Tre luoghi chiave del contemporaneo nella Marsica. Pereto, Tagliacozzo e Scurcola Marsicana, con Arturo Martini
STRAPERETANA 2023 – ULTRAMODERNE (8 luglio – 10 settembre 2023)
Pereto è un antico comune della Marsica (AQ), già abitato nell’epoca preistorica e che, ponendosi su un alto sperone di roccia, si erge con il suo castello medievale edificato da Federico II di Svevia, sulla Piana del Cavaliere, sita al confine tra l’Abruzzo e il Lazio. Il suo territorio è stato zona di confine, tanto da far sorgere il motto “Pereto, la porta d’Abruzzo”. Per il suo fascino, è incluso dal quotidiano spagnolo «El País» nella classifica dei trentacinque borghi più belli d’Italia. Straperetana, importante manifestazione d’arte contemporanea diffusa nel borgo e nei suoi due palazzi storici, aperti per l’occasione ai visitatori: Palazzo Maccafani e Palazzo Iannucci. Nata sette anni fa, nel 2017, è giunta alla settima edizione, con la curatela dell’associazione culturale omonima, attiva per innestare sinergie negli spazi pubblici e privati di Pereto, stimolando il dialogo con la comunità locale e con il pubblico esterno, tramite iniziative sull’arte contemporanea. L’edizione di quest’anno, sempre svoltasi nel periodo estivo, è interamente al femminile e ha visto, grazie agli ideatori di Straperetana Delfo Durante e Paola Capata anche gallerista di Monitor nelle sue tre sedi di Roma, di Lisbona e di Pereto stesso, le opere di diciotto artiste donne di diverse generazioni artistiche, non certamente racchiudibili in un preciso momento storico. Dalla fluttuazione in un percorso espositivo che abbraccia una labilità temporale ma in cui spontaneamente è percepibile il nesso che lega le singole opere, nasce il titolo Ultramoderne, accezione atemporale che ben individua il grande lasso di tempo percorribile. È intellegibile, per chi si muove attentamente tra le vie e le piazze che accolgono i lavori, cogliere l’imprevisto dell’opera che pian piano si svela allo sguardo. Le opere allestite all’esterno, infatti, sono state disposte secondo una naturale contaminazione con il circostante. I trenta lavori, alcuni dei quali site-specific, recano una forte testimonianza espressiva per la storia, il quotidiano, il corpo e l’identità femminile, per le relazioni generate con e nel luogo e per il suo genius loci. Un’operazione sicuramente rischiosa ma altrettanto riuscita nel suo essere stata affrontata con una lettura altamente critica e scientificamente dettagliata, rilevante per l’estendere la nostra ottica su innovativi inserti tematici per la nostra cultura e per il nostro contemporaneo. L’immagine scelta, per rappresentare l’esposizione, è l’immagine della nota filosofa e matematica greca Ipàzia di Veronica Leffe, i cui disegni riproducono donne che hanno lasciato un’impronta fondamentale per il loro apporto in differenti ambiti del sapere, ognuna con la sua storia e impronta, proprio come le artiste che condividono, con i visitatori o, possiamo affermarlo, “abitanti temporanei” del borgo per la possibilità di addentrarsi nel tessuto cittadino così sentitamente, l’apice di un’interiorità intima sentita, vissuta e manifestata, oltreché la richiesta di una libertà di pensiero e indipendenza della condizione delle donne. I ritratti delle donne, stampati e affissi sulle porte e finestre delle case, secondo un modo dilatato, ci accompagnano dall’inizio fino alla conclusione del tragitto.
Inoltrandoci nella prima parte, Palazzo Maccafani, palazzo baronale che si estende su tutta la piazza omonima, rintracciamo immediatamente un aspetto più politico sia per gli interventi, sia per le artiste chiamate a esporre, rispetto al secondo emisfero che si svolge in esterna con l’arte pubblica. La prima opera presentata, e che introduce l’intera collettiva, è Mater (1977, restaurata nel 2015) di Tomaso Binga, all’anagrafe Bianca Pucciarelli Menna. L’artista, negli anni ’70, decide di cambiare il proprio nome in Tomaso, assumendo “un’identità maschile” che – dichiara l’artista – voleva essere una provocazione, un modo ironico e paradossale per denunciare i privilegi di cui gli uomini godevano anche nel contesto artistico, in risposta all’egemonia maschile nei differenti campi. L’uso del corpo si traduce in segno e in scrittura desemantizzata su fotografia, cardini dell’artista gender free ante litteram. Il suo corpo è, infatti, spoglio e prestato per l’obiettivo dell’amica e fotografa Verita Monselles, nell’atto di mimare le lettere dell’alfabeto in quattordici elementi. Non una modella ma una donna espone le sue fragilità alla lettura indiscreta del prossimo. Simbolo di germinazione, il suo nucleo centrale in alto si espande in tutte le sue derive. Ogni stanza diventa un’epifania nell’itinerario della mostra. La Stanza degli affreschi del 1700, probabilmente in origine era la camera da letto, sia per le sue travi a vista che invadono il soffitto, sia per essere l’unica sala decorata con affreschi, accoglie opere site-specific. In tale ambiente è stato intessuto uno scambio intergenerazionale tra Maria Lai e la giovane Beatrice Celli, per mezzo di un riconoscimento analogico con la performance degli anni ’70 di Maria Lai, in cui l’artista dà 27 km di filo, da legare a porte e finestre, a tutti gli abitanti del paese, collegando tutto il borgo. Senza titolo (Pagina-oggetto) è un libro cucito (1978) su fotocopia, lavoro che l’artista ha riprodotto, in maniera sempre nuova, nel corso della sua esistenza. L’elemento che unisce è proprio il filo.
Rosso Animamanzia, (2023) è un neologismo aplologico dell’artista abruzzese Beatrice Celli che racconta le somatizzazioni di quanto vissuto negli anni, ed è il primo esemplare della serie “Animamanzia”. L’artista indaga quella misteriosa e celata fonte di respiro volitivo che possiede il nostro corpo e in grado di delinearsi nell’inaspettato. Il nodo infausto si scioglie in fili di materia sanguigna che danzano e si annodano in una matassa scultorea, fino a essere focalizzati e proiettati, da un loro primo stadio inconscio e conflittuale, a un’evidenza che si converte in accettazione e nuova rigenerazione psico-mentale e fisica. Il nodo in velluto, collocato dinanzi alla finestra che apre su un affaccio vertiginoso tanto quanto la sensazione provata in un primo momento, e trasmutato poi in elemento liberativo e sciamanico-totemico, è installato su una “colonna” portante o puntello di un’architettura di Castelli, deterioratasi durante il terremoto. Il lavoro si arricchisce di materiali come i nastri, il filo, il legno e la paprika. L’opera Sorella Carovana (2020), come afferma nel testo Giorgia Basili, è …affiorata prima a livello onirico: l’artista ha sognato una carriola – simbolo dell’attività sedentaria – che si trasformava in una carovana, allusione al nomadismo di tutte le epoche ed etnie, come quella dei sinti. La carovana è rivestita da un tessuto nero sulla cui superficie sono cucite figure derivate da una mitologia personale, ogni giorno infatti la pratica del disegno porta alla mente di Celli geni, mostri e spiriti. Gli inserti sono doni ricevuti ed elementi carichi di significati – rosari, peperoncini, piante – o della forza impressa dallo sguardo dell’Altro… . Nel mezzanino, Ruth Beraha ci ipnotizza con la sua opera I see you (2021). Due cuffie scendono all’altezza del visitatore inginocchiato, dinanzi a una parete bianca, come una lavagna, in cui è difficile poter trascrivere quei pensieri che, tramite la voce dell’artista, si susseguono spontaneamente in chi si lascia trasportare da quella condizione di ascolto e assorbimento in un volteggiare poetico di periodi estremamente toccanti. La posizione scomoda ci indica un disagio intrinseco che l’elemento del cuscino e la pacatezza del tono rompono per indicarci una volontà di estromissione da terre non feraci. Anche l’opera Expertise. Conferma d’identità (1972) di Cloti Ricciardi condivide la medesima collocazione ed è allestita su parete. Partendo dal suo impegno verso il Femminismo, procede verso un’analisi approfondita della propria identità, rielaborando parole e concetti. Il suo è un atto di nascita con timbri femministi prodotti dall’artista stessa, per esplicitare liberamente l’orgoglio di appartenere al sesso femminile. Scendendo nell’antro del palazzo, al centro della grande sala della cisterna in terra battuta, fiorisce l’opera Boite à outils (2023) di Sonia Andresano. La toeletta anni ’30 in legno è elemento che permette un’istantanea immedesimazione nella dimensione del femminile e delle sue ombre, fisicamente espresse dall’artista attraverso un ricercato impiego della luce nel silente spazio evocativo. L’armonia di una calda aere è spezzata da un dissonante suono ininterrotto di un trapano ricoperto d’oro, proveniente dal cassetto in vetro, materiale freddo come quel grido che non arriva ma trasparente come l’animo di una donna, di cui l’artista si fa portavoce attraverso la proiezione della sua figura in abito da sera scuro setato, e che vuole comunicare sé stessa, la sua storia, il suo corpo in un presente, in cui la sua condizione appare muta, al punto tale che quel suono, pur essendo così vicino all’orecchio e nel palmo di una mano, scompare nella monotonia delle giornate. Il gesto di forare quel contenitore con forza è paragonabile alla prova continua che la donna attua nella società per smascherare un’immagine che non cammina più con la nostra attualità. Risalendo, sul piano dell’ingresso, le opere Nella mia grazia buia, Quando la bambina piange e Rifugiata, vinta, indesiderabile (2020), stampe viniliche su scialle di Maria Adele Del Vecchio chiudono, idealmente, il cerchio all’interno del palazzo. Indumenti protettivi e appartenuti alla madre ma anche utili alle donne come accessori per adornarsi, appesi a muro, perdono la loro funzione primaria e mostrano la parola scritta come rimembranza di memorie intime. Le frasi sono talvolta scritte dall’artista, talvolta tratte da libri. La lettura di questi brevi incisi scalfisce nel profondo l’osservatore che ne rimane catalizzato e scosso nella propria coscienza. A contribuire in maniera più aderente agli ingranaggi esplicativi della località sono le opere di Satya Forte, Sara Dias e Francesca Chiola, artiste che condividono il percorso dell’Accademia di Belle Arti dell’Aquila.
Forti e consapevoli di come poter tracciare quel nesso con la terra che hanno vissuto, insieme a Anouk Chambaz e Giulia Mangoni, hanno lavorato alle opere esposte durante la residenza artistica, svoltasi nella stessa Pereto. Francesca Chiola nell’opera Dopo tanto è stato scritto (2023), riporta il suo fascino verso la visione di uno scorcio di paesaggio del borgo, tramite un’apertura triangolare in una sovrapposizione di tettoie. Come scrive nel testo Silvano Manganaro …La forza di questa inaspettata inquadratura dei monti che circondano la Piana del Cavaliere ha portato Francesca a voler condividere l’unicità di quella epifania e a proporre una riflessione sullo sguardo e sulla possibilità di condivisione…cercando di replicare in maniera artigianale e performativa quella cornice (i dispositivi vengono installati il giorno dell’inaugurazione), vuole regalare un nuovo sguardo al pubblico e un nuovo senso a quei monti che fungono da diaframma tra il Lazio e l’Abruzzo… . Sara Dias, in Nel mentre avanzo (2023) recupera il concetto espresso da una novella di Luigi Pirandello e che si intitola Il chiodo, in cui l’autore scrive: “Quel chiodo era lì, in mezzo alla strada deserta, e vi spiccava in tal maniera che irresistibilmente attirava a sé non pur lo sguardo ma anche la mano di chi si fosse trovato a passare, forzato a chinarsi per raccattarlo, anche senza sapere che farsene, anche per ributtarlo sulla strada poco dopo”. Così racconta Silvano Manganaro nel testo per l’artista. Con una prassi similare, la nostra individua dei chiodi conficcati nei muri e nelle porte del borgo abruzzese con l’intenzionalità di conferirgli nuova vita, funzione e un nuovo senso. Se per Pirandello il chiodo è punto di riflessione sul libero arbitrio, per la nostra è simbolo di un binomio ossimorico distruttivo-costruttivo, pericoloso ma fondamentale per un’abitazione. Prelevando otto chiodi e riposizionandoli a coppia in quattro punti differenti del borgo, segna la distanza con uno spago lungo in totale un metro: ognuno ha il suo metro – chiarisce l’artista. Giulia Mangoni in Arrivano le pecore (tramonto a Pereto), opera del 2023, prosegue quell’analisi sulle tematiche afferenti ai luoghi e alle tradizioni, usi e costumi che li connotano. A Pereto, l’artista ascolta la storia di Ermanno che ha iniziato a lavorare come pastore in età adulta. Ha dipinto poi la sua giornata, osservata personalmente, sulle mura di una casa diroccata, in un quadro di grandi dimensioni con gli animali suggeriti dagli abitanti, in cui ci si sente immersi.
Procedendo in via di Castello, poco prima di Piazza San Giorgio, si svela l’opera Ipotesi per sette teste (2023) di Lulù Nuti. Tre sculture in ferro forgiato, distanziate tra loro, sono unitamente collegate tra loro da una ricerca condotta sull’iconografia del drago e che nell’Apocalisse è paragonato a un segno dal cielo con sette teste e dieci corna. Il materiale, con le sue caratteristiche plastiche, assume delle forme narrative. Come afferma Giuliana Benassi nel suo testo …Seppur ben distinte tra loro, le tre sculture sono tutte caratterizzate da due terminazioni diverse, l’una appuntita come lancia, spada o coltello e l’altra lavorata come se fosse un motivo animale o mitologico. Nella loro eterogeneità anticipano, senza svelare, l’incontro con l’opera “Egli danza”, prima posizione, collocata all’interno del magazzino di Palazzo Iannucci. Questa seconda opera (2023) intercetta il motivo iconografico locale dello stendardo della Chiesa di San Giorgio con il Santo raffigurato a cavallo poco prima di attaccare e sconfiggere il drago. Dal testo di Giuliana Benassi si evince che …con una linea sinuosa unisce la figura di San Giorgio e il drago in un continuum, fino a generare la visione di un’unica e indissolubile entità. … Il processo della forgia comprende la “lotta” con la materia, un corpo a corpo che trova il suo equilibrio nell’opera… . Il corpo della scultura sembra non avere peso e fluttuare come un corpo “danzante”. La freccia muta nel drago sconfitto da San Giorgio. La lotta tra il “bene” e il “male” trova un equilibrio sempiterno. Facendo ingresso a Palazzo Iannucci, anche ricordato come la “Casa del Prete”, il tempo sembra essersi arrestato, essendo gli interni un fermo immagine con i quadri, con le fotografie e con gli arredi così come erano stati sistemati originariamente. Negli anni ’30, l’edificio era la sede della caserma dei carabinieri e, all’ingresso di una piccola sala, in cui dimora la videoinstallazione del 2023, Etudes (à Pereto) di Anouk Chambaz, è infatti ancora visibile la scritta “camera di sicurezza per gli uomini”. È un video muto della durata di dieci minuti, ideato durante la permanenza di quattro giornate, e la cui direzione della fotografia è di Saskia Scorselo, in collaborazione con Giulia Mangoni. L’artista ha coinvolto gli abitanti del borgo, apponendo sul loro volto un disegno diverso e scelto in base al paese di appartenenza di ognuno di loro. Ne deriva una ricerca antropologica sull’uomo, sul suo sguardo, sul trascorso e sul presente della sua storia personale. Una forte introiezione è alla base di un’empatia che nasce, osservando le persone che si intervallano sullo schermo.
Al primo piano, nella cucina, vi sono quattro opere di Elisa Montessori pensate in relazione alla manifestazione. Tutti i giorni (2023) è il libro d’artista, posto sul tavolo e in cui, sfogliando le pagine poderosamente immaginifiche, traspare il forte immaginario che pone le sue radici in una realtà tanto socialmente impegnata, quanto liricamente densa di un simbolismo sognante, in cui natura, uomo, mito e immagini surreali si fondono in una narrazione, in cui ogni pagina ricorda un momento che espande quello precedente nell’enucleazione di un pensiero che si districa nella mente dell’artista giorno dopo giorno. Nelle tre opere Il bosco di Dafne, Dafne1 e Dafne2 (2023), realizzate con tecnica mista, l’artista si immerge in alcune visioni di grande raffinatezza, in cui il femminile è il soggetto, la chiave che apre la storia, e la cui trama, da un finale pregno di un rimando avverso muta in sentinella propizia per l’avvenire. Il tema di Dafne entra a far parte del lavoro dell’artista alla fine degli anni ’50 per trovare una perfetta espressione, in occasione di Ultramoderne. Nella Sala di Lettura, troviamo Play House #1, Play House #3 e Play House #4 (2018) di Rä di Martino. Le opere sono collages di fotografie e stampa ai sali d’argento. L’artista, riprendendo, nelle fotografie d’archivio, le donne pioniere americane davanti all’ingresso delle loro fattorie e la serie degli alberi volanti, manipola le immagini e apporta, al loro interno, ritagli frammentari. Il risultato finale è nuovamente fotografato dalla nostra come falso negativo. Stampate in camera oscura, le opere in mostra con i “negativi-collage” modificano la convinzione che, come afferma Peter Benson Miller nel suo testo, …l’archivio abbia una veridicità assoluta o predominante. Nella Stanza Azzurra figura l’installazione del 2021, Pagine progressive (bandierine/paginette) di Eva Marisaldi. Piccole bandierine colorate di tessuto sono sospese dal soffitto della sala e sono decorate con motivi infantili e ricchi di riferimenti al teatro, al cinema e alla letteratura e alle esperienze di vita dell’artista. Come afferma Carla Subrizi in Non volendo aggiungere altre cose al mondo: …Non ci sono scorciatoie, l’esplorazione di questioni che prendono corpo attorno all’identità, mai intesa come fattore autonomo ma sempre in relazione all’altro nell’incontro, non offre che delle ipotesi provvisorie ma di fatto la soggettività che si gioca nella relazione è la forma di verità più alta che ci è dato sperimentare… . Gli intrecci dei vari assi con le bandierine esprimono i punti d’incontro nella società odierna, in cui ritornare all’essenza è un atto che aiuta ad avvicinarsi. Le opere Notte Senza Luna (2023), Specchionero, Specchionero e Viaggiare (2022) di Maddalena Tesser sono esposte nella Stanza finale. La pittura dell’artista sembra riportarci improvvisamente a contatto con la nostra zona più interna, con un tempo lento e meticolosamente vicino a quel buio in contatto con ciò che in noi è fecondo. È uno scavo nella nostra materia spirituale, meditativa che guarda all’azione del preservare un respiro di equilibrio. Nel pigmento pastoso e flessuoso, le figure androgine sono immerse in un’oscurità da cui non lasciano travolgersi, e in cui i dettagli sono un altro elemento indicativo della ricerca del sé.
Nell’ultimo piano è allestita l’installazione site-specific Se non il vento (2023) di Satya Forte. Tramite il cavo d’acciaio e la carrucola, possiamo osservare le due ampolle che contengono la polvere che l’artista ha raccolto, durante la sua residenza a Pereto. Maurizio Coccia nel suo testo chiarisce che la ricerca della nostra si focalizza su tre questioni ricorrenti: la natura dei materiali, le loro tensioni – fisiche e culturali – in rapporto al contesto, la caducità delle cose terrene. Se in un primo ambiente è stato affisso a parete un fiammifero antivento con, ai suoi lati, due brevi manoscritti, il cui contenuto si riferisce alla polvere e al vento, nel secondo i due contenitori in vetro focalizzano la nostra attenzione sulle differenze fisiche e cromatiche delle due tipologie di polvere, una più pesante depositatasi sul pavimento e l’altra più leggera, sugli oggetti e, conseguentemente, sul tempo e sulla storia del luogo.
CONTEMPORARY CLUSTER – NIENTE DI ANTICO SOTTO IL SOLE, E LA MOSTRA DEL CONTEMPORANEA PRIZE 2023 (29 luglio – 10 settembre 2023)
…E là da Tagliacozzo/, dove senz’armi vinse il vecchio Alardo.
(Dante Alighieri, XXVIII canto dell’Inferno)
Legato per la sua storia e per la sua geografia a Pereto, è il comune di Tagliacozzo. Nella città, il cui nome significa “taglio nella roccia” (dal latino talus cotium), situata nella parte occidentale della Marsica, e limitrofa, come Pereto, ai confini che separano l’Abruzzo dal Lazio, sulle pendici del monte Civita, si leva il suo storico Palazzo Ducale Orsini-Colonna, già edificato nel cuore del centro storico cittadino, nella prima metà del XIV secolo, come emerge dal documento di Orso Orsini. Dalla seconda metà del 1400, i Colonna, conti di Tagliacozzo e di diverse zone della Marsica, cancellarono molti elementi decorativi che ricordavano gli spodestati Orsini, e apposero nuovi stemmi e motti di famiglia. Rimase in suo possesso fino alla prima metà del XX secolo, quando i Barberini-Corsini divennero i nuovi proprietari. Infine, passò sotto la tutela dell’ente Regione Abruzzo. Tra i gioielli al suo interno, vi è la Cappella Palatina.
È durante la X edizione della rassegna d’arte “CONTEMPORANEA VENTIVENTITRE”, ideata da Emanuele Moretti che ne cura anche la direzione artistica e svoltasi con il patrocinio del MIBACT, la promozione di Associazione Culturale ARTEiX e del Comune della città di Tagliacozzo, e il supporto di Regione Abruzzo, Fondazione Carispaq e BCC di Roma che il Palazzo apre le sue porte e i suoi ambienti storici ai visitatori.
Quest’anno la manifestazione ha accolto la mostra collettiva Niente di antico sotto il sole, a cura del Contemporary Cluster, e con il testo di Vasco Forconi. Sono due i piani, in cui è stato ideato l’allestimento che attraversa le stanze del palazzo. Il primo piano che presenta elementi decorativi del tardo gotico, espone le opere di Dario Carratta, Alessandro Giannì, Marco Emmanuele, Andrea Polichetti, Fabio Giorgio Alberti e Federica Fumarola. Al secondo piano, di costruzione postuma e di stile rinascimentale, sono presentate le opere di Marco Emmanuele, di Genuardi/Ruta e di Andrea Polichetti.
Inoltre, il premio di Contemporanea Prize, sempre ideato da Emanuele Moretti, ha portato il centro urbano all’attenzione della nuova generazione di artisti, di critici e di professionisti dell’arte contemporanea. Le opere degli artisti selezionati sono state esposte nelle Scuderie del Palazzo signorile.
Niente di antico sotto il sole – Contemporary Cluster
Già Maurice Merleau-Ponty nella Fenomenologia della percezione parla dei pregiudizi classici della nostra esperienza sensoriale, delle qualità della nostra esperienza effettiva, ricoperte da tutto un sapere… . La pretesa evidenza del sentire non è fondata su una testimonianza della coscienza, ma sul pregiudizio del mondo. …Per costruire la percezione ricorriamo al percepito. E poiché evidentemente il percepito stesso è accessibile solo attraverso la percezione, in definitiva non comprendiamo né l’una né l’altra.
In La dicha (La felicità) di Jorge Luis Borges si possono rintracciare alcuni versi che recuperano un approccio alla visione e al pensiero genuini:
He visto una cosa blanca en el cielo. Me dicen que es la luna, pero/ qué puedo hacer con una palabra y con una mitología./…Los libros de la biblioteca no tienen letras. Cuando los abro surgen./…El que prende un fósforo en el oscuro está inventando el fuego./En el espejo hay otro que acecha./…Nada hay tan antiguo bajo el sol./Todo sucede por primera vez, pero de un modo eterno./El que lee mis palabras está inventándolas. (Ho visto una cosa bianca in cielo. Mi dicono che è la luna, ma/Che posso fare con una parola e con una mitologia?/…I libri della biblioteca sono senza lettere. Se li apro appaiono./…Chi accende un fiammifero al buio sta inventando il fuoco./Nello specchio c’è un altro che spia.…/Non c’è nulla di antico sotto il sole./…Tutto accade per la prima volta, ma in un modo eterno./Chi legge le mie parole sta inventandole).
Nel senso di scoperta, di interrogazione e di ricerca di una poesia così liricamente destrutturante, è sicuramente il verso Niente di antico sotto il sole ad esprimere al meglio quella ricerca che Luigi Ghirri ha posto in chiave di scrittura, accompagnando, dai primi albori, la sua pratica fotografica, tanto da intitolare i suoi “Scritti e interviste” proprio con il verso del poeta. Ghirri ha avuto la deduzione e profonda sapienza di interrogarsi continuamente sul dato oggettivo che la fotografia poteva fissare. Ci ha sempre regalato la possibilità di afferrare un altrove, quel che davanti, dietro e nel mezzo della nebbia poteva incastrarsi, avvenire e celarsi in tutte le nostre dimensioni afferenti all’interno e all’esterno, al vicino e al circostante, al visibile e all’invisibile. In ogni pagina dei suoi scritti si disvela un radicamento intimo alla materia di cui si occupa. Lo stesso Francesco Zanot, nella sua introduzione al testo, racconta di Ghirri, come Nei suoi testi e nelle interviste che concede Ghirri non puntualizza né chiarisce, non stringe ma punta a dilatare la conoscenza propria e dei suoi lettori intorno a uno specifico argomento. Scrive con lo stesso scopo con cui fotografa: fare ricerca. «Bisogna però passare dalla fotografia di ricerca alla ricerca della fotografia. Ricercare una fotografia che indichi non solo nuovi metodi per vedere, nuovi alfabeti visivi, ma soprattutto una fotografia che abbia come presupposto uno stato di necessità». Anche sotto l’aspetto strutturale i testi di Ghirri riflettono le sue fotografie: sono frammenti, composti al proprio interno da altri frammenti. Sono pezzi di un puzzle che dà sempre l’impressione di essere troppo vasto per potersi completare ma non c’è frustrazione, perché l’obiettivo non è giungere a una conclusione, bensì esplorare le regole del gioco.
Così Vasco Forconi legge il binomio tra l’inaspettato che si può cogliere da un luogo, in cui la storia riaffiora tramite la nostra scoperta graduale degli ambienti interni al palazzo e delle sovrapposizioni di stili architettonici che lo caratterizzano come rilevanza da valorizzare, e il dialogo tra le opere degli artisti che lascia, al visitatore, lo scoprimento necessario per poter interrogarsi sull’hic et nunc, senza pregiudizi. Scrive nel testo della mostra, su Ghirri: La sua non è una proposizione distruttiva nei confronti di una certa tradizione dell’arte, ma una sorta di mantra, una postura dello sguardo e del pensiero che si presenta oggi come un insegnamento per noi ancora significativo. E prosegue nel nesso emerso spontaneamente dalle opere: Questa stessa postura dello sguardo e del pensiero, votata a un’innocenza spregiudicata, quale veicolo di indagine del mondo e dei molteplici modelli di realtà che abitano il nostro tempo, sembra raccogliere e amplificare le numerose istanze discorsive e formali proposte dagli artisti che con le loro opere popolano le sale del Palazzo Ducale. È con un forte approccio critico sullo sguardo e sulla percezione che si deve entrare a toccare quel germe che si lascia attraversare nel principio del pensiero creativo dei lavori, in cui talvolta gli stessi titoli, talvolta il carattere formale-estetico sono sintesi meridiana. Dario Carratta apre il percorso con Cenere e carne. È, tuttavia, dal suo Feconda lussuria che vorrei partire con il racconto immaginativo, da quella raccolta dell’acqua, fonte basale e tratta dalle profondità viscerali di un terreno, da cui – in Cenere e carne – gli stessi rami possenti di un albero crescono, si avviluppano e sono cinti in un abbraccio che è gesto umano, nel ripristino di quel prima e di quel dipoi dell’esistenza. Una lussuria che si addensa nel mentre di quel fiato in cui un senso misterico avvolge i corpi. La loro fisicità trova espressione unica nel modo che l’artista ha di trattare un’interiorità che si esplica, con il mezzo pittorico, in un plasticismo padrone espressivo di quel suo essere modulato in quella carezza che il sogno conferisce alla realtà in un abbacinamento dimensionale. Concreto tematicamente è il proseguo con l’opera di Alessandro Giannì che porta in luce quell’affastellarsi di corpi, il loro apparire, protendersi e abbandonarsi al tempo. Così “Vasari”, l’intelligenza artificiale da lui progettata nel 2019, per riprodurre il suo linguaggio pittorico, apporta valore a quell’importante interrogativo nella nostra contemporaneità su quanto finora deliberato sulla manifestazione delle immagini. Il nome attribuito all’IA non è affatto casuale, essendo stato Giorgio Vasari, noto come primo storico dell’arte moderna per aver tracciato, con le sue Vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architetti, il quadro storico-artistico e culturale dell’epoca.
Ed è a questo punto che capiamo bene il sorgere dell’opera Alla testa dell’acqua di Marco Emmanuele che regala un’immersione limpida e, sincronicamente giocosa, di una purezza d’origine sia per il soggetto sia per la materia impiegata e il suo essere un tutt’uno con quella naturale cromia appartenente unicamente al suo operato. Innocenza però che, se scrutata attentamente, è tradita proprio da quel sapiente taglio giocondo che sposta quel volto virgulto del palazzo verso una positura compromessa da un attraversamento del presente. La stessa intrusione la troviamo poco più avanti con Uno spazio compreso tra lo zero e l’uomo. Uno spacco che rompe quell’andamento lineare per introdursi in piccole vedute collaterali e in ISO#142, ove la tavolozza poeticamente armoniosa di toni sinceri si nutre della sua aggregazione con una sottile renella vitrea. Nella sala adiacente il visitatore trova stagliata, dinanzi a sé, la scultura di Andrea Polichetti. Una figura, con forme antropomorfe, è percepibile dai suoi contorni in ferro battuto. I tratti sinuosi ed essenziali entrano nel gioco dell’artista che ricerca un soggetto dal profilo liberatorio e sintetico, in cui il vuoto che lo attraversa è sintomatico di quel pieno svuotato e riadattato all’interrogativo dell’altro. Il tratto essenziale che si fa raffinato è partecipativo della sua tela in iuta, opera che richiede un’analisi figurale che rimanda al suo momento generativo, oltreché presente. Fondamentale, infatti, è l’operazione creativa, in cui l’uso di mezzi quotidiani, come i detriti del suo stesso studio, producono ciò che fluttua come istanza espressiva sulla tela grezza. Nella terza stanza, sempre limitrofa alle prime due, ci accoglie l’ipnotico Paesaggio relazionale 1 che vede, nella parete opposta e in pendant, Paesaggio relazionale 2, entrambe opere di Federika Fumarola.
L’artista è tra i pochi nuovi rappresentanti italiani del genere che espone. La rarità del suo lavoro ci catalizza in un mondo in cui un astratto cadenzato si completa di una forma flessuosa che attraversa la tela dall’alto verso il basso e dal basso verso l’alto in un movimento che si replica oltre il confine visivo del lavoro. Il telaio è, dunque, solo una finestra verso un oltre non solo spaziale ma anche interiore che, come un sismografo, ferma il centro nevralgico di quel sentire – che si sviluppa durante il suo fare creativo – in un determinato concentrarsi del colore e della forma, all’interno della trama pittorica. In tale contatto di relazione si situa anche l’opera When my eyes are in your eyes I see my eyes look at your eyes di Fabio Giorgio Alberti. La rottura dello specchio vuole indicarci proprio la capacità di rompere le sovrastrutture che non ci consentono di immergerci nell’altro da noi, in quella possibilità di assorbire pratiche e dinamiche in grado di spostarci da noi stessi per assimilare nuovi modi di vedere per poi ritornare in noi, mutati e potenziati di una parte che, in altro modo, avremo perso per sempre. La rottura in quel centro determinante si posiziona anche nell’oggetto in cui ci “sediamo”. Nell’opera Sedia, il concreto appoggio stabile, perde la sua funzione. Il pensiero di una perdita di stabilità e di sedentarietà ci esorta alla medesima azione dello specchio. Il duo Genuardi/Ruta nel suo intervento ambientale Nell’ora colma della fumosa estate ci riporta a delle cromie futuriste ma anche frutto della fascinazione di alcuni luoghi che le contengono, Pompei e il suo rosso che permea le abitazioni tuttora visitabili e il Marocco con il blu intenso che lo identifica. Il giallo che è punto d’incontro è anche ricordo di una luce che avvolge l’intero lavoro. L’aggiunta del bianco e del nero conclude quella significazione semantica alla base di un dialogo tra l’invasione delle grandi campiture cromatiche e l’architettura del Palazzo. Un paesaggio site-specific che, per la sua valenza oltre-confine, reintroduce il visitatore al fulcro concettuale dell’intero progetto espositivo.
CONTEMPORANEA prize – x edizione CONTEMPORANEA
È durante la X edizione che nasce il “CONTEMPORANEA Prize”, pensato ed ideato dalla collaborazione tra il Comune di Tagliacozzo, il Direttore Artistico Emanuele Moretti e la curatrice Arianna Sera.
La rassegna si è svolta all’interno delle Scuderie del Palazzo Ducale Orsini-Colonna ed ha visto le opere dei ventinove artisti finalisti, selezionati dalla giuria composta da Cesare Biasini Selvaggi – Direttore Editoriale Exibart; Emanuele Moretti – Direttore Artistico Contemporanea; Giacomo Guidi – HD Contemporary Cluster; Maria Vittoria Pinotti – Storica dell’arte e critica indipendente; Alberto Di Fabio – Artista; Arianna Sera – Curatore; Davide Silvioli – Curatore; Elisa Selli – Artista; Rosaria Madeo – Storica dell’arte; Serena Santoni – Curatore; Vincenzo Giovagnorio – Sindaco del Comune di Tagliacozzo; Chiara Nanni – Assessore con Deleghe a Cultura e Turismo; Jacopo Sipari – Direttore Artistico FIME.
Gli artisti finalisti: Alessandra Chicarella, Alessandro D’Aquila, Alexandra Fongaro, Amedeo Longo, Anica Huck, Antonio Agresti, Beppe Gueli, Delfina Giannattasio, Eliseo Sonnino Di Laudadio, Emanuele Nuccilli, Fabio Mariani, Federica Zianni, Filippo Saccà, Gabriele Biondi, Gianluigi Antonelli, Giuglielmo Mattei, Giulia Spernazza, Jonathan Antonelli, Margherita Ferro, Matteo Gobbo, Maura Prosperi, Prisca Baccaille, Ricardo Aleodor Venturi, Riccardo D’Avola, Sabina Romanin, Sergio Saija, Stefano Baldinelli, Valentina Equizi e Virginia Lorenzetti.
PALAZZO VETOLI E ARTURO MARTINI A SCURCOLA MARSICANA
Sulla vallata che fu luogo, nel Medioevo, della battaglia di Tagliacozzo, si trova il comune di Scurcola Marsicana. È un comune ubicato alle falde del Monte San Nicola, elevato a città nel 2011. Domina la piana dei Campi Palentini che formavano un unico lago con il Fucino. Il suo toponimo di origine longobarda appare, per la prima volta nel 1150, come “Sculcule”, feudo di appartenente alla Famiglia Da Ponte. Al dominio normanno successivo appartiene invece la costruzione del suo castello, la Rocca Orsini-Colonna e, all’anno mille, quella di una delle più antiche chiese della Marsica, la pieve di Sant’Egidio. In questa cornice, nel cuore cittadino, si trova Palazzo Vetoli, edificato nel XVI secolo, con la sua scalinata attribuita ad Arturo Martini. Rimasto chiuso per diversi decenni, è recentemente possibile visitarlo, grazie a un cambio di proprietà. Per diversi anni, è stato in possesso prima della famiglia Simeoni e poi della nobile famiglia da cui prende il nome, i Vetoli. Tommaso Brogi sui Vetoli: Questa famiglia antichissima nella Marsica, e una delle più cospicue anche di quei tempi, è forse proveniente da quella che fu feudataria nel Reatino. A seguito del terremoto del 1915, l’allora Conte Vetoli decise di restaurarlo in stile Liberty, in voga in quel periodo.
La grande sala da ballo reca tre grandi finestre vetrate e affaccia sulla piazza principale di Scurcola. Incanta il soffitto affrescato con eleganti figure alate tra ghirlande di fiori e nuvole. In un’altra sezione di Palazzo Vetoli, che nel tempo è stato frazionato in diverse unità, e specificatamente in Corso Vittorio Emanuele III, n. 12, è Mario Iacomini – che da sempre si occupa di Osteria Futuro, all’interno di questa sezione – ad accogliermi per una visita agli ambienti. Partiamo dalla Sala dei cristalli, così chiamata per la presenza dei lampadari antichi in cristallo, e in cui sono presenti specchi contemporanei per procedere nel percorso e giungere alla nota scala, arricchita da grandi statue dall’aspetto maestoso, e attribuita ad Arturo Martini. Altra sala, aperta al pubblico è la “SuperPicalotto”. Prende il nome da un’opera del 2007, momento in cui Mario, con una serie di artisti, tramite una programmazione culturale, mostre ed eventi sulla contemporaneità, hanno introdotto il concetto di biodiversità all’interno dei processi estetico-espressivi. Il nome SuperPicalotto è, infatti, sulla base di questo pensiero, il nome del primo super eroe, nato in difesa della biodiversità nella storia. Il proposito è quello di aprire le porte di Palazzo Vetoli a nuovi eventi di arte contemporanea che possano richiamare la critica e i professionisti del settore per la rilevanza storico-artistica come uno dei più interessanti esempi di architettura e arte Liberty della Marsica.
Merita una visita, per la sua particolarità, anche il borgo medievale di Aielli che ha trovato nuova linfa per le opere di arte urbana e per i murales di carattere internazionale, realizzati tra i vicoli e sulle facciate delle abitazioni del centro storico.