Si infrangono come onde e come scogli si levigano con il passare del tempo. Non sono i ricordi ma le memorie di un desiderio d’amore. “Capri, prima ancora di essere un’isola, è l’Isola.”. Fui sicuramente giovane, ma specialmente fui mitologicamente spensierata. Qui, fra gli scogli di Marina Piccola, nell’isola di Capri, sulla piazzetta, accanto al caffè, incrociai anarchici, socialisti, poeti, futuristi e profeti. Quell’isola fu teatro di saluti e di tanti arrivederci. A Capri arrivò Ulisse per un inganno e senza inganno se ne ripartì. Forse non è vero. Forse nulla nel nostro passato è vero, forse i libri di storia sono tutti dei grandi romanzi, da rileggere nelle nostre camere da letto, alla luce di una lampadina led a basso consumo. A Capri non ci fu bisogno di illuminare, di tratteggiarne i contrasti. A Capri non ci fu bisogno di amare, perché l’estate è una stagione perennemente temporanea, lontana dal reale disincanto della vita quotidiana.
Caldo. Il caldo dovunque. Dolce aria fresca tra le insenature e fra le rovine di Villa Jovis. Si dice che l’imperatore Tiberio la fece costruire perché soffrisse di tubercolosi e tale soggiorno climatico, sul mare, potesse allontanarlo dal dolore. Ogni incontro fu cruciale perché in un’isola ciò che alla fine sempre incontri è sempre te stesso: una giostra di autoscontro con un solo gettone.
Nella calca delle personalità lo spazio privato di uno scoglio diventa un’avanguardia da difendere, contro il malessere del cosmopolitismo e delle correnti senza nome.
Mi chiamo Adriana e conobbi Enrico Prampolini a Capri. Lui uomo poco sopra i quarant’anni. Io poco più che ventenne. Io con un taccuino di viaggio, di febbrile gioventù, lui con un taccuino dalle gesta futuriste e dai colori cosmici. Si dice che un bacio all’ombra dei tre faraglioni di Capri (Stella, Faraglione di Mezzo e Faraglione di Fuori) porti fortuna. Nessuno può sapere che quell’anima di Polifemo, accecato dall’odio e di natura, li scaraventò contro Ulisse. Le leggende esistono per coloro che non sanno crearle di nuove. Nel presente. Era caldo a Capri ed Enrico mi riconobbe come un elemento restituito dall’immaginario, come una bagnante sotto il sole, come una natura morta, come una creatura che popola gli abissi marini, quanto un nudo femminile tanto un’incantevole architettura di un’isola azzurra.
Enrico scelse me, non scelse le sirene dei ricordi, le epiche donne che parlano senza ascoltare. Io giovanissima chedentro gli appunti, tra scritture sanscrite e inglesi, cercavo di comprendere quanto l’imprevedibilità del mondo potesse sorreggere il vento della mia gioventù. Ci pensò la tubercolosi ad asciugarmi come acqua al sole. Si manifestò con dolore. Torace, febbre, sudorazioni e perdita di peso e con il passare del tempo comparse sangue nel mio espettorato.
Caro Enrico, cosa rimane del nostro ultimo incontro, quanto ti venni a trovare nel tuo studio di Roma e ti dissi, con rimpianto, davanti al tuo quadro, ancora non finito, quanto invidiassi di quella donna, così sorretta dalla vitalità, così umana da renderla iconografica ai posteri?
Caro Enrico, adesso capisco cosa fosse il tuo amore. Adesso comprendi che il grande amore è un’arte mai compiuta. Ogni emozione deve essere un mittente che si maschera da destinatario. Capisco perfino l’amore della vita. Siamo lievi e fragili, come il vento e dunque pensami che come il vento. Pensatemi tutti, perché tutti voi siete parte di un granello di Prampolini. Che una fiamma d’oro possiate sorreggere, che il ricordo di ogni Adriana sia la forza che tiene in piedi la storia delle onde, la rovina delle macerie, l’odore dei pini in lontananza e le pelli arse delle guerre.
Caro Enrico, io fui Adriana per un ricordo d’isola. Sono Adriana per il vento che stimola.
Si consiglia la visione di
Rai Cultura: Prampolini, Adriana, Capri- Genesi di un ritratto: