Il buongiorno dell’arte è un caffè con la Moka. Senza zucchero.
Mi chiamo Pasquale. Oggi è domenica palermitana. Sto camminando verso quell’oratorio in via Immacolatella, proprio dietro la vecchia casa di mamma. Sono decenni, forse cinque di loro, e ancora oggi mi pare d’entrare in paradiso. Ero giovanissimo quel 17 settembre 1969. Due mesi prima qualcheduno affermò di aver toccato la Luna. Mi faccio il segno della croce e rivolgo le retine alle pareti, in cielo, sull’altare, e ci sono stucchi finemente modellati, fasce, riquadri, statue, cornici, d’un color bianchissimo di latte, e a destra e ora a sinistra dell’oro zecchino stralucente, fiori e cornucopie. Le fiamme e le croci, l’acqua santa e un gel igienizzante per le mani. La piccola folla festante si era già divisa, sorridente e in trepidante attesa degli sposi, tra i lati del piccolo spazio e tutti noi siamo abbagliati anche da raggi di sole che da una finestra investono i nostri volti di una mattina dove il vicino sapore di un mare è benedetto dalla passione.
Mi chiamo Pasquale e non conosco nessuno. Meglio non conoscere che parlare invano. Sicuramente colui che tace spesso acconsente ma chiedetelo a coloro che alla domanda “Come stai, oggi?” si soffermano e si piantano come un soldato sulla fanghiglia, con un peso sulla schiena che preme sullo stomaco. Mi chiamo Pasquale e questa davanti a me è una celebrazione.
Eravamo in cinque. Io, mio padre e qualche amico. Ricordo tante candele accese e due torce. Incidemmo con un taglierino il contorno più vicino alla cornice. Arrotolammo la tela di Caravaggio velocemente entro un tappeto. Io la sigillai al meglio con un nastro. Forse cinque minuti, forse il tempo di una bestemmia, forse il tempo di un caffè. Senza zucchero. Uscimmo velocemente, due scavalcarono il cancelletto e i restanti tre passarono il grande furto. Dei ladroni in natività con i santi Lorenzo e Francesco d’Assisi.
Iniziò a piovere, forte, incessante. Mi chiamo Pasquale e sono un attore del silenzio e della contemplazione di un danno e del grande mistero dell’incarnazione divina fatta umana. Quella pioggia scese e inzuppò i nostri abiti e il disperato Merisi.
Alzo lo sguardo. Gli sposi stanno pronunciando il loro “sì” davanti a Dio. Si alza un solenne “Gloria a Dio nell’alto dei cieli”. Un frammento di elevazione. Quell’antico inno della liturgia cristiana è tuttora l’unico ultimo frammento e un eterno fardello della mia vita che dalla cucina, oggi, sovrasta un cesto di mele, in plastica.