Carlo Corona (Palermo, 1997) ha studiato presso l’Accademia di Belle Arti di Palermo, formandosi attraverso la frequentazione dell’Osservatorio Arti Visive, nato in seno all’Accademia e fondato nel 2008 da Daniela Bigi, Gianna Di Piazza e Toni Romanelli. Lo intervistiamo in quanto membro dello spazio no profit L’Ascensore e conoscitore della scena indipendente della città.
Chi è Carlo Corona e cosa fa per Palermo?
Oggi, certe cose, se autentiche, se davvero esprimono lo spirito di una generazione, riescono a tradurre un movimento rappresentando cambiamenti epocali, fatti da poche persone. C’è da chiedersi cosa rimane oggi? E cosa va ricostruito nella consapevolezza dell’anestesia imperante? Oggi c’è tanto da fare, con coraggio, con cultura, con consapevolezza. Ho studiato Didattica dell’Arte al triennio e poi Didattica dell’Arte e Mediazione Culturale del Patrimonio Artistico al biennio presso l’Accademia di Palermo. Qui, i miei studi, seguiti prima da Daniela Bigi, sono confluiti nella scena artistica italiana attuale analizzata dall’angolazione degli spazi autogestiti e approfondendo le questioni che si avvicendano all’interno del dibattito artistico contemporaneo. Attualmente, nella ricerca che sto portando avanti, seguita da Giuseppe Buzzotta, ci si chiede se e in quale misura le ricerche attuali stanno guardando alle ricerche artistiche delle prime avanguardie e del secondo novecento, partendo dall’interrogativo “a cosa stanno guardando gli artisti oggi? quali sono le domande che si stanno ponendo?”.
Quando hai deciso di occuparti d’arte? Sei critico d’arte o curatore?
Nel corso della mia formazione ho avuto dei riferimenti che mi hanno fatto credere al pensiero per l’arte. Inconsapevolmente, è dalle scuole medie – ho frequentato un istituto d’arte – che c’era un microbo che s’insinuava in me. Da piccolo ho frequentato il teatro esercitando un’influenza molto importante, ed è qui che ho appreso la passione per l’arte che ho coltivato anche al liceo. Poi, quella passione è diventata il mio personale stare al mondo, proprio quando ho iniziato l’Accademia in cui la misura è inevitabilmente cambiata. È qui che ho scoperto il reale rapporto con l’arte e con l’artista, con il pensiero e con l’Opera. L’Accademia di Palermo è un laboratorio poetico e la metrica è diametralmente opposta all’università. Se sono critico d’arte o curatore? Non mi sono mai piaciute le definizioni, mi mettono a disagio perché, alla fine, sono labili, soprattutto in questo scenario mutevole in cui è più importante ricostruire, anche il valore della curiosità. Posso dirti che mi ritrovo nella figura del “compagno di strada”. Mi piace stare in dialogo con il lavoro di un artista, stargli a fianco, dargli la possibilità di mostrare il suo lavoro e al meglio. Mi interessa l’opera e la sua relazione con quanto di meno visibile, profondo, poetico. Nel “compagno di strada” vedo quella figura che scrive e per me la scrittura è ampiamente alimentata dal rapporto con l’artista. Mi piace scambiare un rapporto umano, con dovuta distanza causa (o grazie?) mie personali inclinazioni.
Quali sono tuoi modelli professionali?
È con la mia formazione attraverso la frequentazione dell’Osservatorio Arti Visive che la misura di prima è cambiata, influendo molto sul mio studio sotto un profilo storico e critico. Docenti come Daniela Bigi e Toni Romanelli sono dei modelli e dei riferimenti fondamentali che hanno influenzato in maniera pregnante il mio sguardo e approccio con l’opera d’arte. Mi hanno insegnato, essenzialmente, un metodo che vede nella conversazione con l’opera, nutrita dall’ascolto e dal dialogo con l’altro, una pratica per entrare dentro la materia dell’opera in forma scritta e intellettuale. E poi, non posso dimenticare alcune figure del Novecento che rimangono per me degli emblemi. Dalla letteratura alla storia dell’arte, dal teatro alla poesia…
Quanti collettivi di artisti ci sono a Palermo e quali sono i più attivi a livello internazionale?
C’è da capire cosa s’intende per collettivi di artisti. A Palermo, tra i più attivi, è soltanto La Siringe a essere unicamente fondato da artisti. L’Ascensore è stato fondato da un collezionista, mentre la direzione artistica è affidata a un duo artistico. Mentre Parentesi Tonde è uno spazio fondato da cinque artisti e una curatrice. Ma non è questo il punto.
Non è importante differenziare e soffermarci sulle definizioni, perché, di fatto, ce ne sono tantissime: spazi no profit, spazi indipendenti, artist-run space… È più importante guardare alla necessità e all’urgenza comune di questi progetti, nella facoltà di indagare le istanze e il perché della loro esistenza. Senza dimenticarsi della coltivazione del valore della ricerca, del lavoro degli artisti e delle figure che lavorano per un’idea collettiva. Il punto è comprendere chi sono gli artisti che fanno ricerca, comprendere quali sono le domande e in che modo possono essere un collegamento con la realtà della città in termini di indagine. Per cui, rispetto all’apertura internazionale, e parlando nella totalità della situazione, è L’Ascensore che ha un’apertura più internazionale nelle scelte espositive. Poi, certo, non bisogna dimenticare il lavoro degli altri spazi. Penso a La Siringe che ha recentemente ospitato una mostra di un giovane artista tedesco; penso anche ai ragazzi di Parentesi Tonde che hanno esposto un artista spagnolo.
Quali sono le differenze tra i diversi collettivi?
L’aspetto più evidente è la maturità e la qualità della riflessione nel lavoro dell’artista invitato, e poi la differenza è data anche da un taglio generazionale.
Dal 2020 fai parte del team L’Ascensore, chi seleziona artisti o progetti da esporre in questa galleria aperta ai talenti emergenti?
Ai Genuardi/Ruta – un duo artistico formatosi attraverso la frequentazione dell’Osservatorio – è affidata la direzione artistica.
Chi sponsorizza la vostra attività di ricerca e di promozione artistica? Come vi finanziate?
L’Ascensore sopravvive grazie al sostegno di Alberto Laganà – che è il fondatore – insieme a Danilo Signorino e Vito Bongiorno, dei mecenati e collezionisti e amanti dell’arte.
Quale sarà la prossima mostra de L’Ascensore?
Sarà una restituzione della residenza artistica condotta da Dorota Jurczak e Aki Ilomäki e in collaborazione con la Stamperia Nancy Granada (un luogo splendido che merita maggiore visibilità).
Quali sono gli artisti palermitani o siciliani più guizzanti secondo te?
Solo per citarne alcuni: se penso alla mia generazione, mi vengono in mente Francesca Baglieri e Roberto Orlando che hanno recentemente concluso un periodo di residenza al C.o.C.A. di Modica. Penso a Davide Mineo, Gabriele Massaro, Giusi Sferruggia, Laura Scalia, Vincenzo Ferlita, ma anche ai Genuardi/Ruta, Campostabile, Gianfranco Maranto, Giuseppe Buzzotta, Stefania Zocco, Carmelo Nicotra… Sono tante le energie che si muovono a Palermo.
Come descriveresti Palermo a un alieno?
Non ho mai pensato a uno scenario simile. Non saprei, ma li porterei invece alla Cappella Palatina.
Quali sono le principali difficoltà di un artista a Palermo?
Sicuramente la totale mancanza di un sistema e di un mercato artistico.
Tu hai vissuto il clima eccitante intorno a Manifesta 12 intitolata “Il Giardino Planetario. Coltivare la coesistenza”. La biennale Nomade Europea nel 2018, quale eredità ha lasciato secondo te?
A mio avviso è arrivato il momento di smetterla di continuare a fare leva sull’ipotetico lascito di Manifesta 12. La verità è che non ha lasciato proprio nulla, soltanto una marea di sporcizia. Il problema di Manifesta 12 è stata la mancata collaborazione con le iniziative attive e presenti nel territorio. E se c’è stata non è mai esistita una continuità.
I collettivi collaborando a stretto contatto con artisti palermitani o siciliani, in relazione al territorio, stanno smuovendo qualcosa a livello pubblico e istituzionale, oppure siete ancora monadi elitarie?
Le istituzioni sono come quei figli intelligenti che a scuola non si applicano!
Come immagini Palermo nel 2025, quando Agrigento sarà la capitale della cultura, sarete alleate nella condivisione di progetti di arte contemporanea o separate in casa?
Spero che le istituzioni si muovano a spingere e a promuovere uno scambio con le nuove generazioni, riconoscendo ufficialmente il valore degli spazi “off”. Spero ci possa essere anche una continuità in questo, che non sia solo un passaggio momentaneo.