Fabrizio Lupo, nato a Palermo nel 1957, rinnova la scenografia di feste popolari e reinventa il Teatro dei Pupi, la musica barocca e il Festino – tra le feste più antiche d’Europa – dedicata a Santa Rosalia, patrona della sua città. Fondatore del MU.Sa.R museo diffuso per Santa Rosalia nella sede dei Cantieri Culturali alla Zisa, Lupo in quarant’anni di lavoro ha realizzato molti Carri Trionfali per la Santuzza, anche con la collaborazione dei suoi studenti dell’Accademia di Belle Arti di Palermo. Oggi si racconta in questa intervista.
Scenografo per il cinema, regista, docente all’Accademia di Belle Arti a Palermo, pittore e scrittore quando hai deciso di intraprendere questa carriera ? Ci racconti da dove vieni e cosa fai?
Io credo fermamente che tutti noi abbiamo innato il senso del teatro, pensate a un bambino che giocando inscena delle rappresentazioni con i suoi piccoli amici, oppure da solo. Da piccolo costruivo dei mondi cospargendo ad esempio un tappeto di borotalco, per fare la neve e poi giocare ai soldatini e costruivo le casette coi cuscini e altro ancora. Insomma il mio senso del teatro è qualcosa di innato, noi mettiamo in scena mondi e modi di immaginare il nostro futuro. Il teatro rispecchia il mondo dei nostri sogni. Sono rimasto il bimbo che ero anche da adulto, continuo a sognare e faccio lo scenografo o scrivo testi. Sono tra i fortunati che hanno fatto quello che pensavano di dover fare fin da piccoli.
Hai lavorato per oltre dieci anni nel laboratorio di realizzazioni scenografiche del Teatro Massimo e del Biondo di Palermo, quanto ha inciso questo periodo sulla tua ricerca, crescita professionale e radicamento alla tradizione di cultura popolare?
Ho iniziato a fare teatro a sedici anni, la mia prima scenografia nasce in un teatro underground degli anni ‘70 che si chiamava la “Locanda degli Elfi”, realizzavo tutto con materiale di recupero, raccogliendo il cartone e gli oggetti corrosi dall’acqua di mare, era uno spettacolo di Ninni Truden dedicato a Gabriel Garcia Marquez e le sue meravigliose storie sudamericane. Poi c’è stata una pausa dovuta a problemi familiari ma il destino ha bussato alle mia porta , e ho avuto la fortuna di entrare a far parte della famiglia del Teatro Massimo. Da quel momento sono entrato ufficialmente nel mondo dell’Opera lirica internazionale. Erano gli anni’80, in palcoscenico lavoravamo con Silvano Bussotti, Giancarlo Menotti e grandi scenografi di quel tempo, come Carlo Savi ed Emanuele Luzzati. Io facevo le marionette con il mio amico Giovanni Mazzara, insieme abbiamo realizzato le opere liriche in miniatura. Giocavamo insieme e tutti venivano a vedere le nostre marionette. Ricordo che Luzzati dapprima rimase perplesso quando vide il personaggio di Papageno, poi però ammise l’originalità del lavoro e siamo diventati amici. La collaborazione con il Teatro Biondo venne un po’ dopo, quando ebbi l’occasione di collaborare con Roberto Guicciardini, che per il teatro italiano è stato un grande maestro, un innovatore. Il periodo al Teatro Biondo con lui lo ricordo com’è il più fertile in città per lo Stabile.
Cosa significa per te vivere a Palermo e quando incide sulle tue scelte professionali ?
E’ fondamentale. Le radici non sempre sono importanti ma nel mio caso è stato fatale l’ incontro con i pupari con i luminaristi, con la tradizione dei festini, una istituzione culturale della mia città. Identità, storia e memoria che ho vissuto a fondo, ho osservato e immaginato Palermo. Per esempio sin da ragazzino con la bicicletta giravo tra i fantasmi della città ancora distrutta dalla guerra, ancora non ricostruita, eppure aveva un fascino speciale. Sentivo i fantasmi che si aggiravano tra le rovine , però se poi non fossi andato a Firenze, da ragazzo, a vedere la grande mostra di Henry Moore, oppure a Londra, poi Amsterdam a Roma e altre città non sarei uscito da me stesso e dal mio piccolo mondo e non sarei diventato ciò che sono. Per amare e reinventare Palermo bisogna andare via e osservare altro, poi si torna con uno sguardo diverso. Mi hanno sempre affascinato le botteghe dei costruttori di Pupi, da loro ho appreso non tanto il mestiere, quanto a respirare e vivere quello che doveva essere la bottega di mio nonno, che faceva il cesellatore. E, anche se non l’ho mai conosciuto, credo di avere ereditato una vocazione artigiana impressa nel mio DNA .
In quarant’anni di attività hai creato tra i più bei Carri in onore di Santa Rosalia, la santa patrona di Palermo, realizzati in occasione di Festino, o meglio U Fistinu come dite voi, che è tra le più importanti celebrazioni religiose siciliane nata all’insegna della coralità, riconosciuta come patrimonio immateriale d’Italia, giunta quest’anno alla 399 edizione, ci descrivi il nuovo Carro Trionfale e quali novità hai introdotto?
Per me ogni festino che ho fatto è speciale. Quest’anno ancora di più, perché siamo riusciti a portare la costruzione del carro al cantiere all’interno della Missione di Speranza e Carità di Biagio Conte, scomparso a gennaio. Il missionario laico, prima di morire un anno fa, mi disse che sarebbe stato meglio porre la statua di Santa Rosalia in mezzo alla gente non in alto su quell’altra Torre, come si è sempre fatto. Così per il Festino del 14 luglio sono passato alla posizione orizzontale e non più verticale della Santa e con il mio amico Filippo Sapienza, abbiamo aggiunto al Carro una grande luna di 10 metri. La Santuzza è apparsa adagiata su un letto di nuvole, camminando tra la gente in equilibrio sulla luna. Noi non abbiamo fatto scendere la luna ma abbiamo fatto salire tutti tra i sogni di Biagio. Devo aggiungere che conoscere la Missione di Biagio lavorare lì, mi ha insegnato l’umiltà, a non essere superbo.
Dopo questa esperienza umana e professionale considero ancor più l’arte come uno strumento di comunione e non uno strumento di celebrazione personale.
Il Festino è un cantiere della creatività, una festa dei palermitani che in Santa Rosalia trova una ragione di identità collettiva, ma nell’epoca digitale e dopo la pandemia cosa è cambiato ?
Io non posso sapere cosa è cambiato però mi piace immaginare che non è cambiato nulla. Io mi sento vicino a Giacomo Amato, l’architetto senatoriale che a cavallo tra Seicento e Settecento, decise di staccare il festino dalla concezione esclusivamente religiosa, sdoppiandolo in due giornate del 14 e 15 luglio, distinguendo così la processione delle reliquie dalla processione del carro trionfale, che portava un messaggio festoso con i suoi musicisti, che all’inizio erano una regola fissa. In questi ultimi anni non si è fatto sempre così, oggi per semplificare si mette la musica registrata. Io ho inserito sovente i musicisti sul carro perché la musica unisce e comunica, è corale e universale. Ad esempio l’anno scorso per il festino proposi il nome “Canto contro la peste “, per festeggiare il primo festino che si faceva dopo due anni “a Carro fermo”. Abbiamo celebrato il ritorno alla normalità con un canto corale che scendeva in strada con i musicisti sopra e sotto il Carro, intonando canti come speranza di salvezza. Ci sono due motivi per cui il Festino di quest’anno si è chiamato “Rosalia e Sogno”, uno è un po’ una cosa che ho pensato con Filippo Sapienza, è stato lui a suggerire il simbolo della luna, quando gli dissi che questo festino doveva essere dedicato ai giovani ai loro desideri, al desiderio di un futuro migliore. Filippo mi ha ricordato che questo è l’anniversario del sogno di Girolama La Gattuta, che ebbe l’apparizione di Rosalia come una monaca infermiera che la curava. Il secondo motivo è che l’illusione, il credere al mistero, è qualcosa di connesso con l’origine delle religioni. Per tutti vale il riconoscersi in un sogno. L’uomo è libero di sognare. Nel sogno si vedono cose che non ci sono e si immagina un universo altro, si vive in una dimensione parallela; è proprio da lì che nasce il sentimento religioso. I simboli attraggono i sogni nell’arte e nella vita. Nel sogno si viaggia e in fondo siamo tutti Pellegrini dei nostri sogni
Anche la FondazioneTeatro Massimo quest’anno partecipa, come nelle edizioni precedenti alla realizzazione del Festino sempre più aperta ai giovani musicisti, quali sono le connessioni tra la strada, il tradizionale corteo storico che attraverserà la città dalla Piano di Palazzo de Normanni fino alla Marina con il celebre spettacolo dei giochi d’artificio (nella notte tra il 14 e 15 luglio) e il Teatro Massimo?
Sembra una domanda semplice ma in realtà la risposta è molto complessa. Io credo che i palermitani amino il Massimo più di qualunque altro teatro perché lì la musica si sposa con tutte le altre arti. E’ un luogo aulico in cui la rappresentazione viene posta ai livelli più alti della comunicazione. Il Teatro è nato proprio in Italia ed anche Palermo sin dalle sue origini ha dato il suo contributo, in quanto gemellata con Napoli. I conservatori di Palermo e di Napoli sono le tra le istituzioni musicali più antiche in Italia. Il Teatro Massimo, invece è uno degli ultimi grandi teatri d’Europa ad essere costruito (1875-1897), E un teatro maestoso progettato dall’architetto Ernesto Basile , sproporzionato per la città quando è stato costruito, oggi è di una dimensione corretta per una grande città internazionale come Palermo. Il Teatro si pone al confine tra il centro storico e la città nuova dell’Ottocento , con il suo tamburo e con la sua torre scenica, si impone dal punto di vista urbanistico, ed è giusto che la sua musica scenda in piazza con le sue orchestre giovanili, che insieme rappresentano il desiderio di elevazione di un popolo che è stato sempre vessato e che oggi intende riscattare se stesso attraverso le arti Nobili.
Cortei, processioni, sfilate di carri sono sempre stati i momenti più coinvolgenti, dal 1625, del Festino, nel flusso degli eventi, oggi non rischia di banalizzarsi in instagram, o essere solo un modo per ‘medializzare ‘ Palermo . E’ una strategia di marketing territoriale e un presupposto per spettacolarizzare la città, per riempire il vuoto spirituale della nostra epoca o altro? Cosa ne pesi?
Penso che hai colto nel segno. Io lotto contro questa banalizzazione, secondo me non bisogna mirare all’impatto spettacolare del Festino, in quanto attrattore del turismo. In una famosa trasmissione Davide Rampello, che fu un direttore artistico di molti festini e con il quale ho collaborato, diceva :<< viaggiate ma non da turisti ma come ospiti>> . Secondo me è questo il punto, far sentire i turisti ospiti per vivere il Festino come pellegrini, in una città scrigno di tante bellezze. Palermo e il suo patrimonio artistico, architettonico e culturale non è statico, questi non sono luoghi morti. Ricordo che l’anno scorso con le mie collaboratrici e allieve, abbiamo fatto un carro dorato ispirandoci ai mosaici delle stanze di Re Ruggero e gli abbiamo disegnato sopra la musica di un canto che ho inventato insieme al mio amico musicista Maurizio Maiorana. Ecco, reinventare la tradizione, questo per me significa non fare morire il passato, ma riproporlo sempre in nuove forme. A Palermo mangiamo le arancine o i cannoli, ma dovremmo fare in modo che non diventino hamburger. Voglio dire che le tradizioni devono essere rispettate ma rinnovate con le dovute attenzioni culturali. Per esempio l ‘Opera dei Pupi deve essere mantenuta e non lo si fa soltanto vendendo i pupi. L’opera autentica si viene a vederla a Palermo, poi si possono anche acquistare i pupi per i salotti e diffonderli in giro per il mondo, ma prima bisogna scoprire Palermo anche attraverso l’Opera dei pupi, radicati con la storia di questa città. Io penso che il Festino e l’Opera dei Pupi sono tradizioni che noi dobbiamo salvaguardare dalla contaminazione, in modo tale che la globalizzazione non sia negativa. Palermo è città portuale e da sempre aperta a contaminazioni , capace di accogliere i cambiamenti, ma dobbiamo insegnare ai giovani quello che noi sappiamo fare da millenni che è un patrimonio cultuale di accoglienza verso gli altri popoli . Palermo vessata, conquistata è crogiolo di popoli e culture diverse, che si sono uniti nella nostra isola e hanno generato nuove tradizioni , e noi siamo frutto di queste contaminazioni. Sbarcare in Sicilia non significa fare il turista ma venire contaminati dal nostro sole dalla nostra trinacria e dal nostro sguardo immaginifico sul mondo, aperto sul futuro.
Hai lavorato anche per teatro, quali sono stati gli spettacoli più significativi per te che segnano una tappa fondamentale della tua carriera ?
Beh credo che lo spettacolo che più abbia segnato il mio percorso di teatro è l’opera lirica “’Angelo il Golem” che abbiamo costruito con il mio amico d’infanzia Francesco la Licata nel 2000, che cerca di fondere il teatro con il cinema non so se ci siamo riusciti, però ci abbiamo provato. Io credo che l’opera sia aperta e debba sempre cercare un nuovo modo di rappresentarsi. Non si può continuare ad utilizzare gli stilemi ottocenteschi, sia pure altissimi, a noi contemporanei spetta il compito di sperimentare nuove tecnologie. Oggi abbiamo nuovi strumenti e dobbiamo approfittarne, ecco per me quell’opera è stata la chiave di volta che mi ha fatto capire, rischiando di essere incompreso e anche rifiutato, che è l’opera che trasforma l’autore e altrettanto di quanto l’autore forma l’opera.
Perché si dice di te che sulla scena fai miracoli ?
Beh miracoli… preferisco chiamarli “prodigi”… e a volte accadono perché io credo ciecamente in quello che faccio. Quando una cosa non mi convince cerco di evitare di farla, quindi immergermi completamente significa stabilire un rapporto onirico con ciò che realizzo. Non è un sogno lucido ma esattamente il contrario, ovvero cerco di contaminare la vita reale con il sogno; tutto ciò che faccio è il frutto di desideri e visioni che si sono formate in precedenza. Io amo molto confrontare l’opera con l’alchimia, e in alchimia la trasmutazione del piombo in oro avviene secondo una serie di rituali codificati. Dunque se tu sei corretto nel mettere in atto quei rituali alla fine il miracolo avviene.
C’è differenza tra l’arte scenica cinematografica e quella teatrale ?
Dal punto di vista tecnico ci sono delle differenze evidenti, fondamentalmente in un palcoscenico tu porti degli spazi che sono da un’altra parte e li concentri tutti in un punto della scatola scenica. Viceversa, al cinema fai esattamente il contrario, porti lo spettatore nei posti dove vai a girare il film, e quindi la camera ti trasporta nel posto dove giri. Certo esiste ancora il teatro di posa ed è ancora una grande magia, perché riunisce il cinema al teatro. Per esempio il regista Georges Melies dipingeva le scene come uno scenografo camminandoci sopra, con i lunghi pennelli della scenografia ottocentesca, quindi le due cose a volte si confondono. E’ anche vero che alla fine poi quelle visioni te le porti in giro, ma ancora più in fondo il teatro mette in scena la fisicità, al contrario della scenografia cinematografica. Credo che la differenza fondamentale tra cinema e teatro, è che nel film noi entriamo con la mente all’interno dello schermo bidimensionale, mentre a teatro ci confrontiamo con una presenza fisica dell’attore, che entra in relazione direttamente con il pubblico. A teatro tutto è vivo e l’attore è sempre presente, suda, puzza, a volte sbaglia, grida, mentre al cinema tutti gli errori vengono tolti in post produzione. Oggi poi con gli FX si scarta tutto quello che non piace. A teatro un errore non lo nascondi ma a volte l’errore a ti porta delle visioni nuove, quindi il teatro è vita e il cinema morte.
Insegni Scenografia all’Accademia di Belle Arti di Palermo, nel tuo laboratorio i tuoi allievi vivono il clima di una “bottega” rinascimentale, che metodo e come ti poni di fronte a questa generazione connessa in rete e spesso sconnessa con la realtà?
Io ho imparato nella bottega del Teatro Massimo, dove si miscelavano i colori con le polveri e la colla di coniglio con delle tecniche ottocentesche tedesche che però si rifacevano delle tecniche rinascimentali, le quali si riconoscevano a delle tecniche antichissime, cioè le polveri che si miscelano con le colleghe animali. Il mio vissuto la bottega mi porta a cercare ricreare questa realtà con i miei allievi. Ho fatto la scelta di assecondare una naturale inclinazione didattica , tipo quella del fratello maggiore in cui si stabilisce la scala gerarchica in cui sì tu sei il maestro. Nel tempo il professore diventa un maestro, come gli anziani di bottega che trasferivano le loro conoscenze acquisite nel tempo ai più giovani, per imparare a essere dei futuri maestri. Bisogna sbagliare , se ti dice tutto il maestro Io credo che non si possa aiutare a crescere. Il vero maestro ti deve mostrare la via, ma poi devi essere tu percorrerla. Con i miei allievi non do tutto per scontato, ma ogni studente è diverso e ha una sua caratteristica di comprendere come si diventa scenografi , questo si impara in una bottega.
Carri devozionali, luci, effetti multimediali, musica e azioni, la scenografia come è cambiata in rapporto alla tecnologia ?
La grande svolta si ebbe nel 1995, quando Sandro Tranchina, con il quale collaborai come scenografo realizzatore capo cantiere del carro, disse che il Festino andava fatto di sera non di pomeriggio, e lì è cambiato tutto perché la piazza è diventata palcoscenico. Tradizionalmente il carro procedeva di giorno, con i buoi e la processione, a volte con i cavalli. La cavalcata, il corteo storico, la musica e i musicisti sul carro, era una ricostruzione scenografica di grande impatto visivo e sonoro. Ma quando il Festino è passato alla versione notturna, si è potuto fare, grazie anche all’esperienza del grande circo di Valerio Festi, quello che non si sarebbe potuto fare se fossimo rimasti ancorati alla versione diurna. Comunque il giorno 15 luglio è il giorno della processione, quella delle reliquie, e la rappresentazione del percorso devozionale resta un rito tradizionale. Un Festino che si rispetti, nella notte del 14 luglio, si pretende che i sogni si materializzino, vogliamo vedere gli appestati e gli angeli veleggiare sopra la nostra testa e i palazzi svanire grazie al mapping delle video proiezioni e magari avere il fuoco che rotola in mezzo alla folla.
Che rapporto hai con la tecnologia nelle tua scenografie ?
Ho un ottimo rapporto con la tecnologia, in tempi non sospetti quando il computer ancora non ci aiutava a disegnare, tranne per gli ingegneri con l’autocad ho iniziato a usare i programmi per il disegno, sono stato un finanziatore del personal computer, in quanto ho comprato dei personal che a quei tempi non riuscivano a fare niente di interessante. Ma a me piaceva sperimentare. Dalla fine degli anni ’80, ho iniziato questo lungo percorso che portò dall’analogico al digitale. Oggi i miei allievi hanno tutti il portatile, quando sono entrato io in Accademia, una quindicina di anni fa, abbiamo dovuto comprarli perché i ragazzi non li avevano, adesso invece ognuno ha il suo, è una regola. Da poco ho fatto i primi esperimenti con l’Intelligenza Artificiale che non vedo nemica, al contrario la sperimento come un aiuto. Ho anche riflettuto sulla robotica, ideando un soggetto e poi mettendolo in scena con i miei allievi e del conservatorio con il mio amico Fabio Correnti che ha scritto la musica e una mia allieva Giulia Costumati ha scritto il libretto. E’ un’opera lirica che si chiama “RUR”, ispirata all’ ideatore della parola robota, Carol Cepeck. Diciamo che sono un fautore della tecnologia ma contemporaneamente non dimentico il valore dell’utilizzo di strumenti più arcaici, tipo la matita, poi la carta ruvida è fantastica, come gli acquerelli, anche se ho un telefono che fa delle ottime fotografie, con quattro obbiettivi. Comunque vada mi porto sempre dietro carta e matita, perché tradizione e innovazione devono viaggiare parallele .
A quale progetto stai lavorando attualmente legato al territorio e alla salvaguardia dell’identità storica e culturale di Palermo ?
Grazie a una conferenza che mi hanno invitato a fare a Ottawa in Canada il prossimo agosto, sto approfondendo il rapporto tra due importanti tradizioni del nostro territorio, ovvero i festini e quindi il corteo trionfale, che da barocco diventa potremmo dire “iperbarocco”, e la tradizione dell’Opera dei Pupi che ha bisogno invece di un grande svecchiamento, perché non credo che si possa continuare a raccontare la lotta tra cristiani e saraceni. É un tema veramente desueto e che porta a mio avviso su una strada non bella perché può essere fraintesa dalle altre religioni. Credo che i pupi debbano essere messaggeri di pace. Per esempio ho amato molto “Francesco e il sultano” scritto Salvo Licata con la regia Mimmo Cuticchio, che riconosco come mio maestro.
Mai pensato di vivere in un’altra città se si quale e perché ?
È difficile pensare di vivere in un’altra città per me, perché in questa città ho le mie radici ma se dovessi proprio scegliere, punterei su due città mitiche, Roma e Parigi. Forse mi sento più a casa a Roma, in quanto è una città che ha una radice arcaica, come la mia Palermo, e però ha un cuore fortemente religioso: è l’essenza della cristianità più autentica e popolare. Roma è stata città imperiale, caput mundi, dove convergono tutte le strade. Balam, Panormo, ovvero Palermo è una città di confluenza, è porto culturale del Mediterraneo di un isola baciata dagli dei, dove s’incontrano diverse genti e culture da sempre. Come dicono gli antropologi, penso che in un futuro tutte le pelli produrranno un colore unico di pelle ambrato, e tutte le fisionomie si fonderanno in un’unica etnia. Questa è una previsione probabile, poiché con le migrazioni attuali si svilupperà nel prossimo millennio una nuova generazione, che oltre al cambiamento fisico includerà anche quello culturale. Palermo è sempre stata globale, la globalizzazione non la vedo come un fattore negativo, perché sviluppa la comunicazione tra i popoli. E’ un valore aggiunto avere la tecnologia che ci aiuta a comprendere le lingue degli altri popoli, attraverso meccanismi di traduzione simultanea e a conoscere altre realtà. Certo camminiamo su una lama di rasoio e potremmo anche scivolare in una Babilonia dispotica, ma potremmo anche non scivolare; tutto dipenderà dall’uso saggio che faremo della tecnologia.