Michela Murgia si è spenta oggi, 10 agosto, a Roma. Aveva 51 anni. La scrittrice, attivista e critica letteraria soffriva di un carcinoma renale al quarto stadio. Dallo scorso 6 maggio, data in cui raccontò pubblicamente del tumore in un’intervista ad Aldo Cazzullo sul Corriere, ha aggiornato i suoi lettori con costanza sullo sviluppo della sua malattia. Lo scorso 15 luglio sono arrivate le seconde nozze, sposandosi civilmente con l’attore Lorenzo Terenzi. Un passaggio obbligato determinato dalla necessità di garantirsi i diritti a vicenda qualora le cose si fossero complicate perché «lo Stato vuole un nome legale che prenda le decisioni».
«Il cancro non è una cosa che ho; è una cosa che sono»
Qui il bellissimo articolo del Corriere della Sera a firma Ida Bozzi:
Sapeva passare dalla riflessione sulla spiritualità alle analisi sociali e politiche, anche vivacemente polemiche, sulle tentazioni moderne del fascismo. Praticava con naturalezza ostinata l’impegno per la parità di genere, era fiera della sua «famiglia queer» riunita in una casa con quattro figli «d’anima», come li chiamava, e portava alta anche la bandiera della sua Sardegna e delle civiltà sarde, dei matriarcati ricchi di tradizione e misconosciuti, ai quali aveva dato voce con il suo romanzo più noto, Accabadora (Einaudi, 2009), con cui aveva vinto il premio Campiello 2010.
Si è spenta la scrittrice Michela Murgia, a causa del tumore che l’aveva già messa alla prova alcuni anni fa: era una delle voci più nuove e influenti della letteratura italiana contemporanea. Era stato importante, quel suo Accabadora, perché aveva aperto la strada alla riscoperta contemporanea delle culture femminili, soltanto in seguito percorsa anche da altre scrittrici e altri scrittori delle nuove generazioni.
Appena pochi mesi fa, poi, il 6 maggio 2023, aveva rivelato la sua malattia ad Aldo Cazzullo, durante un’intervista al «Corriere della Sera»: un carcinoma ai reni al quarto stadio che le lasciava poco tempo. Lo aveva annunciato in modo più indiretto anche nell’ultimo libro, Tre ciotole. Rituali per un anno di crisi (Mondadori, 2023), entrato subito in vetta alle classifiche librarie e tuttora ai primi posti, un romanzo di racconti in cui aveva affrontato le crepe improvvise che stravolgono le esistenze, lutti, dolori, amori spezzati: nella prima di quelle storie aveva narrato proprio lo choc della scoperta della malattia.
Nelle ultime settimane, il rapido peggioramento: l’11 giugno aveva annunciato il ritiro dagli incontri pubblici, e a metà luglio aveva sposato «in articulo mortis» Lorenzo Terenzi, «per avere diritti che non c’era altro modo di ottenere così rapidamente». Sui social aveva pubblicato le immagini delle nozze, chiedendo ai lettori: «Niente auguri, perché il rito che avremmo voluto ancora non esiste. Ma esisterà e vogliamo contribuire a farlo nascere».
Nata a Cabras, in provincia di Oristano, il 3 giugno 1972, dopo gli studi religiosi e l’attività all’interno dell’Azione cattolica, Murgia è stata a lungo insegnante di religione, ma ha svolto diversi lavori «precari» che le hanno fornito ispirazione per un blog, poi diventato un libro-denuncia, ironico e drammatico insieme, Il mondo deve sapere. Romanzo tragicomico di una telefonista precaria (Isbn, 2008; poi Einaudi, 2017), sul mondo del telemarketing, divenuto nel 2008 un film di Paolo Virzì con il titolo Tutta la vita davanti. Una delle prime voci a denunciare la discriminazione del precariato, e del precariato femminile in particolare. Einaudi le ha pubblicato nel 2008 una guida letteraria ai luoghi della Sardegna, Viaggio in Sardegna. Undici percorsi nell’isola che non si vede, ma è con il romanzo maggiore, del 2009, che Murgia traccia il ritratto della Sardegna davvero invisibile e sconosciuta ai più: siamo nel territorio della letteratura, quello percorso da Elsa Morante che raccontava l’Italia e la guerra, e le sue donne e madri, nelle vite segrete e quotidiane nel suo La storia, o da Dacia Maraini ne La lunga vita di Marianna Ucrìa.
Accabadora è la storia di un’anziana donna che in un villaggio sardo dà di nascosto la morte ai malati gravissimi che gliela chiedono, e di una bambina che la donna adotta e che scopre a poco a poco il vero scopo delle uscite notturne della madre adottiva. Il romanzo, che oltre al Premio Campiello, ha ottenuto il Dessì e il SuperMondello, porta alla ribalta la scrittrice. E i motivi sono numerosi: è un romanzo di atmosfere e di rarefazioni, che mette in luce uno stile narrativo vicino al realismo magico; è una scoperta letteraria ma anche etnoantropologica, di ricerca nelle tradizioni della civiltà paesana e sarda, che rivela i saperi femminili più antichi e irregolari, vicini alla scienza e alla medicina, ancorché non riconosciuti; ed è un libro che sa affrontare, parlando degli anni Cinquanta nella Sardegna più nascosta, un tema attuale ancora oggi, e universale, quello dell’eutanasia.
Molti gli epigoni di Murgia, dopo quel romanzo, che ha in qualche modo svelato quanto le culture arcaiche raccontino le radici del mondo contemporaneo, e quanto nei piccoli mondi dell’immensa provincia italiana le donne abbiano saputo ritagliarsi un ruolo autorevole, misteriosamente misconosciuto dalla modernità. Non stupisce se, dopo il romanzo, Murgia è diventata una delle voci femminili più note e più ascoltate, e anche attaccate, sui media più diversi, in televisione o sui social come opinionista, con polemiche che hanno fatto rumore: una sul suo uso della schwa, la vocale neutra che include tutti i generi. Un’altra, in occasione del matrimonio, nel tweet dell’ex senatore leghista Simone Pillon: «Michela Murgia ha deciso di sposarsi definendo il matrimonio “patriarcale e limitato”. Michela, di alternative ne avevi molte, ma hai scelto il matrimonio. Forse perché sai che è la forma più alta per riconoscere l’amore tra un uomo e una donna». O ancora sabato 5 agosto, quando ha polemizzato con il sindaco di Ventimiglia per l’utilizzo del servizio di vigilanza per impedire ai migranti di usare bagni e fontane al cimitero di Ventimiglia, parlando di «regime fascista».
Forse per questo i suoi libri si sono fatti sempre più impegnati, ostinati, per perfezionare l’opera di racconto del femminile e la costruzione di una società di rapporti più liberi, come liberi erano quelli all’interno della sua famiglia queer: la voce ferma di Murgia sembra preferire a lungo il testo saggistico, che consente alla scrittrice di raccontare il tempo moderno e di diventare propositivo, impegnato, quello di un’attivista. Come in Ave Mary. E la chiesa inventò la donna (Einaudi, 2011), in cui da credente e studiosa di teologia l’autrice conduce un’indagine puntigliosa sul femminile nel Vangelo, ma anche nel pop contemporaneo della pubblicità e dei rotocalchi, alla ricerca dei luoghi comuni e delle deformazioni dell’immagine della donna. O come L’ho uccisa perché l’amavo (falso!) (con Loredana Lipperini, Laterza, 2013), in cui prende la parola intorno al cosiddetto «amore tossico», quello dei maltrattamenti, delle violenze e delle morti delle donne, per spiegare che anche a partire dalle parole si cambia il mondo.
L’attenzione al linguaggio era centrale per Murgia, e non solo a proposito di schwa, anche nelle ultime settimane, in cui i suoi messaggi sui social proseguivano con la stessa lucida e serena fermezza di sempre. Sempre parole precise, scelte con cura, come aveva spiegato nell’intervista di maggio a Cazzullo, quando raccontava di non amare concetti come «lotta alla malattia», o «combattere il tumore»: «Non mi riconosco nel registro bellico». Bisognava cambiare le parole perché dalle parole vengono i fatti, come ha dimostrato anche in Stai Zitta, e altre nove frasi che non vogliamo sentire più (Einaudi, 2021): la serenità e la forza con cui ha affrontato gli ultimi mesi di sofferenze vengono anche da queste scelte.
Tra le questioni affrontate più spesso da Murgia, la coesistenza di elementi all’apparenza inconciliabili, come fede e libertà sessuale (e temi come femminismo, eutanasia, aborto…), cui ha offerto la sua risposta in God save the Queer. Catechismo femminista (Einaudi Stile libero, 2022): è un’altra chiave della sua esperienza, che condivide nel saggio, cioè la queerness, intesa non come diversità o stranezza come dicono i vocabolari, ma come «soglia» e apertura. Lo aveva sostenuto anche a luglio, in occasione delle nozze, come un lascito: «Il nostro vissuto personale oggi è più politico che mai, e se potessi lasciare un’eredità simbolica, vorrei fosse questa: un altro modello di relazione».
Numerose le presenze in antologie e raccolte editoriali; una per tutte, in Sei per la Sardegna (Einaudi, 2014) con il racconto L’eredità. E numerose ancora le prove narrative, come il «corto» L’incontro (Corriere della Sera, 2011; poi Einaudi, 2012), il romanzo Chirú (Einaudi, 2015) e Noi siamo tempesta (Salani, 2019).
Ma lo sguardo alle «soglie», alle storie di libertà delle donne (ma non solo per le donne), era tornato anche nel recente Morgana. Storie di ragazze che tua madre non approverebbe (con Chiara Tagliaferri, Mondadori, 2019) in cui Michela Murgia aveva dato voce a dieci donne fuori dagli schemi, Moana Pozzi come Marina Abramovic o Vivienne Westwood. Più un’altra voce, la sua, che alla letteratura mancherà.