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L’Hybris di Rezza alla Tosse

Hybris di Flavia Mastrella e Antonio Rezza è andato in scena il 17 e il 18 marzo al Teatro alla Tosse di Genova. Ecco la recensione

A quest’ultimo spettacolo, che ha debuttato al Festival dei Due Mondi Spoleto nell’estate 2022, Antonio Rezza ha voluto dare un titolo importante, Hybris, riportandoci a quel peccato che figura nelle conoscenze della Grecia antica come un atto di insubordinazione che gli uomini compiono rispetto agli Dei. In realtà possiamo dire che Rezza ha sempre un po’ peccato di hybris, perchè non vi è nessuna sua performance in cui non sia chiara una certa deificazione di sé stesso. Rezza infatti, sempre animato dalla percezione muscolare della propria potenza, di ciò che sa e può fare, divinizza il proprio operato. C’è da dire che lo fa bene e soprattutto diverte.

Così è accaduto il 17 e il 18 marzo quando è tornato sul palco della Sala Trionfo del Teatro alla Tosse di Genova con lo spettacolo firmato a quattro mani con Flavia Mastrella, sua partner da sempre, che anche se non appare fisicamente, sappiamo essere lì, presentissima con lui, in ogni momento.

Hybris nello spettacolo Rezza – Mastrella si manifesta come dissidio interiore, tradimento dell’atto di coscienza, identità stessa del peccato. In una modernità che ha ridotto ai minimi storici la presenza di Dio nella vita dell’essere umano, chi è oggi Dio se non l’Io, inteso come Ego prorompente? La definitiva divinizzazione dell’umano, di cui oggi abbiamo l’apoteosi, non è altro che l’amplificazione del peccato di hybris al massimo livello. Da tempo l’uomo divinizza sè stesso, beandosi di fotografarsi col proprio cellulare in ogni momento della sua banale quotidianità. Se non è questo un peccare di superbia verso sè e verso gli altri! Insomma, siamo diventati tutti “Dei”. Questo lo hanno capito benissimo Rezza e Mastrella: in un mondo di falsi valori l’uomo perde l’orientamento, perde il suo regno così in terra e non in cielo. L’uomo diventa belva all’interno di quelle gabbie che lui stesso ha costruito. Le gabbie imposte dal mondo delle leggi che ti catalogano sin della nascita, che ti impongono un nome che magari non vuoi e non ti piace, gabbie che ti vogliono acculturato per trovare inserimento degno nella società, che ti vogliono educato, fidanzato e via dicendo. Ti vogliono dentro a canoni precostituiti. Uno schema che certo a Rezza e Mastrella non va bene, ma non solo, uno schema che loro sentono di denunciare facendo uso della Hybris al contrario.

La porta che in questo spettacolo non è solo un attrezzo di scena, ma la protagonista assoluta, rappresenta un portale nel vuoto. Attraversarla significa avere la possibilità di entrare in un mondo alternativo. Se passo di qua accade questo, se passo di là succede il contrario. Ma è proprio così? Alla fine capiamo che non c’è una parte migliore in cui stare. Tutto è simile. Non c’è un’alternativa migliore in questa vita. Aprire la porta significa entrare in contatto con gli altri che, come noi, sono altrettanto pieni di incertezze, insicurezze e ambiguità. Insomma siamo tutti uguali. Certamente c’è chi, trovandosi in posizione di potere, detta le regole: i politici. A questo peccato altrui di Hybris, Rezza risponde facendosi lui Stato.

“Ho l’inconscio yankee che fa quello che cazzo gli pare ma poi la colpa è degli altri” dice in una battuta dello spettacolo e secondo i suoi criteri decide chi sta dentro e chi sta fuori, diventa arbitro del destino degli altri, prevaricando la libertà altrui.


Quella porta che simboleggia il vuoto e la divisione, si apre e chiude su ciò che non esiste. Rezza e i sette attori che abitano il palcoscenico si muovono in un turbinio di situazioni in continua metamorfosi. Lui solo però è il mattatore, la marionetta crudele che si offre umilmente al nostro occhio come vittima sacrificale. Perchè la belva non è lui, ma noi che siamo lì assetati di risate. Belve che dietro quella voglia di ridere (che fa tanto bene allo spirito) non riconosciamo l’agnello portato al macello. Rezza si offre nudo nel vero senso della parola, si spoglia veramente del suo abito di lustrini luccicanti. E’ un arlecchino artaudiano che rivolge verso sè stesso i dardi più acuminati della sua folle analisi da “psicotropo”. Gli altri personaggi rappresentano le disarticolazioni della sua personalità e della sua famiglia, si esprimono pochissimo e quando lo fanno la loro voce arriva come qualcosa di poca importanza. Ma lui li vuole sul palco, ne ha bisogno, senza di loro la piece non avrebbe senso in quanto è grazie a loro se riesce a vomitare quell’ un’incredibile mitragliata di gag verbali e fisiche, comprese le bestemmie non dette ma fischiate. Ancor più terribili perché non pronunciate. “Dio è morto” diceva una canzone di Guccini e allora contro chi questa Hybris? Ma noi fingiamo di illuderci che la compagnia premiata con il Leone d’Oro 2018 alla carriera dalla Biennale di Venezia non narri di noi, ma di quegli altri che stanno là, oltre la soglia, e continuiamo a ridere.

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