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I mille volti dell’arte. Una mostra ad Anversa raccoglie più di 70 visi d’artista

NGI 2016.21
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Peter Paul Rubens, Head of a Bearded Man, Dublin. Heritage Gift Denis Catherine OBrien
Il KMSKA, dopo 11 anni di lavoro, nel settembre 2022 ha riaperto le sue porte in una veste del tutto rinnovata. Ora, dopo qualche mese di rodaggio, il museo è pronto a presentare la sua prima mostra. Occhi puntati su Anversa (Belgio), dunque, e non solo in senso figurato. Dall’interno del KMSKA provengono infatti decine e decine di sguardi, quelli distribuiti dai 76 ritratti che compongono Turning Heads, ovvero la più grande mostra dedicata interamente al volto umano, colto nelle declinazioni più particolari e sfaccettate. Dal 20 ottobre 2023 al 21 gennaio 2024.

Una mostra inusuale, di ricerca, che prende avvio dal XV e arriva fino al XIX secolo. É nel ‘500, in particolare, il momento in cui ritrarre i volti guadagna il suo spazio specifico, slegato dalle affollate scene bibliche e mitologiche. Una specialità che potrebbe rientrare nella ritrattistica generica, ma non propriamente. Artisti come Rubens, Rembrandt e Vermeer (artisti cardine per l’esposizione) dipingevano volti per esercizio di stile, per esigenza pittorica, per indagine umana, ma senza che la fonte fosse una persona in carne ed ossa. Senza un soggetto preciso, dunque, fondamentale perché un ritratto possa definirsi tale.

Ad ogni modo, in cinque sezioni, Turning Heads ripercorre l’evoluzione di questa pratica a cavallo tra genere ritrattistico e ricerca pittorica.

PRELUDE

Anche nel XV secolo, quando a dominare la scena pittorica erano le storie bibliche e mitologiche, gli artisti si erano già accorti dell’importanza del viso. Era ciò che poteva distinguere un personaggio dall’altro, ma anche come veicolo per meglio esprimere il loro stato d’animo o per costruire efficacemente il contesto narrativo. Lo sapeva Leonardo da Vinci, ma lo sapevano anche Jhieronymus Bosch e Albrecht Dürer, in mostra con due dipinti simili: Christ Carrying the Cross Jesus among the Doctors. Opera, quest’ultima, che lascia raramente la sua sede del Museo Thyssen-Bornemisza di Madrid.

Dipingere un volto è una questione complessa: bisogna tenere conto delle infinite forme e dimensioni delle sue componenti, delle proporzioni tra di esse; ma anche del risultato espressivo, della carica emotiva che trasmettono. Per questo non tutti i volti venivano realizzati con la stessa cura. Gesù e Maria, per esempio, possono godere di fisionomie che sfiorano la perfezione ideale. Mentre tanti personaggi secondari non possono dire lo stesso.

Michael Sweerts, Portrait of a Girl. Leicester Museum Art Gallery
STUDY HEADS

Non era strano, infatti, che nelle botteghe dei grandi artisti fosse presente una sorta di catalogo di volti. Studi, bozze, disegni di volti e teste che potevano essere utilizzati come base per dipingere opere finite. Uno stock utili per due ragioni. La prima è che l’artista poteva usufruire dei vari modelli per poi ricombinarli, velocemente, in tante e diverse soluzioni. La seconda è di carattere didattico, dal momento che tali studi venivano realizzati, come esercizio, dagli apprendisti. E se in alcuni casi il loro scopo è meramente pratico, in altri i disegni preparatori si scoprono opere compiute. O almeno artisticamente valide. Lo sono di certo quelli che rappresentano il volto di Abraham Grapheus (1545/50–1624). Membro della Gilda di San Luca, l’associazione professionale a cui appartenevano i pittori di Anversa, era anche un modello popolare del tempo, ritratto da diversi artisti. Per l’occasione il KMSKA ne ha raggruppate varie versioni.

COSTUMED

Con l’affievolirsi della committenza religiosa, i soggetti dei dipinti diventano molto più spesso le persone comuni. Artisti come Hals, Rembrandt, Vermeer sviluppano gran parte della loro poetica attorno alla gente normale, alle loro attività quotidiane. Provano a farne emergere la specificità attraverso i dettagli del viso, ma contornandoli anche di costumi e accessori che potessero meglio approfondirne la figura. I costumi, soprattutto dal XVII secolo in poi, diventano per gli artisti europei un veicolo per immaginarsi mondi lontani, luoghi esotici e racconti misteriosi.

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Peter Paul Rubens, Study for Balthazar, The J. Paul Getty Museum
EXPRESSION

Ogni viso si compone di 42 muscoli, ognuno dei quali possiede migliaia di possibili movimenti. La combinazioni di questi, di volta in volta, generano un’ampia gamma di espressioni facciali, le quali veicolano sentimenti più o meno precisi. Gli artisti, da sempre, hanno provato quindi a catturarli. Ma è solo nel XVII che iniziano a voler suscitare compartecipazione nell’osservatore, che a seconda dell’abilita dell’artista avrebbe dovuto allinearsi al sentimento rappresentato. Davanti al Laughing Boy di Frans Hals, insomma, dovremmo ridere.

Altri artisti hanno perseguito espressioni più estreme: la flessibilità facciale intesa a illustrare le loro capacità tecniche. Sia Adriaen Brouwer (1605–1638) che Joos van Craesbeeck (1625–1660) erano interessati a un mimetismo più tridimensionale. Brouwer ha usato una bevanda amara, ad esempio, per mostrare il viso di un uomo che si increspa. Van Craesbeeck, invece, ha dipinto un soggetto che soffia anelli di fumo, nel cui volto sembra che ogni singolo muscolo sia stato attivato. Per non parlare delle sculture espressioniste (ante litteram) di Franz Xaver Messerschmidt (1736–1783) in seguito fece un ulteriore passo avanti: le sue sculture di testa consistono interamente in un’espressione iperintensa.

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Rembrandt van Rijn Mauritshuis, The Laughing Man, Den Haag
LIGHT AND SHADE

I volti, inoltre, rappresentavano inoltre la tela perfetta su cui proiettare la luce. Ovvero la grande ossessione di ogni pittore. Giochi di luci e ombre, di volumi e forme, di pieni e di vuoti, tutti proiettati su un viso. Di tali studi sulla luce furono massimi interpreti Rembrandt e Vermeer, ma Jan Lievens (1607–1674), che lavorò con Rembrandt a Leida per cinque anni, non fu meno abile nell’uso di raffinate sfumature di luce.

Rubens usava in modo calibrato una candela o la luce del giorno per illuminare i modelli, mentre Jacob Jordaens (1593–1678) sviluppò un proprio linguaggio per descrivere la luce. Da parte sua, Michael Sweerts (1618–1664) padroneggiava una luce morbida che ricorda Vermeer. Il quale è presente in mostra con Girl with a Red Hat.

EXPERIENCING FACES

Da osservatori a creatori. Dopo aver visto decine e decine di visi, tocca all’osservatore realizzare il proprio. Attraverso postazioni apposite, gli aspiranti artisti hanno la possibilità di realizzare i loro dipinti digitali, avvalendosi di modelli espressivi, accessori e vari elementi utili a personalizzare la propria creazione.

Johannes Vermeer, Girl with a Red Hat (ca. 1666–67). Courtesy of the National Gallery of Art, Washington, D.C.
Johannes Vermeer, Girl with a Red Hat (ca. 1666–67). Courtesy of the National Gallery of Art, Washington, D.C.

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