Il Museo Fragonard di Grasse chiama sette artisti italiani (perlopiù fotografi) a reinterpretare in chiave moderna la figura di Sant’Agata, morta martire e divenuta simbolo di resistenza femminile e non solo. #SIAMOAGATA! è in mostra dal 10 Giugno all’8 Ottobre 2023.
«Le sofferenze che mi infliggerai saranno di breve durata, e non attendo altro che sperimentarle perché così come il grano non può essere conservato in granaio se prima il suo guscio non viene aspramente stritolato e ridotto in frantumi, allo stesso modo la mia anima non potrà entrare in paradiso se prima non farai minutamente dilaniare il mio corpo dai tuoi carnefici». Questa la potente e straziante frase che Sant’Agata avrebbe rivolto al proconsole Quinziano durante il processo a suo carico. L’accusa? Reticenza all’abiura. E Quinziano, inviato nel 250 a Catania dall’imperatore Decio, che pretendeva che tutti i cristiani ripudiassero pubblicamente la loro fede, fece esattamente quel che Agata, provocatoriamente ma consapevolmente, chiedeva.
Inizialmente fustigata, legata sull’eculeo e allungata con funi fino a slogarle le caviglie e i polsi, la giovane fu poi sottoposta al violento strappo delle mammelle con tenaglie. Un gesto brutale che rimarrà legato alla figura della martire, a sua volta divenuta simbolo di resistenza, di libertà e ribellione. Venne infine sottoposta al supplizio dei carboni ardenti. A Catania, nella chiesa di San Biagio, conosciuta anche come Chiesa di Sant’Agata “alla fornace”, si conservano, nell’altare laterale della cappella di Sant’Agata, le pietre e la terra che secondo la tradizione tormentarono Agata il 5 febbraio 251 d.C. La notte seguente, il 5 febbraio 251, Agata spirò nella sua cella.
Ed è proprio a Catania che la Santa è particolarmente ricordata (celebre la processione che si tiene annualmente in febbraio), come anche nell’intera Sicilia. Alcune agiografie riportano Agata nata a Palermo, altre la vedono solo di passaggio. Ad ogni modo, il legame con la Sicilia è ciò che ha spinto il Museo Fragonard a invitare ben 6 artisti siciliani sui 7 che compongono l’esposizione #SIAMOAGATA!. Questo il titolo-hasthtag della mostra fotografica curata da Charlotte Urbain, in collaborazione con Roberta Carchiolo, che riprende la storia della Santa reinterpretandola in chiave moderna.
Un racconto che non può prescindere dall’icona del seno tagliato a Sant’Agata. Un atto di violenza estrema, di negazione del femminile, che nei secoli è divenuto un’arma ostentata come atto di rivolta. E da qui parte la mostra, con la stampa del dipinto di Francisco de Zurbarán che raffigura a santa col petto piatto e il seno asportato esposto su un vassoio (ca 1630-1633). Agata è tranquilla, serena, sa che le sofferenze terrene le sono valse la gloria in cielo. Le due appendici tonde e rose sono il manifesto del suo dolore, ma anche del suo successo. Sembrano stimolare la lotta, la resistenza, la resilienza femminile di fronte ai soprosi.
Un’immagine ripresa, e reinterpretata in chiave urban, dal writer TVBOY, che per le strade di Catania ha depositato sul muro uno stencil che ricalca in modo evidente il dipinto di Zurbarán. Segno che la figura della Santa ha resistito agli anni e ai cambiamenti. Agata trova spazio nel linguaggio contemporaneo e nel cuore dei contemporanei, che ancora percepiscono in lei un’ispirazione. Unica aggiunta rilevante, rispetto al quadro seicentesco, è lo stemma del Catania Calcio impresso sul petto, proprio in luogo del seno. Forse un modo di supportare il club, fallito l’anno scorso; oppure un veicolo per avvicinare ulteriormente Agata alla popolazione; o ancora un mero meccanismo di attualizzazione della sua figura.
Ad ogni modo, superate le due stampe, si giunge all’unica sala dove sono raccolte le fotografie di Carmen Cardillo, Laura Daddabbo, Gaetano Gambino, Egidio Liggera e Carmelo Nicosia. Cinque artisti, cinque sguardi, cinque obiettivi che si fanno immagine. Ognuno diversa, ognuna una variazione estetica sullo spartito agiografico di Agata, paladina delle tette e della libertà. C’è chi infatti, come Carmen Cardillo, punta dritto sul seno e lo trasfigura in un contesto moderno, a luci rosse ma non erotico, piuttosto politico e ideologico. Tramite close up lisergici, dove forme e colori appaiono alterati, la fotografa sembra celebrare le possibilità di reinvenzione e reinterpretazione del corpo femminile.
Lo stesso che invece Gaetano Gambino vede ancora imprigionato: dalle corde, da veli, da violenze. Elementi concreti oppure simbolici, che ugualmente provano a spegnere velleità e desideri identitari. Quelli che invece sembrano aver guadaganto le Agate di Egidio Liggera, quasi kitsch e frivole, a loro agio in una contemporaneità non certo perfetta, ma che consente loro di esprimere se stesse in modalità un tempo impensabili. Più intime e inafferrabili quelle di Laura Daddabbo. Le sue donne sembrano sfuggire, paiono inafferrabili, celeta dietro veli, finestre, vetri, illusioni. Sono lì, ma non sono accessibili. Non si possono possedere veramente. Come anche Sant’Agata, privata (letteralmente) del corpo, riuscì a mantenere il suo spirito saldo e a non concedere la propria anima ha chi ha provato a prenderla con l’efferatezza più atroce.
«Non valser spine e triboli,
non valsero catene;
né il minacciar d’un Preside
a trarla dal suo Bene,
a cui dall’età eterna
fu sacro il vergin fior»
Mario Rapisardi, Ode, per il 5 febbraio 1859