Iniziamo da qui, dal tuo studio: le pareti sono pieni di appunti, immagini e materiali diversi.
Sì, hanno molteplici scopi, mi aiutano ad assorbire le influenze dirette e indirette tutto ciò che mi circonda e dal momento che sono una scrittrice che è anche artista, tendo a partire dai testi. Spesso prima scrivo o leggo, e poi lavoro su questa trama di stimoli, idee e spunti visivi. Per questo specifico progetto che sto realizzando nell’ambito della residenza con Ca’ Pesaro e AKKA Project, il punto di partenza è stata l’effigie di Felicita Bevilacqua, che vedi qui. A inizio residenza siamo stati in visita al Museo, mi hanno mostrato la loro collezione permanente perché potessi trovare ispirazione per poi realizzare un mio lavoro. Vedi, ovunque io vada, cerco immagini e riferimenti in cui ritrovo qualcosa di me stessa, cerco altre persone o donne di colore, donne che hanno vissuto una vita simile alla mia. Solitamente il mio punto di partenza, la scintilla che fa scattare il processo creativo si manifesta in un contesto di familiarità. Quel giorno ero davvero in difficoltà, mi sentivo estranea, per nulla rappresentata, finché uscendo dal Museo mi è stata mostrata l’effigie di Felicita Bevilacqua, colei che ha donato alla città di Venezia l’edificio dove ora si trova la Galleria Internazionale d’Arte Moderna.
Quindi Felicita Bevilacqua è stata la scintilla. Perché?
Oltre al fattore femminismo, e io sono una femminista tesserata, sento di avere tanto in comune con Felicita: non si è sposata per molto tempo e io nemmeno sono sposata, anche lei ha scelto di non avere figli, aveva soldi e potere e ha usato i mezzi che aveva per un bene comune e più grande. Io sto facendo esattamente le stesse scelte. Felicita, anche nei suoi ultimi istanti di vita, ha cercato di realizzare giustizia ed equità donando una casa ai giovani artisti con poche possibilità. Non era una collezionista, non aveva un occhio allenato, aveva passato la maggior parte della sua vita a costruire una fortuna per la sua famiglia o a cercare di salvare quella stessa fortuna dallo sperpero dei suoi fratelli. Capisco cosa si prova a essere una donna intelligente e capace, ma sopraffatta dagli altri. Mi sono sentita in qualche modo in sintonia con lei perché nel 1800 le donne non avevano granché diritto di parola, ma lei ha lottato per la possibilità di averla. Ovviamente come africana ho una storia molto diversa, ma alcune di noi, anche 60 anni fa, erano ancora proprietà dei fratelli e padri, e se sei una proprietà… nessuno chiede a una sedia cosa voglia. Ho iniziato a pensare: e se provassi a fare qualcosa che relazioni la mia storia a quella veneziana, cosa ne verrebbe fuori?
Come hai sviluppato poi questa riflessione?
Sentivo che non c’era nulla di mio lì dentro, poi mi è stato detto lasciarmi ispirare dallo spazio, di renderlo magico, e lì ho sentito di dover portare la mia “africanità” in quel luogo. L’installazione a cui sto lavorando esplora il concetto di “sentirsi a casa” attraverso una serie di domande ispirate dall’effigie di Felicita Bevilacqua, dalla complessità e dai limiti derivanti dall’occupare uno spazio, e al concetto stesso di casa; l’opera vuole innescare un dialogo tra le caratteristiche dello spazio e le dinamiche di potere che influenzano come ciascuno si relaziona con gli ambienti fisici, mettendo quindi in discussione i personali presupposti di cosa significhi sentirsi a casa. Tra le domande che mi sono posta: cosa significa occupare uno spazio? Appartengo a questo posto? È giusto che qualcuno si senta a casa, ma pensi che io non ne abbia il diritto? Sto realizzando tre installazioni che occupano e si relazionano con lo spazio in modi diversi: un’installazione sonora, una performance, e l’installazione che vedi qui.
Ma alla fine, casa è uno spazio fisico?
Questa è casa (indicando le pareti). La mente, lo spazio, casa è un processo in divenire.
Hai menzionato il fatto di essere scrittrice. Ti senti prima artista o scrittrice? Sono due aspetti strettamente interconnessi?
Ad essere sincera, non riesco a individuare un momento in cui questi due aspetti fossero slegati. Ho deciso di voler essere un’artista quando avevo circa otto anni, ma ho sempre scritto poesie per comunicare ciò che non potevo esprimere altrimenti. Sono stata educata a non esprimere le mie emozioni, ho sempre mantenuto un atteggiamento molto stoico. Scrivevo quando avevo bisogno di dire qualcosa, a me stessa e per me stessa. Arte e scrittura sono sempre state intrecciate, sono attrezzi nella mia cassetta.
Ma tu mostri la tua arte e non mostri la tua poesia. Le parole attingono forse a una sfera più intima di te?
Può essere, sì, e ho una relazione abbastanza complicata con questo tutto ciò che riguarda i lati più intimi e privati. Il motivo per cui non presento le mie poesie è che sono un po’ troppo personali e voglio conservarne una parte per me. Il 70% delle mie poesie non è mai stato letto da nessuno.
Come inserisci la scrittura nella tua arte? Non ne ha sempre fatto parte.
Non è sempre stato così. Credo che negli ultimi tre anni della mia carriera artistica mi sia chiesta come mettere insieme queste cose, arti visive e scrittura, se le poesie si tradurranno sempre in una rappresentazione visiva, o se invece rimarranno una scrittura. E poi, la scrittura, le poesie, sono è anch’esse un’opera d’arte?
Lo sono.
Certo che lo sono, ma sono domande che mi sono posta. C’è una sorta di lotta interiore e una tensione che probabilmente si vede ovunque nel mio lavoro: all’inizio scarabocchiavo cose che nessuno poteva leggere perché le nascondevo sotto strati di colore. Ora cerco di essere ponderata, mi chiedo: “È una cosa che vuoi che la gente veda? È una cosa che vuoi che la gente legga? È una cosa che vuoi che la gente sappia? E se la risposta è sì, scrivilo apertamente e non aver paura.”
Chi è Pamela Enyonu
Pamela Enyonu è nata nel 1985 a Kampala, in Uganda, dove attualmente vive e lavora. Lo stile di Pamela si ispira a storie di donne ugandesi e alle loro esperienze, le sue opere esplorano narrazioni sul genere, identità, empowerment e consapevolezza di sé. Particolarmente interessata alle esperienze “untokenizzate” che si collocano all’intersezione tra empowerment, salute mentale e identità, si impegna costantemente con le diverse comunità attraverso collaborazioni, workshop e seminari. Recentemente alcuni lavori sono stati acquisiti da Africa First e sono entrati a far parte della sua collezione privata di arte contemporanea africana, ha esposto a Dubai, in Francia, Svizzera e Italia. Attualmente sta partecipando alla residenza Africa 1:1, di AKKA Project Venice con Africa First, con il supporto del Ca’ Pesaro, al termine della quale entrerà a far parte della collezione della Galleria Internazionale d’Arte Moderna di Venezia.