Una foresta dentro la Triennale Milano. Ma di quale foresta si tratta? Chi sono realmente i suoi abitanti? Che cosa dicono le loro voci? Quali riflessioni scaturiscono dall’incontro con questa dimensione apparentemente altra?
Alla Triennale Milano è aperta da oggi al pubblico “Siamo foresta”, la sesta mostra realizzata in collaborazione con la Fondation Cartier pour l’art contemporain di Parigi, nell’ambito del parternariato che le vedrà lavorare insieme fino al 2028. La direzione artistica della mostra è di Bruce Albert, antropologo che da molti anni lavora con Fondation Cartier pour l’art contemporain, Hervé Chandès, Direttore Generale Artistico di Fondation Cartier pour l’art contemporain e Luiz Zerbini, artista brasiliano che ha curato l’allestimento.
“Siamo foresta” raccoglie un centinaio di opere di 27 artisti «provenienti da Paesi, culture e contesti diversi, per lo più latinoamericani e molti dei quali appartenenti a comunità indigene». «Oltre il 70% delle opere in mostra, ha spiegato l’istituzione, proviene dalla collezione della Fondation Cartier e racconta in particolare la storia del rapporto che la fondazione ha instaurato da tempo con artisti di alcune comunità indigene dell’America Meridionale».
Ad accomunare le ricerche degli artisti invitati è il rapporto che hanno instaurato, a vari livelli, con la foresta: «che siano appassionati osservatori della diversità vegetale e animale della foresta in cui vivono che risiedano in città, affascinati dalla realtà della foresta, gli artisti in mostra dialogano su un tema comune: la necessità di ripensare il ruolo dell’uomo all’interno dell’universo dei viventi», hanno precisato i curatori.
Il messaggio centrale della mostra, ha infatti sottolineato Bruce Albert durante la conferenza stampa, «è l’invito a ripensare la nostra posizione come esseri umani, il nostro posto tra gli esseri viventi in un modo molto più umile di oggi, per evitare l’altrimenti inevitabile catastrofe ambientale. Come dicono i leader indiani del paese bisogna “rimboscare” lo spirito per curare la terra: questo è il messaggio contenuto nel titolo della mostra. E, ha aggiunto Stefano Boeri, Presidente di Triennale Milano, «questa è una mostra fortemente politica, aspetto nella trasmissione dell’idea della grande fragilità del patrimonio naturale che stiamo progressivamente perdendo e che può essere salvato solo se lo comprendiamo e se lo leggiamo come un multiverso di individui, di specie diverse».
Il percorso espositivo di “Siamo foresta” nasce come più recente esito di un percorso di ricerca lungo oltre vent’anni iniziato nel 2003 con la mostra “Yanomami, l’esprit de la forêt” alla Fondation Cartier di Parigi, a cui hanno fatto seguito numerose mostre sempre nuove, per citare solo le ultime a Shanghai e Lille. Ciascun evento espositivo, sebbene siano tutti concatenati, è autonomo e presenta una specificità. «Ciò che caratterizza il mostra di Milano, ha spiegato Hervé Chandés, Direttore Generale Artistico della Fondation Cartier pour l’art contemporain durante la conferenza stampa – è l’attenzione posta sugli artisti dell’America Latina, in particolare da Brasile, Paraguay, Venezuela, Colombia e Perù. Non si tratta, tuttavia, di artisti che vivono unicamente o necessarimente nella foresta, ma anche in città, tra cui Rio de Janeiro: ad accomunarli è l’approccio e il rapporto che hanno con l’elemento foresta». La mostra a Milano, infatti, parte dalla prospettiva di chi vive la foresta la vive e la difende, a vari livelli, e grazie all’intreccio di conoscenza e approcci tra Bruce Albert, Hervé Chandès e Luiz Zerbini riesce a far emergere una lettura stratificata e problematizzante della complessità di una pluralità di sguardi che partendo dal concetto di foresta rimarca il legame di interdipendenza che accomuna tutti gli abitanti del pianeta, mantenendo grande lucidità sulla complessità delle dinamiche della globalità contemporanea.
Le opere esposte sono degli artisti Fernando Allen (Paraguay), Efacio Álvarez (Nivaklé, Paraguay), Cleiber Bane (Huni Kuin, Brasile), Cai Guo-Qiang (Cina), Johanna Calle (Colombia), Fredi Casco (Paraguay), Alex Cerveny (Brasile), Jaider Esbell (Makuxi, Brasile), Floriberta Fermín (Nivaklé, Paraguay), Sheroanawe Hakihiiwe (Yanomami, Venezuela), Aida Harika (Yanomami, Brasile), Fabrice Hyber (Francia), Morzaniel Ɨramari (Yanomami, Brasile), Angélica Klassen (Nivaklé, Paraguay), Esteban Klassen (Nivaklé, Paraguay), Joseca Mokahesi (Yanomami, Brasile), Bruno Novelli (Brasile), Virgil Ortiz (Cochiti Pueblo, Nuovo Messico, Stati Uniti), Santídio Pereira (Brasile), Solange Pessoa (Brasile), Brus Rubio Churay (Murui-Bora, Perù), André Taniki (Yanomami, Brasile), Edmar Tokorino (Yanomami, Brasile), Adriana Varejão (Brasile), Ehuana Yaira (Yanomami, Brasile), Roseane Yariana (Yanomami, Brasile), Luiz Zerbini (Brasile).
La presenza degli artisti è caratterizzata da un dinamismo di fondo: «Fondation Cartier lavora per stimolare l’incontro e lo scambio tra gli artisti, principio alla base della nascita di questa mostra, frutto di conversazioni dalle quali sono scaturiti sodalizi senza precedenti,in particolare quello tra gli artisti Sheroanawe Hakihiiwe, yanomami del Venezuela, e il francese Fabrice Hyber; l’incontro tra l’artista di Rio de Janeiro Adriana Varejão e Joseca Mokahesi, yanomami brasiliano; e la collaborazione più recente tra la yanomami brasiliana Ehuana Yaira e Cai Guo-Qiang, artista cinese con base a New York», ha spiegato l”istituzione.
Le opere sono esposte in un percorso senza soluzione di continuità grazie all’allestimento di Zerbini, che si dipana partendo idealmente da due elementi chiave: due passerelle tra le piante e la luce naturale colorata grazie a pellicole sui vetri (che intessono anche un involontario gioco di rimandi con l’opera in situ di Daniel Buren del 2014 sulle vetrate della Triennale). Questi elementi suggeriscono l’atmosfera di un sottobosco, che porta idealmente il visitatore in una condizione percettiva non ordinaria. Lo scopo, tuttavia, non è quello di un’esperienza immersiva, quanto quello di suggerire una dimensione tra onorico e reale che dovrebbe permettere al visitatore di astrarsi dalla quotidianità per porsi in ascolto, aprirsi a letture diverse della realtà e interagire con esse nella prospettiva comune di salvaguardare il pianeta, non attraverso pratica impositive o gerarchiche, ma mediante una reale volontà sia individuale che collettiva di raggiungere una soluzione comune e paritaria.
La foresta oggetto di questa mostra – ha spiegato Bruce Albert durante la conferenza stampa,- non è la foresta secondo la definzione dei nostri dizionari, non è una distesa di alberi, ma è una foresta che si ispira alla filosofia dei popoli che la abitano e ne sono i guardiani. Secondo questa concezione gli esseri umani, le piante e gli animali sono tutti esseri viventi che hanno apparenze fisiche diverse ma che condividono la stessa dignità e soggettività, la stessa sensibilità, di conseguenza la foresta oggetto di questa mostra è metafisica, pensata dai suoi popoli come una sorta di multiverso di popoli umani e non umani che convivono, in modo paritario, un livello di uguaglianza e un’interdipendenza permanente. È una concezione all’opposto della metafisica occidentale, radicata fin dall’antichità e basata su una gerarchia piramidale tra gli esseri viventi. Proprio questa concezioni di gerarchia degli esseri – e la conseguente supremazia umana – costituisce il quadro storico della distruzione della biodiversità che ai giorni nostri ha raggiunto una fase critica,. Questa mostra fa da eco alla messaggio delle filosofie autoctone, di parità e ugualianza tra tutti gli esseri viventi, propone una sorta di viaggio onirico, di allegoria in un altro mondo possibile, dove non esistono più supremazia umana e antropcentrismo.