Il buongiorno dell’arte è un caffè con la Moka. Senza zucchero.
Erano le ore 18.45. Mancavano circa quindici minuti alla chiusura della galleria. In mostra una monografica di Alessandro Lupo. Avevo inaugurato da qualche giorno e l’unica grande novità di quei passati giorni fu la chiamata della mia amica che mi confermava quanto Giove stesse influenzando tutto il mio tema natale. Improvvisamente entrò un uomo.
Lo intravedevo abbastanza nitidamente dalla porta-finestra principale. Capelli lunghi e unti, quasi bagnati con della colla. Una lunga giacca macchiata di vernice. I pantaloni grigi, strappati e sporchi come da un lungo lavoro sotterraneo. Le scarpe con la punta rotta e i lacci senza più colore.
Mi misi subitamente dietro il vetro antirapina ad osservarlo e, mentre lui entrò,io ebbi modo di rifugiarmi nel mio ufficio senza destare in lui il mio sospetto e la mia concitata paura. Stavano girando tante voci in città di malintenzionati pronti ad ardite rapine e maltrattamenti.
Notavo che camminava in modo particolare, claudicante. Come una tazzina da caffè dal manico sbucciato tenuta in bilico.Aveva il colletto della camicia ingiallito e una cravatta dismessa. Si soffermò lentamente davanti alle opere. “Che cosa vuole questo uomo? Anna, per piacere, preparati a chiamare la polizia”. Dissi con un filo di voce alla mia segretaria. Improvvisamente l’uomo esclamò: “Quanto costa?” – “Buonasera a Lei, quale opera mi sta chiedendo?” risposi con un filo di voce sommesso e teatralmente sereno– “Tutte, quanto costa tutta la mostra?”. Pensai che fosse un matto, un decerebrato e il cuore mio era il mio indice destro, nascosto sotto il banco, pronto a premere il pulsante d’emergenza. “L’intera mostra costa centosessanta milioni”. Erano gli anni Ottanta. Una pubblicità in televisione cantava “Lo zucchero è pieno di vita”.
L’uomo si avvicinò. Non aveva alcun orologio. Erano le 19.15. “Potrebbe farmi uno sconto, gentilmente”? – Subito dopo, nel mettersi a sedere sulla mia poltrona “Westside” di Ettore Sottsass, tirò fuori dalla tasca dietro del pantalone un portafogli, usurato e di una pelle malconcia marrone. Prese il libretto degli assegni. Compilò, firmò e lo lascio sul tavolino centrale. “Adesso non ho tempo per ritirare le opere, ripasserò. Lei lo versi senza problemi”. Non ebbi modo di salutarlo con grazia e coraggio. Un assegno da centoquaranta milioni fermo tra lo spazio e qualche Lupo.
Il giorno seguente corsi in Banca. Dopo un controllo, il direttore ritornò da me “Signora lei ha fatto bingo. Lei ha conosciuto il più grande imprenditore d’Italia!”. Dopo due mesi, nel giorno del dis-allestimento, l’uomo ritornò. Un completo di lana sartoriale, a righe. Pensai che Giove fosse anche un pianeta. Iniziai a pensare che da oggi un Lupo non fa una mostra ma un racconto.