Nell’incantevole giardino di Lea Garofalo in Via Montello, a Milano nel cuore di porta Volta, Marcella Vanzo (1973), antropologa e artista, ieri sera ha presentato una “Lezione aperta” di performing arts, dove 8 allievi: Carlotta Cerrato (1995), Norma Cicala (1995), Elena Lerra (1959), Caterina Pucci (1990), Sara Grimaldi (1995), Luz J. Carollo (1988), Beatrice Parapini (1966) e Marco Boldrini (1995), del corso “The Momentary Now Performance School” 2023 hanno ipnotizzato il pubblico curioso con azioni diverse per contenuti e poetica
Giunto alla 4° edizione il corso teorico-pratico, unico nel suo genere in Italia, comprensivo di 15 lezioni (da febbraio a maggio) che si propone di esplorare il potenziale dell’azione a 360° tra arti visive, cinema, poesia, teatro, antropologia, psicologia. E con questo “laboratorio” la performance ha dimostrato di essere viva e sulle sue potenzialità espressive simboliche, politiche e sociali Marcella Vanzo ha inventato un metodo maieutico originale, orientato all’esplorazione del concetto di limite in senso ampio, portando fuori dal teatro, dall’ambiente chiuso la performance come pratica “rivoluzionaria” di conoscenza del proprio corpo, dalle potenzialità attitudinale sorprendenti e di riflessione critica sulla modalità di percepire spazio e tempo.
L’intenzione antropologica-sociale è inclusa anche nei titoli delle singole azioni: Cerrato si svela con Parole Dolci, su un drappo bianco in campo da basket scrive, Amore, Figli, Morte; Cicala srotola filo e definisce spazi d’azione con Aruspice: Ho sognato per la fine del mondo, Lerra sembra una vestale di chissà quale tempio con Cenere: rituale per un incantesimo di protezione, Pucci mangia spaghetti senza forchette direttamente dal piatto ed è magnetica con Buone Maniere, Carollo vestita di piume seduce con storielle erotiche e racconta Altri Mondi, Parapini trascina barattoli vuoti legati a un filo come fossero scorie di una umanità perduta con Dissoluzione Urbana, invece Boldrini è critico nei confronti della società consumista e capitalista con The Thrift Shop e vende gli abiti dei suoi ex amori passeggeri, cimeli o ready mades del consumo di corpi e di emozioni.
In questa breve intervista l’artista racconta il suo metodo e in particolare quali riflessioni sono emerse dai gesti dei partecipanti del suo corso, caratterizzato da azioni differenti in cui sesso, amore, morte, cibo, convenzioni sociali, relazioni e contraddizioni tra corpo e mente, naturale e artificiale, consumo e abuso, silenzio e parole, trasformazione e rigenerazione e la struggente Mia madre non aveva paura (Omaggio a Lea Garofalo) di Sara Grimaldi hanno dimostrato che la performance è una necessità, liberatoria dell’espressione del corpo, un linguaggio sempre contemporaneo carico di sempre nuovi significati e valori simbolici.
Perché hai scelto anche quest’anno il Giardino Comunitario di Lea Garofalo nato dalla volontà dell’Associazione Giardini in Transito (2010) con il fine di riqualificare un’area comunale abbandonata al degrado, per restituirla alla città ?
Lavorare all’aperto, tra l’altro in un giardino molto esposto al traffico urbano e al passaggio di persone, è una sfida importante per performers alle prime armi. Lavorare all’interno di un white cube o di un teatro è un’esperienza che separa dalla vita. La performance nasce dalla vita e con lei si confonde. Diciamo che performers che imparano ad aver a che fare con tutti i disagi, gli imprevisti e un pubblico non solo invitato, sono parecchio pronti poi a lavorare in spazi chiusi, protetti e dedicati, dove i problemi sono limitati alla tecnica e alla logistica. Il giardino Lea Garofalo è uno spazio intenso, lussureggiante e vitale con un’energia tutta sua. Estremamente vivo e antropologicamente articolato. Vicino fisicamente e molto affine nello spirito a The Momentary Now e Zona K. A tutti noi interessa che arte, cultura e poesia facciano parte di una quotidianità condivisa da chiunque.
Quale metodo hai consolidato in questi quattro anni di attività e perché è diverso da quello di Marina Abramović?
Marina Abramović, che si definisce giustamente la nonna della performance e per questa arte si è spesa e si spende moltissimo, dal mio punto di vista, si concentra sull’estenuazione di un gesto. A me sta a cuore l’espressione di un significato individuale ed il tempo di quell’espressione è tutto suo. Lavoro coi miei allievi sulla percezione del limite e sul suo superamento, da un punto di vista fisico, psicologico, emotivo. Formo oltreché il singolo performer, un gruppo di lavoro, perché ognuna di loro trovi compagni di strada con cui confrontarsi e lavorare. Il materiale delle performance sono le persone. Persone e non corpi, tra l’altro.
Quest’anno hanno partecipato al corso per lo più donne, perché secondo te ?
Non saprei.
Cosa ti ha sorpreso delle azioni ideate dai tuoi allievi?
Quello che mi sorprende è l’unicità di ciascuna/o di loro. L’individualità definita o meno, per cui non nascono mai due lavori uguali. E sono molto aperti a collaborare insieme. Nascono magie interessanti.
Puoi classificare i generi delle performance inscenate ieri sera?
Quest’anno dal mio punto di vista si trattava di visioni liriche, di paesaggi onirici. Alcune allieve hanno concretizzato sogni, altre hanno raccontato paesaggi psichedelici altrui. Due ragazze hanno lavorato sul giardino, è stato fatto un omaggio davvero struggente a Lea Garofalo, mentre un’altra urlava al cielo tutte le ingiustizie subite da questo luogo, che ultimamente sta lottando per la sua sopravvivenza. E poi un lavoro molto ironico sull’emozione che diventa merce, sul capitalismo che non risparmia nemmeno l’ammore, con l’A maiuscola o senza.
C’è differenza tra performance maschili e femminili, secondo te quali ?
No, non credo. Sono le persone che sono diverse. Ciascuna è unica.
Come ha reagito il pubblico alla messa in scena di azioni come provocazione di riflessione sulla relazione tra individuo e società ?
Ieri è entrato nel giardino un signore che urlava “radical chic di merda!” mentre una mia allieva cantava l’opera trascinando lattine vuote di cibo per gatti che facevano un gran baccano e un’altra, elegantissima, seduta sola a un tavola imbandita in maniera impeccabile si occupava di tutto tranne che di buone maniere.
In molti hanno pensato che facesse parte delle performance, in realtà è stato necessario allontanarlo prima che diventasse violento. Il giardino è di tutti e le performances anche. Un paio hanno davvero commosso il pubblico che era in lacrime. Il mio ruolo nella lezione aperta è quello di orchestrare i lavori nel tempo e nello spazio, è una magia che nasce da sola. La chiamo paesaggio umano effimero, ovvero qualcosa che anima uno spazio all’improvviso, quasi camminare in un sogno. Umano, molto umano. Sono molto fortunata perché mi ringraziano di creare meraviglia.
Quali sono le performance che ti hanno sorpresa e perché?
Le performance che mi colgono di sorpresa sono quelle nate da atti mancati, da errori marginali, da canticchi dell’anima. Insomma, da tutto quello che non fa parte dell’esercizio e del progetto. A volte è necessario convincere un’allieva a lasciar perdere un progetto che aveva in mente già da prima del corso, per lasciare uscire qualcosa di nuovo e d’improvviso. Con grandi sorprese e soddisfazioni.
I tuoi allievi alla fine del corso continuano l’attività performante oppure no?
La maggior parte si. Si tratta di persone di età e provenienze diverse e continuano. Chi allarga la propria pratica artistica, stiamo parlando di arti visive, danza, teatro. Chi vive una doppia vita tra lavoro in banca e teatro, chi partecipa a festival o residenze, chi vince premi. È molto interessante vedere lo sviluppo delle persone nel tempo.