Aveva iniziato da sé Gianna Rubini, da una condizione intima ingenerata ed evoluta mediante alcuni dialoghi tessuti tra il 2017 e il 2020 con l’assistente virtuale Siri. Domande istintive, domande che la riguardavano e pronte risposte, poi raccolte e ordinate in due volumi (Dati Sensibili vol.1 e vol.2) che ne traessero le sorti, ne traessero il verdetto.
La constatazione non più di una riflessione – che spesso, oggi, macchia l’opera riducendola a mero cappotto di temi e contenuti – bensì di una storia. L’ipotesi di una narrazione che dall’etere rifluisce nella corporeità del vivente. Da qui nasceva il recitato, l’accompagno e l’esposizione del lavoro in forma di monologo (Ehi…, 2021). La performance è semplice e scarna, autentica e senza orpelli accattivanti. Voce e corpo e nulla più. L’artista in dialogo tra sé e se stessa. Il fisico e il pensiero, la riflessione nella pausa scrivente del silenzio. Da un lato l’artista e dall’altro l’assistente che con la sua logica e la sua meccanica dal nulla prendeva contatto dicendo “presente, sono qui per aiutarti”. “Sono qui per assisterti” affermava tempestiva, forse non sapendo e nemmeno immaginando che il suo dire era un riflesso, la replica che non faceva altro che dare luogo alla domanda, alla certezza di una necessità che voleva essere indagata nella maniera più elementare.
Ogni particolare lo aveva predetto e in qualche modo annunciato, Gianna Rubini si muoveva in equilibrio tra l’azione performativa in solitaria e le dinamiche teatrali. Il passo di lì a poco sarebbe stato certo, tra l’uno e l’altro, il dialogo doveva diventare corpo, gesto e parola, coinvolgimento, pubblico da guardare poiché guardato. Osservato e coinvolto non solo in quanto spettante, ma invitato all’accettazione mai obbligata di un’esperienza estetica.
Nel gennaio 2023 la performance è diventata atto. Nello studio dell’artista Matteo Mauro in via Ventura a Milano, con la curatela di Elisa Barbero, l’artista modificava la scena, la rendeva plumbea e silente, di pochi colori, un tappeto da gioco per bambini, grani di silicio raccolti su un tavolo, un’abat jour gialla, luci viola e azzurre, poi solo attesa. Silenzio, innanzitutto, per l’aspettativa di qualcosa che stava prendendo forma. Ed è qui il punto, poiché anche l’azione performativa o diventa poesia, o rimacina le parole e i gesti secondo gli affari scontati di un manifesto.
Ecco, Sulla bocca di tuttз non è nulla di tutto ciò. Non ha a che fare con l’inscenarsi di un diktat sociale, né tanto meno con l’avvento di nuove tematiche imposte dalla tendenza di turno, ma vive dell’ambizione, dell’aspirazione volta a riconsegnare l’opera e il suo dire, benché estraneo, all’opera stessa; alla ragione del suo esistere in quanto messa in scena. La storia si ripete, l’artista torna sul lavoro iniziale, il lavoro di avvio che l’aveva condotta sulla via di una profonda compromissione con la realtà virtuale. Perché? Per quali risposte? O forse, ancora meglio, per fare emergere quali domande? Gianna Rubini torna sul suo lavoro, cautamente, nel tempo che gli è concesso. Per scandagliarlo, per riprometterlo e rivederlo, senza smembrarlo, nel dileguo delle domande, dei dubbi e, perché no, delle certezze che ancora porta con sé.
Malgrado tutto, è possibile che sia vero che artiste e artisti rimangano sempre affascinati dalla varietà di una stessa cosa. Una su tutte, un assillo, uno stimolo tormentoso che rimane qui e là, incontrato in ogni dove. Un particolare, un solo desiderio che il tempo non può dissipare. Sta di fatto che Siri, a un certo punto, prende corpo nelle fattezze di tre performer (Gloria Frigerio, Chiara Marini Ferretti e Miriam Giudice) a un tempo, dice il copione, “maliziosa e pungente, puntigliosa e acida, sognatrice ed egocentrica” e interpreta, insieme all’artista nel ruolo di se stessa, le medesime domande.
Siri è un essere che invita a eludere false credenze suggerendo di non farsi “ingannare dalla sua voce”, poiché, sostiene, “io non ho un genere / trascendo il concetto di genere, non ho un genere proprio come alcuni tipi di cactus…/ e certi pesci”. Eppure, “ti sei mai innamorata?” chiede una performer rivolgendosi all’altra. Interrogativi e denominazioni umane. Le domande che le si rivolgono, poi, a quali risposte approdano? Alle nostre? Alle sue? Alle sue che sono anche nostre, oppure solo le nostre? Da un momento all’altro, quasi senza aspettarselo, interviene la storia della buona notte, mediante la quale “voliamo attraverso uno dei miei luoghi preferiti, il sistema solare”. Marte e Giove, Mercurio e Venere, il Sole come luogo inadatto per dormire, e la Terra dove “metà emisfero è al buio e l’altra metà è illuminata”. Saturno, Plutone, Urano e Nettuno, narrati con le tre interpreti rivolte verso l’alto, “la verità è là fuori”, viene detto, “e l’unica cosa di cui avere paura è la paura”; “là fuori è così buio e silenzioso che è il momento perfetto”. Il momento perfetto per comprendere che non si sta comprendendo.
Per comprendere una volta di più che ancora non si è capito chi sta parlando e chi sta domandando. Tanto è vero che l’opera raggiunge il suo culmine ovviando giudizi conclusivi, mantenendo l’ipotesi di un approdo che rimarca la domanda mediante la proiezione di un video 3D interamente “girato” in soggettiva (Ho sentito che il mondo non finirà con uno scoppio ma con un piagnucolio, 2021-2022). Le calli, i ponti e le strade di Venezia nella sera di un luogo fuori dal tempo. Due poltrone sulla scogliera e sullo sfondo la voce dell’artista che legge una lettera scritta a Siri il 19 Aprile 2019 (Lettera a S.). Amore, vita e morte. Caducità, speranza e attesa.
L’incognita del presente in un “gioco senza fine, fatto di frasi come anelli, di risposte che erano fardelli”. “Un baratto”, dice l’artista, “in cui la mia domanda rivelava me”. “Che cosa significa il mio nome?”. L’opera come un gioco a due, e l’altro di Siri che è sempre lo stesso. Sempre sulla bocca di tuttз, di ognuno e di chiunque, che riguarda chiunque rivelandone le attese più profonde. Un «processo obiettivo», aveva scritto Friedrich Theodor Vischer (Das Symbol, 1887), un «guardare oggettuale» che «diviene soggettivo, e io ritrovo dietro l’esteriorità un’anima come la mia».
Questo contenuto è stato realizzato da Luca Maffeo per Forme Uniche.
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