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18. Biennale di Architettura: un racconto per il futuro

Padiglione BRASILE, Terra [Earth], 18. Mostra Internazionale di Architettura - La Biennale di Venezia, foto Matteo de Mayda Padiglione BRASILE, Terra [Earth], 18. Mostra Internazionale di Architettura - La Biennale di Venezia, foto Matteo de Mayda
Lesley Lokko, Ph. © Jacopo Salvi. Courtesy La Biennale di Venezia
Uno sguardo approfondito sulla 18. Mostra di Architettura: un’esposizione non riempitiva ma narrativa, espansa di spazi per idee e progetti sul futuro “made in” e “for” Africa

Come le altre Biennali di Architettura anche questa 18. edizione ricalca un approccio trasversale, in bilico tra contenuto, forma, poetica e politica, società e cultura, nascendo come piattaforma di scambio e riflessione di progetti (per buona parte in corso d’opera) e di idee di giovani architetti giovani di taglio antropologico. Risultato? Questa “Laboratorio del futuro” è più etnografica e narrativa delle sue precedenti.

La Mostra Internazionale di Architettura è incentrata sull’immaginazione del futuro e su materiali e manufatti, orientata in particolare all’Africa come manifesto di nuove architetture, perché il continente ha dimostrato come può rispondere a crisi permanenti basandosi su risorse locali. Il come lo rivela il Padiglione centrale, dove espongono 16 studi nella sezione Force Majeure, il meglio della produzione architettonica africana e diasporica, e 32 esordienti. Non delude la sezione più scenografica Dangerous Liasons all’Arsenale, in cui prevale un aspetto “creolo”.
Le idee e i progetti in questa Biennale a cura di Lesley Lokko (nata a Dundee nel 1964) intitolata “Il Laboratorio del futuro”, pone al centro di studio non soltanto il continente africano, con l’obiettivo di superare i modelli occidentali di abitare questo pianeta dall’incerto futuro.
Secondo lo spirito umanista di Lokko, che tra le altre attività ha fondato la Graduate School of Architecture dell’Università di Johannesburg (Sudafrica) e ha diretto “Folio: Journal of Contemporary African Architecture”, autrice di racconti familiari di successo ambientate tra Africa, Stati Uniti, Europa, anche le incertezze come gli errori possono trasformarsi in opportunità per il futuro. Due sono le parole chiavi della sua Biennale: decarbonizzazione e decolonizzazione, incentrando il discorso soprattutto sulle risorse umane e ambientali, che devono essere equamente distribuite, perché secondo Lokko non c’è giustizia sociale senza quella ambientale.

Padiglione del Sud Africa, The Structure of a People, Photo by Marco Zorzanello, Courtesy: La Biennale di Venezia

Fatta tale premessa si capisce perché questa Biennale si presenta come un laboratorio-spazio di possibilità, in cui anche la precarietà può essere una risorsa di rigenerazione, molto umana e poco tecnologica, più in linea con la 15. Biennale di Architettura del 2016 a cura di Alejandro Aravena (architetto cileno, Premio Pritzker) all’insegna delle varietà di sfide che l’architettura deve affrontare, per dare forma e abitare i luoghi in cui viviamo.
Nell’architettura la lingua dominante è stata quella del classicismo, poi del modernismo tecnico industriale occidentale mai superato da nuovi paradigmi in cui la Natura viene per lo più imitata (sul piano formale) ma non rispettata per definire nuovi paradigmi di coesistenza tra naturale e industriale.

Padiglione Egitto, NiLab – Il Nilo come laboratorio, ph. Matteo de Mayda, Courtesy: La Biennale di Venezia

Questa Biennale punta i riflettori sulla diaspora dell’Africa e sulla cultura fluida che intreccia persone di origine africana che vivono e lavorano in occidente, senza perdere i contatti con le loro comunità e culture di appartenenza.
È una Biennale in cui l’età media dei partecipanti è di 43 anni, di 37 nella sezione Progetti Speciali mentre il più giovane ha 24 anni, in cui viene rispettata la parità di genere e oltre il 70% delle opere esposte è stata realizzata da un singolo o da un team ristretto: una biennale più incentrata sull’immaginazione del singolo individuo, più che sul sogno collettivo o dell’archistar, dove gli artigiani più che gli architetti potrebbero trasformare in nostro modo di concepire la progettazione, per riconfigurare un mondo più vivibile di quello attuale.

Zoí [The Practice of Teaching], Francis Diébédo Kéré – Kéré Architecture

In Africa ci sono diversi modelli di architettura, anche di influenza americana o europea e ogni regione ha climi, morfologie e contesti culturali differenti che non sono assimilabili ad unico modello di architettura: diversità locali che sono una risorsa da indagare mentre gli architetti africani stanno proponendo un modello “universale” in occidente. Lo fa per esempio Diébédo Francis Kéré, architetto burkinabé, che ha vinto lo scorso anno il premio Pritzker, sempre fedele alla sua comunità di origine e il suo Niger partecipa quest’anno per la prima volta alla Biennale veneziana.

Oltre l’Africa, esempi di Architettura collaborativa

Non è fuori tema e inscena processi collaborativi il Padiglione Italia alle Tese delle Vergini in Arsenale a cura del collettivo Fosbury Architecture (Giacomo Ardesio, Alessandro Bonizzoni, Nicola Campri, Veronica Caprino, Claudia Mainardi, architetti nati tra il 1987 e il 1989) che nel titolo “SPAZIALE. Ognuno appartiene a tutti gli altri”, citazione dal pensatore anglosassone Aldous Huxley, ma anche in linea con la tesi di Emile Durkheim, propone nove operazioni spaziali, progetti aperti e inclusivi che raccontano realtà locali. Installazioni simboliche nate dall’incontro tra progettisti e advisor (scrittori, artisti, registi), in cui l’architettura è diventata in ogni spazio una pratica performativa, indicano una strada percorribile in cui l’altro e l’altrove sono convergenti attraverso pratiche partecipative. Le loro sfide impossibili, diventano realtà se adattate a risorse e competenze locali capaci di produrre risposte immediate. Tra le altre proposte, spicca la rigenerazione delle periferie del quartiere di Librino (Catania), dello Studio Ossidiana in collaborazione con Adelita Husni Bey, con aree-giochi. Ci sono le panchine sonore a Belmonte Calabro col Collettivo Orizzontale con Bruno Zamborlin. Dal Padiglione italiano capiamo che l’architettura seppure non finita può diventare soccorso sociale collettivo, recuperando identità locali, piccole utopie realizzate all’insegna di una umanità non globalizzata. Questi progetti sono l’esempio di una nuova generazione di architetti che inglobano nel loro fare arte, paesaggio, ricerca, insegnamento, politica, ambiente, salute all’insegna di una governance fluida, adattabile a diverse condizioni sociali, economiche e ambientali, basato sulle risorse locali.

La casa tappeto – Piercarlo Quecchia, DSL Studio, Courtesy of © Fosbury Architecture

Sempre all’arsenale sul filone “collaborativo”, in cui l’umano è al centro della pratica architettonica, che riunisce un gruppo di curatori, ricercatori,artigiani e artisti, segnaliamo il Padiglione della Repubblica dell’Uzbekistan, denominato “Unbuild Together. Archaism vs Modernity”. E qui si entra nel vivo del patrimonio architettonico uzbeko, dove è possibile esplorare oltre alle rovine delle qala, le antiche fortezze del Karakapalstan, le cupole smaltate di Bukhara e il patrimonio della civiltà di Khorezm, passando per il modernismo dell’epoca sovietica .
Lo Studio KO franco-marocchino, fondato dagli architetti Karl Fournier e Olivar Marty, con gli architetti Jean–Baptiste Carisé e Sophia Bengebara e la collaborazione degli studenti e docenti dell’Università di Ajou in Tashkent, uniscono progettazione architettonica alla profonda comprensione della tradizione architettonica dell’Uzbekistan in progetto basato sulla propria storia, carico di significati e simboli, è arricchito dalla collaborazione il maestro ceramista Abdulvahid Bukhoriy, il regista El Mehdi Azzam, la scultrice Miza Mucciarelli e la fotografa Emine Gozde Sevim. Irina Arzhantseva, tra i maggiori esperti di archeologia delle qala, con i suoi studenti ha realizzato il padiglione nazionale a forma di labirinto e di forte impatto evocativo, nel rispetto di particolari architettonici e modalità costruttive fedeli alle tecniche tradizionali. Questo progetto pone al centro della pratica architettonica l’umano e la sua consapevolezza del passato con una costruzione labirintica, capace di “metaforici” ponti tra epoche diverse e di evocare la contemporaneità, basato sul principio di decostruisce per ricostruire. Entrati dentro una struttura effimera monumentale avvolta dall’oscurità, fatta di mattoni uzbechi e miscele per smaltarne i contorni sulle vestigia di cantieri veneziani, tra un passaggio e un interstizio dove si annida un frammento di ossido di rame venuto dall’Asia Centrale, come per magia e incantamento si immagina l’epoca dei grandi viaggi commerciali tra Venezia e l’Oriente. Al centro del percorso c’è una stanza dove si proietta un film carico di suggestioni, impressioni di momenti di condivisione e di creazione. In questo padiglione, viaggiando tra la laguna e l’Asia, tra reliquie, frammenti e un modellino ridotto della fortezza, sarete sorpresi da lampi d’azzurro, squarci di infinite visioni sul futuro tutto da inventare.

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