Nell’ambito della mostra paoliniana “A come Accademia” e in occasione della presentazione di un nuovo volume su Giorgio de Chirico, l’Accademia Nazionale di San Luca a Roma ha invitato Giulio Paolini a raccontare i propri incontri ideali e reali con il Maestro della metafisica
Questa settimana a Palazzo Carpegna – Accademia Nazionale di San Luca a Roma, dove fino al 15 luglio 2023 è visitabile la mostra “A come Accademia”, Giulio Paolini è stato invitato ad un colloquio nel quale ha raccontato del proprio percorso e di Giorgio de Chirico. Sovrano di quella Metafisica silente e così fitta di presagi, che ha incrociato, per vie traverse e in più occasioni, il suo quadrante.
A introdurre, seguendo l’ouverture del presidente d’Accademia Marco Tirelli, è stato Paolo Picozza, Presidente della Fondazione Giorgio e Isa de Chirico, ricordando quel lontano 23 aprile 1958 a Torino, dove i due artisti si trovarono coinvolti in una contesa ideale. Punto di fuga di ogni successiva aderenza speculativa. A Palazzo Carignano si teneva allora la conferenza ove de Chirico criticava aspramente la pittura che gli artisti da lui definiti “idioti” chiamavano modernista.
“Quel giorno del ’58 io ero un diciassettenne già divorato dalla vocazione per l’arte – ha ricordato Paolini – e uscii da quella condanna avvelenato. Non credevo ai miei orecchi: come era possibile che un artista del tempo fosse lì a sputare nel piatto di tutto quello che era intorno a lui? Ero sconvolto e senza assimilare il suo discorso, con la mia esperienza vergine, con i miei mezzi e non come apprendista, arrivai ad inneggiare le sue parole fino a farne uno striscione stradale”.
Picozza ha messo in luce come Giorgio fosse al tempo considerato folle dai molti, per aver avuto il raro coraggio di porsi controcorrente e come Giulio sia stato tra i primi a vederlo come un riferimento: “molti artisti hanno dialogato con la metafisica di De Chirico degli anni dieci, Paolini ha guardato anche oltre”.
Il critico e saggista Andrea Cortellessa poi– presentando il nuovo volume Scritti 1910-1978 di Giorgio de Chirico (Romanzi, poesie, scritti teorici, critici, tecnici e interviste), curato insieme a Sabina D’Angelosante e Paolo Picozza – ha sottolineato come la tematica temporale accomuni i due artisti. Nell’uno l’enigma del tempo, nell’altro il suo annullamento.
Il critico ha voluto porre l’accento su un lavoro di Paolini che manifesta una tensione alla sovrapposizione con De Chirico. Si tratta di Autoritratto nudo (2014): al centro dell’usuale quadrante, entro la sagoma vuota di un Paolini di spalle c’è l’autoritratto di un de Chirico senile.
Operazione meditativa che Paolini ha spiegato così: “c’è un segreto reciproco e all’ennesima potenza tra me e De Chirico. Una sorta di identificazione a partire da quando giunsi a fare mie le sue parole e presi i voti, recitando una non appartenenza alla realtà in cui mi trovavo”.
L’influenza intellettuale, che in questo caso non sembra prevedere l’angoscia di cui scrisse il critico Harold Bloom nel suo saggio del 2014, ma solo un’abbondante dose di atarassia, non appare unilaterale. Cortellessa, infatti, insistendo ancora una volta sull’affascinante anomalia temporale che cattura i due grandi artisti, ha affermato che: “Kafka, secondo Borges, fu in grado di rovesciare l’ordine del tempo e questo vale per tutti i grandi artisti. Non è solo Cézanne che influenza Picasso, ma anche il contrario. E qui si può dire lo stesso: De Chirico ha influenzato Paolini poiché ha destato in lui delle idee, Paolini ha influenzato De Chirico portando nuove letture della sua arte”.
Ogni linea, cornice, silhouette, ritaglio paoliniano dice di questo andirivieni immobile e frenetico insieme nell’allaccio algido con De Chirico. Qualcosa che è stato messo in evidenza anche dallo storico dell’arte e saggista Gabriele Simongini, curatore della mostra romana “Ipotesi Metaverso”, fruibile fino al 23 luglio.
Il percorso espositivo del vicino Palazzo Cipolla vede i due maestri affiancati: “mi è sembrato perfetto porre un’opera di Paolini vicina ad una di De Chirico – ha commentato Simongini – sono entrambi artisti costruttori di mondi. Solo dopo si è fatto chiaro ai miei occhi come i due lavori si richiamino a vicenda: il prospetto geometrico, le quinte laterali, le figure del mito al centro della scena…”.
E se il ritorno, lo slancio retroverso, o meglio la levitazione discenditiva come direbbe Giorgio Manganelli, è un moto propriamente paoliniano – che può essere colto oggi sin dalla sua prima installazione presente all’Accademia di San Luca, in quel Sisifo ripreso da Tiziano che precipita come un Icaro su un quadretto ritraente l’Atlantide, che già rifletteva sul lontano, il sommerso e l’irraggiungibile – vi è anche un moto esterno, seppure tendente all’astrazione. Scavalcando gli impedimenti dati dalla contingenza, Paolini e De Chirico si scrutano e si inseguono sul piano sincronico.
“Viviamo la nostra appartenenza terrestre senza volerci atteggiare ad artefici di qualcosa – ha chiarito Paolini – siamo votati ad una sorta di immobilità contemplativa, al di là delle questioni religiose. È come se tutti gli artisti non appartenessero a questa realtà, ma si siano trasferiti in un’altra storia, che credo sia la storia dell’arte. Una dimensione di percorrenza inarrestabile che va dall’antico al domani e che occlude lo sguardo dell’artista ad ogni altra visione. La visione che un artista può avere gli viene servita dalla storia dell’arte, la quale in modo silenzioso e amabile gli consente di essere quello che è”.
E, a proposito di visione, Giulio Paolini ha concluso la sua esposizione con il racconto di due aneddoti nei quali si è trovato a stretto contatto con Giorgio De Chirico, pur senza parlarci. Uno dei quali sembra illustrare ancor meglio l’Autoritratto del 2014: “Erano gli anni ’70 inoltrati e mi trovavo a piazza di Spagna insieme alla tanto amata Marisa Volpi. A un tratto lei mi disse che dovevamo interrompere la nostra conversazione per salire da De Chirico e insistette perché andassi anch’io. In quella casa meravigliosa si trovavano tantissime persone, ma io non avevo voglia di entrare, rimasi sulla soglia e arretrai senza dare nell’occhio finché, trovandomi nell’anticamera fui attratto da una visione magnetica. C’era un corridoio oscuro infondo al quale della luce filtrava da una porta dischiusa. Al suo interno vidi De Chirico che mangiava da solo una pasta asciutta. Seppi che lo faceva spesso, quando c’era tanta gente per casa si ritirava, la confusione non lo interessava”. Squisito racconto speculare di due dioscuri nell’arte e nella vita.