrammetria fa perdere qualunque connessione con il singolo autore della fotografia che ha contribuito a creare il modello, poichè ogni immagine entra a far parte di un grande archivio di dati digitali atti a generare i modello nell’insieme degli elementi. L’ultimo salto, il terzo cielo descrive un atteggiamento, una prassi collettiva quasi inconscia.
Per quello l’azione di diffondere l’open call per raccogliere queste immagini vuole mettere in evidenza questo aspetto e l’archivio ha potuto esistere solo attraverso una grande partecipazione. Ho curato personalmente tutte le relazioni, dialogato con ognun3, per far sì che tutto questo potesse acquisire sostanza. Alla fine del film, come ringraziamento, sono elencate tutte le persone che hanno contribuito alla generazione dei modelli tridimensionali e quindi dell’archivio di una festa raccontata attraverso piccoli dispositivi.

Il cielo stellato, Caterina Erica Shanta. Installation view, Careof, Milano. Ph. Diego Mayon

Questo progetto sollecita un interrogativo, non abbiamo più diritto all’oblio?
Il diritto lo abbiamo sicuramente, il come ottenerlo è complesso, specialmente se si tenta di elidere le tracce digitali che ci lasciamo alle spalle. A mio modesto avviso l’anonimato è contestuale al luogo in cui ci si trova e alle relazioni che intercorrono tra le persone tramite i dispositivi che le circondano e che usano. Basti pensare a chi può produrre immagini e poi permettersi l’oblio come scelta e a chi non può permettersi di produrre immagini per cui l’oblio non è una scelta. Le leggi che regolano l’oblio e l’anonimato sono così variegate e differenti che è difficile prendere una posizione netta, poiché sono maggiori le aree grigie che quelle chiare e comprensibili, soprattutto per quanto riguarda le conseguenze delle leggi applicate.
Credo che non sappiamo ancora esattamente a cosa porterà questa enorme produzione di immagini, soprattutto in termini di nuove tecnologie, intelligenze artificiali che si nutrono di grandi masse di dati e quant’altro. Forse sono solo spiragli di un’evoluzione tecnologica nella quale ci troviamo immersi ancora di difficile discernimento.
Queste tecnologie sono strumenti, l’utilizzo e le conseguenze politiche di tale utilizzo sono ancora in essere su un globo terrestre oggi intensamente collegato via web.

Il cielo stellato, Caterina Erica Shanta. Installation view, Careof, Milano. Ph. Diego Mayon

Il tuo recente lavoro “La Tempesta” (terminato nel 2019) mette a confronto la tempesta Vaia del 2018 con l’alluvione di Firenze del 1966. Anche in questo caso ti interessi ad una sparizione (alberi abbattuti e una città sommersa dal fango) e a quello che può riemergere e sopravvivere, a quell’archivio inconsapevole capace di ricostruire o costruire una nuova narrazione. Forse il tema della memoria e della sua ricostruzione è uno dei fili conduttori della tua ricerca?
Si, la memoria soprattutto, quella memoria che si crea attorno ad un vuoto, una frattura centrale, una domanda alla quale non c’è una sola risposta. Nella mia prassi spesso coinvolgo gruppi di persone, collettività, o singole persone se la collettività non è più data. Gli archivi sono una traccia rimasta a terra, o in qualche scatola, sono memorie personali che si fanno collettive, che toccano questioni che coinvolgono altre persone. Sono frammenti che dal personale si fanno politici, aperti al dialogo, alla discussione.
Con i miei lavori tento di riattivare una discussione, è un modo anche per me per imparare, per comprendere come funziona la memoria, per conoscere nuove storie, per esplorare altre modalità per rimetterle in circolo.
La tempesta Vaia, come l’alluvione del ’66, seppur avvenute con tempi e geografie differenti, fanno parte di una tensione che è il cambiamento climatico, che lascia detriti e archivi a cielo aperto. Per me sono Archivi perché sono frammenti che testimoniano, sono documenti, come gli anelli di accrescimento degli alberi, la cui conformazione e disegno indicano passati avvenimenti, incendi, infestazioni, siccità, alluvioni, etc. Sono memorie che cerco di ricucire, di mettere assieme per porre domande.

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