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La Biennale di Gwangju, delicata e gentile come l’acqua

Edgar Calel, Installation view, 14th Gwangju Biennale (2023). Image courtesy Gwangju Biennale Foundation. Photo: glimworker
Il tema della Biennale, che si sta per concludere, “Soft and weak like water”, è tratto dal classico testo del Thao del filosofo cinese Lao Tzu (VI sec. a.C.) e fa riferimento ai valori di “mutamento, fluidità, indeterminazione” che guidano il Tao e che nel contempo presiedono alla molteplicità di visioni e metodologie della kermesse.

Settantanove artisti sono distribuiti in cinque locations con grande attenzione verso una relazione appropriata con lo spazio e un’interazione pausata con le altre opere, probabilmente dovute, come mi spiega l’Assistente Curatore Harry C. H. Choi, al fatto che più della metà dei lavori sono stati prodotti apposta per la Biennale e le opere sono cresciute in dialogo stretto con i curatori. Il concept e la scelta degli artisti sono della Direttrice Artistica Sook-Kyung Lee, Senior Curator, International Art e head of Hyundai Tate Research Center, mentre la Curatrice Associata Kerryn Greenberg, la seconda Assistente Curatrice Sooyoung Leam e Choi, hanno seguito gli artisti per aree geografiche di provenienza.
Molti artisti non sono noti al grande pubblico, provengono da comunità indigene di vari territori del mondo e contribuiscono a creare narrazioni alternative rispetto alla visione modernista e progressiva dell’Occidente. Il tema principale è suddiviso in quattro sotto-temi che articolano lo spazio principale dell’Exhibition Hall e gli altri satelliti. Incunabolo dell’intera mostra è la video-installazione della sudafricana Buhlebezwe Siwani che fa riferimento allo spirito degli antenati, alle tradizioni africane, al potere curativo delle piante con le video-performance delle danzatrici in stretto contatto con le acque e con la terra: disposta in un ambiente oscuro da cui pendono delle grosse corde intrecciate, ha al centro una vasca, che riflette in modo suggestivo le immagini in movimento.

Oum Jeongsoon, Elephant without trunk 2023. Courtesy the artist, Commissioned by the 14th Gwangju Biennale. Installation view, 14th Gwangju Biennale (2023). Image courtesy Gwangju Biennale Foundation. Photo: glimworkers

Il primo sotto-tema è: “Luminous Halo” e riprende lo spirito di Gwangju. È modello di rivolta popolare, nata contro il regime totalitario coreano del generale Chun Doo-Hwan, che seguiva nel 1979 due dittature durate rispettivamente diciotto anni. Il sollevamento popolare che provocò secondo le fonti rivoluzionarie 2000 morti, secondo il regime 200 morti, viene ancora oggi celebrato ogni 18 maggio, dopo quello sanguinoso del 1980. La stessa Biennale di Gwangju è nata nel 1994, per ricordare quell’importante avvenimento, modello di democrazia e di autodeterminazione nel mondo.
Ci accolgono in questa prima sezione gli stendardi con le stampe xilografiche del gruppo malese Pangrok Sulap che rappresentano immagini del sollevamento di Gwangju del 1980. Il gruppo ha fatto ricerca attraverso le testimonianze della popolazione, che è stata coinvolta nel lavoro. Frutto di collaborazione sono anche i quadri della messicana Aliza Nisenbaum, che rappresentano i componenti del gruppo locale di teatro Shin-myeong, attivo dal 1982. Il gruppo di Gwangju è diventato famoso per le sue performance all’aperto dove vengono messe in scena storie locali che evidenziano temi sociali. Anche il lavoro di Angélica Serech è frutto di collaborazione: riprende infatti la tessitura con materiali naturali propria delle donne della popolazione Kaqchikel di San Juan Comalapa in Guatemala (si trova in uno degli spazi satellite: l’ex-tempio buddista di Mugaksa). La coreana Oum Jeongsoon con il suo Elephant without trunk, ha vinto il prestigioso premio Park Seo-Bo: i suoi animali sono rivestiti di stoffe morbide e pelose, piacevoli al tatto e sono stati costruiti in collaborazione con la comunità locale di giovani ipovedenti, che durante il workshop hanno anche prodotto dei piccoli animali in terracotta. Molto intenso è il video del tailandese Taiki Sakpisit, che medita sui “conflitti politici, i traumi e la violenza” del suo paese, ricostruendo un metaforico viaggio attraverso il fiume Mekong, intercalato dalle immagini epilettiche di una medium, da animali da macello, fino alle ultime scene che si soffermano sulle loro carcasse sanguinolente infestate dalle mosche.

Taiki Sakpisit, The Spirit Level 2023. Courtesy the artist, Commissioned by the 14th,Gwangju Biennale, Supported by Yanghyun Foundation and SAC Gallery. Film still. Image courtesy the artist

Il secondo sotto-tema è “Ancestral Voices” e richiama la tradizione, la spiritualità, i riti locali. Accanto ai magnifici dipinti delle aborigene australiane (ormai ineliminabili in qualsiasi Biennale) Emily Kame Kngwarreye e Betty Muffler, si trovano le evocazioni delle offerte di frutta agli antenati e la rappresentazione murale di una casa tradizionale dell’artista della popolazione Kaqchikel Edgar Calel, opera apprezzata dai visitatori coreani, cui ricordava le tradizioni locali (comunicazione di Choi). Particolarmente scenografica l’installazione di fili multicolore del Mataaho Collective, gruppo di donne Maori formatosi nel 2012, che recupera la tessitura tradizionale fatta di materiali naturali ed incorpora la resistenza e la responsabilità di chi trasporta pesanti carichi per lunghe distanze. In questa sezione ci sono anche artisti storici coreani, che contribuiscono a dare profondità e radicamento alla storia artistica del paese.

Meiro Koizumi, Theater of Life 2023. Courtesy the artist, Annet Gelink Gallery and MUJIN-TO Production, Commissioned by the 14th Gwangju Biennale and Han Nefkens, Foundation. Installation view, 14th Gwangju Biennale (2023). Image courtesy Gwangju, Biennale Foundation. Photo: glimworkers

Il terzo sotto-tema, “Transient Sovereignity”, riguarda discorsi postcoloniali accompagnati dai concetti di migrazione e diaspora. Il gruppo coreano formatisi nel 2021, presente anche all’ultima Documenta, IkkinawiKrrr presenta il video a due canali Tropical Story che indaga le tracce di vicende di guerra di Micronesia e Indonesia per illuminare i rapporti tra Corea e l’Asia del Sud-Est, affrontando così temi riguardanti relazioni tra civiltà, colonizzazione, ecologia. Naiza Khan indaga attraverso il disegno e la fotografia vicende riguardanti la costruzione del porto di Karachi durante l’Impero Britannico. Attraverso una spettacolare videoproiezione a cinque canali il giapponese Meiro Koizumi mostra la sua indagine sulla comunità Koryo-in (che era scappata nell’Asia Centrale) ora basata a Gwangju, di cui traccia la storia teatrale. Il recupero viene fatto con la collaborazione di 15 giovani di quella comunità, che diventano i performer del dramma. Parte di questo tema, ma in altre due sedi, erano due interventi molto interessanti. La videoinstallazione di Candice Lin, che traccia un parallelismo tra le vicende dello sfruttamento dei lavoratori del litio e quelle degli antichi vasai, recuperando così la storia autoctona locale presente nel museo. Il video di Naeem Mohaiemen ricostruisce sullo sfondo di un ospedale sporco e abbandonato la tristezza della malattia di una donna accompagnata dal suo uomo. La vicenda familiare si iscrive nell’orizzonte della tormentata storia del Bangladesh.

Anne Duk Hee Jordan, Octopus Garden from So long, and thank you for all the fish 2023. Courtesy the artist, Commissioned by the 14th Gwangju Biennale, Supported by Yanghyun Foundation. Detail, 14th Gwangju Biennale (2023). Image courtesy Gwangju Biennale Foundation. Photo: glimworkers

Infine “Planetary Times” riguarda problematiche ecologiche. D’impatto il confronto di due artisti coreani e il loro utilizzo di linguaggi tradizionali o super-tecnologici: il primo, Minjung Kim, dipinge in bianco e nero la natura secondo una strategia seriale e ripetitiva vibrante e delicata recuperata dall’estetica della pittura tradizionale coreana; la seconda, Anne Duk Hee Jordan, immerge lo spettatore in un’atmosfera specchiante, acquosa e notturna dove esseri vagamente fitomorfi compiono movimenti automatizzati e ci proiettano in un futuro distopico.
Quest’anno la città è disseminata da nove padiglioni nazionali. Devo ammettere, e non per campanilismo, che il Padiglione Italia, curato da Valentina Buzzi, per concept, uso dello spazio, valori di innovazione e interdisciplinarietà, è il più fresco ed interessante. Gli artisti presenti sono: Camilla Alberti, Yuval Avital, Marco Barotti, Agnes Questionmark, Fabio Roncato.

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