“Chronorama. Tesori fotografici del 20° secolo”. Settant’anni di storia dagli archivi Condé Nast in mostra a Palazzo Grassi, Venezia, fino al 7 gennaio 2024
Settant’anni di storia – dal 1910 al 1979 – documentati dalle pagine patinate delle riviste top di Condé Nast – Vogue, Vanity Fair, House & Garden, Glamour, GQ –, o destinati a essere “racchiusi”– perché contenuti in foto mai pubblicate – negli archivi della casa editrice americana che vanta scatti firmati dai fotografi più interessanti della contemporaneità.
Perché dunque solo settant’anni? In particolare, il focus della mostra “Chronorama. Tesori fotografici del 20° secolo” aperta (fino al 7 gennaio 2024) a Venezia a Palazzo Grassi, si concentra infatti su questo lasso di tempo. A esso appartengono le foto che sono state acquisite dalla Pinault Collection direttamente da Condé Nast America, e oggi giungono in Laguna grazie alla curatela di Matthieu Humery, deputato a pieno titolo alla tutela e alla valorizzazione delle collezioni fotografiche del magnate francese François Pinault. Tali immagini storiche dialogano inoltre con quattro giovani artisti invitati a esporre negli spessi spazi per il progetto “Chronorama Redux”: Tarrah Krajnak, Eric N. Mack, Giulia Andreani e Daniel Spivakov, che dalle foto qui presentate hanno tratto ispirazione per i loro lavori.
In catalogo (Marsilio Arte), impeccabile dal punto di vista della qualità della riproduzione delle 407 opere esposte e dei testi che – densi di fatti, aneddoti e personaggi – affrontano decade per decade l’evolversi de “il secolo breve”, come lo storico Hobsbawm ha definito il Novecento, Bruno Racine, direttore di Palazzo Grassi, si sofferma sull’incalzante mutevolezza delle mode che attraversano i decenni: “Le immagini, scatti catturati da molti fotografi, alcuni famosi, altri sconosciuti o quasi del tutto dimenticati, ci ricordano che è impossibile scindere la moda dall’arte, dal teatro, dalla danza, dall’architettura e dalla realtà urbana. Nonostante la mostra segua un ordine rigidamente cronologico, l’esperienza delle immagini è tutt’altro che lineare. Quindi, quel che un tempo era considerato audace e radicale, come una donna con indosso i pantaloni agli inizi del XX secolo, più tardi potrebbe rappresentare il massimo dell’eleganza o della banalità”.
Il riferimento è preciso, allude infatti alla fotografia di Paul Thompson che ritrae, intorno al 1911, la dottoressa Mary Walker, la prima donna a indossare i pantaloni in pubblico. Unica chirurgo- donna ad aver ricevuto la Medal of Honor, la più alta decorazione dell’esercito americano, fu anche – ça va sans dire – femminista, abolizionista e proibizionista. Nella sua posa austera e ieratica – si insinua il dubbio se sia mai stata dotata di qualche femminilità – nulla la può accomunare alle languide icone delle dive del palcoscenico che “bucano” l’obbiettivo di tanti autori che furono legati a Condé Nast da un rapporto duraturo e intenso. Per esempio, Adolph de Meyer che proprio grazie all’editore Nast durante la Prima Guerra Mondiale cominciò a dedicarsi alla fotografia di moda, contribuendo a far uscire di scena le deliziose illustrazioni tra Liberty e Déco che erano in voga sulle riviste dei primi anni del secolo. Di queste a Venezia si possono gustare alcune magnifiche prove firmate da George Wolfe Plank, Helen Dryden o Georges Lepape.
Cambio di passo negli anni Venti, quando ormai gli stili di vita avevano acquisito i connotati della modernità. Balzano quindi alla ribalta artisti come Edward Steichen che immortalò in “Vanity Fair” l’attore e regista Douglas Fairbanks (1924), il re di Hollywood, in un’insolita inquadratura, ovvero di nuca, abito scuro e camicia bianca – nella posa di spalle l’immagine anticipa il ritratto del mecenate Edward James dipinto da Magritte anni dopo –, e Lee Miller (1928), futura fotografa di successo e grande amica di Man Ray, apparsa su “Vogue” come seducente modella à la page.
Da parte sua George Hoyningen-Huene ci ha donato su “Vanity Fair” il volto di Josephine Baker (1927) – idolo, con La Revue Negre, delle scene internazionali – racchiuso in un frame tagliato in diagonale che esalta il suo glamour, e su “Vogue” quello dello scenografo Oliver Messel (1928) immerso, fra maschere di sua creazione, in un’atmosfera onirica che non mancò di far vibrare le corde della cinematografia surrealista dell’epoca, e non solo.
Ecco gli anni Trenta con l’ingresso di Horst P. Horst, autore su “Vanity Fair” di Manichino di Maurice Chevalier a opera di Pierre Imans (1931) – scatto non meno inquietante di quello dedicato a Messel – come del misterioso ritratto della moglie del pittore José Maria Sert – nota socialite –, nonché di Cecil Beaton: indimenticabile in “Vanity Fair” la bellezza sensuale di Marlene Dietrich da lui accostata alla carnosità di un candido giglio (1932). Illustrano su “Vogue” il mood di un decennio proiettato verso il futuro anche gli scatti di Margaret Bourke White, documentati in mostra dal metafisico Tenniste in un campo su una terrazza contro lo skyline di Manhattan (1931), foto che ammiccava all’avvenuta “liberazione” della donna nella vita sociale newyorkese.
Appaiono intanto le prime foto di interior in House & Garden, ovvero le abitazioni comme il faut, ma anche improntate ai rigori dell’astro nascente del design. Sfilano pugili (Joe Louis by Acme), politici (Churchill by Steichen), scrittori (John Mc Mullin by Hoyningen-Huene), giovani musicisti (la jazz band by Remie Lohse). Tutto quanto poteva documentare ed esaltare le tendenze dernier cri era tenuto d’occhio dalle redazioni capitanate dal direttore artistico Mehemed Fehmy Agha attentissimo all’aggiornamento editoriale modulato sempre sui criteri dell’eccellenza. Hollywood lanciava i suoi dictat. E Steichen, un americano che aveva idea di cosa avvenisse a Parigi per avervi lavorato, divenuto direttore della fotografia di “Vogue” a New York dal ’23 al ’37, imperava.
Cominciavano intanto a spirare i venti di guerra, ma secondo alcuni gli anni Quaranta furono il decennio decisivo per la casa editrice. Muore Mr. Nast, il fondatore, ed esordiscono Alexander Liberman come direttore artistico, e Irving Penn, acclamato autore di still life – allora sovversivi quanto inquietanti: mozziconi di sigaretta e pane sbriciolato –, di impeccabili scatti di moda e di ritratti esplosivi come quello del giocatore di baseball Willie Mays (1959). Liberman affermò: “Il layout stile album fotografico era troppo statico e datato, non aveva la fluidità cinematografica che cercavo”. Dunque una rivoluzione in casa, che avrebbe portato a grande successo in tempi brevi. Nuovi volti e nuovi divi: Vivien Leigh e Lauren Bacall, ma anche grandi nomi dell’arte e dell’architettura: Dalì, con la moglie Gala, e Le Corbusier.
Gli anni Cinquanta non fanno che confermare i traguardi raggiunti e sanciscono la nascita di nuove stelle nel firmamento della fotografia: Diane Arbus e Weegee. Ma fu con l’avvento nel ’63 di Diana Vreeland alla direzione di “Vogue” che le pubblicazioni Condé Nast spiccarono il volo. Samuel Newhouse, che aveva acquisito il gruppo nel ’59, vide in lei, reduce da un’importante esperienza presso Harper’s Bazaar, il deus ex-machina necessario a interpretare le ultime mode e a tradurle presso il pubblico in imperativi di stile.
Derry Moore inquadrava Gilbert e George come sculture viventi, Ugo Mulas Fontana alle prese con i suoi tagli. Il mondo pop e underground “emergeva”, non solo nell’arte ma anche nel fashion. Nascevano nuove, idolatrate icone femminili: Benedetta Barzini, Jane Birkin, Twiggy. Fra le più carismatiche, Veruschka, altissima, algida, raffinata, lanciata dal fotografo Franco Rubartelli, che condivise con lei professione e vita sentimentale per una decina di anni, plasmandone l’immagine.
Sfonda il look di Arnold Schwarzenegger come quello, agli antipodi, di Helmut Berger. Negli anni Settanta, epoca di grandi rivoluzioni sociali, i prìncipi della fotografia sono Helmut Newton – trasgressivo –, Arthur Elgort – naturale e solare –, Deborah Turbeville – sofisticata e inquietante –, Richard Avedon – campione di glamour –, nonché l’impeccabile Hiro.
I “giganti” si incontrano e si sfidano, dunque, al di qua e al di là dell’obbiettivo, per trionfare poi sulle pagine prodotte incessantemente dal gruppo americano che conta ormai propaggini in vari continenti ed è riconosciuto come imprescindibile fonte di informazione per tutto ciò che di eclatante si configura nel mondo. Con buona pace dell’industria della moda e della pubblicità che a essa fa da corollario. Ma Pinault Collection sa che queste immagini irripetibili e ricche di significati stratificati e intrecciati fra loro, non sono nate solo per fare effimere apparizioni su riviste a larga tiratura. Hanno vita a sé, e a Venezia, come non mai, rivendicano diritto di esistere come opere d’arte, inattaccabili dai capricci del gusto.