Print Friendly and PDF

Serpenti in Cassazione: Jeff Koons e un caso di paternità non riconosciuta

Jeff Koons, The Serpents, 1988
Lo scorso 7 agosto 2023 la Corte di Cassazione si è pronunciata all’esito di un procedimento che ha coinvolto il noto artista nordamericano Jeff Koons. “Yet another Jeffrey legal issue!” si potrebbe esclamare. Sì, e no. È certamente vero che Koons ci ha abituato ad essere al centro di numerose vicende giudiziarie, corollario quasi obbligato della produzione di un appropriation artist – a maggior ragione, del più famoso artista vivente attivo in questo campo. Ma non di sole contestazioni di violazioni di copyright altrui è composto il track record delle questioni che Koons si è trovato a discutere di fronte all’autorità giudiziaria.

In questo caso, ad agire nei confronti dell’artista è stato uno (s)fortunato collezionista entrato in possesso di una edizione dell’opera The Serpents, scultura della serie Banality, risalente al 1988. La vicenda ha il sapore delle sciarade dei vecchi film anni ’50. L’acuto collezionista, infatti, acquista l’artwork da una società che, a sua volta, si era aggiudicata l’opera ad un’asta… di oggetti non reclamati, in giacenza da due anni presso la dogana di Milano. Fatto l’affare (della vita) il collezionista si rivolge, quindi, a Koons, per ottenere da quest’ultimo l’autentica dell’edizione della scultura. Che Koons si rifiuta a più riprese di rilasciare, di fatto impedendo al collezionista di collocare sul mercato i “serpentoni” di porcellana per un prezzo superiore a quello di un soprammobile non gradito, ricevuto in dono da un lontano parente.

Nel 2014 il collezionista è a un passo dal vendere l’edizione in suo possesso ad una galleria, che l’avrebbe acquistata per 1.6 milioni di euro. Affare non conclusosi sempre perché, a fronte della doverosa richiesta di conferma circa l’autenticità dell’opera – svolta in questo caso dalla galleria interessata all’acquisto – Koons e il suo entourage rispondevano negativamente.

Davanti all’ennesimo tentativo di vendita andato a vuoto, quindi, nel 2016 il collezionista decide di agire in via giudiziale nei confronti di Koons per ottenere che la scultura fosse dichiarata “edita e comunque (fosse) un autorizzato ed autentico artwork del signor Koons…dal medesimo firmato ed approvato”.

Come intuibile, la questione non avrebbe suscitato tutto questo scalpore se i giudici si fossero trovati a discutere “solo” di un caso di falso.

Jeff Koons accanto alla scultura “Play-Doh” in occasione della sua retrospettiva al Whitney Museum of American Art, AFP PHOTO / Timothy A. Clary via Getty Images

La risposta data da Koons alla galleria fu, infatti, la seguente: “Siamo a conoscenza di questo oggetto. Si tratta di un prototipo insoddisfacente che avrebbe dovuto essere distrutto e quindi non è un’opera autorizzata o autentica di K.J.”.
Koons, in sostanza, non ha negato di essere l’autore del manufatto in questione, ma si è rifiutato di riconoscerlo come opera d’arte finita.

Una dichiarazione, quella sopra, ritenuta comunque sufficiente da parte della Corte di Cassazione che, senza entrare nel merito di questa valutazione, nella sua decisione ha sottolineato come l’artista avesse, di fatto, riconosciuto la scultura come creazione propria, seppur qualificandola come prototipo.

Non solo. Come confermato dai fatti dedotti in primo e secondo grado di giudizio, era stato provato che Koons aveva esposto proprio l’edizione di The Serpents del nostro collezionista nel corso di una mostra svoltasi tempo addietro in Germania, a Colonia – seppur, precisava l’artista, vietandone la messa in vendita.

Proprio in ragione di tale divieto, Koons sosteneva che non vi fosse stato, da parte sua, l’esercizio del diritto riconosciuto in via esclusiva all’autore dall’art. 12 L.A., ovvero quello di pubblicazione dell’opera e di utilizzazione economica della stessa. Circostanza che avrebbe reso illegittima ogni ulteriore circolazione/sfruttamento dell’opera, inclusa quella per cui il collezionista si stava battendo in giudizio.

La Suprema Corte non ha accolto le argomentazioni dell’artista, ritenendo, anzi, che l’esposizione della scultura alla mostra tenutasi a Colonia, ovvero nel corso di un evento artistico aperto al pubblico e non riservato a pochi, consistesse nella modalità più tipica con cui generalmente un autore “‘presenta’ la sua opera al pubblico, la rende conoscibile alla collettività e al mondo artistico e, dunque, in ultima analisi, ne acquisisce la paternità artistica attraverso la sua ‘pubblicazione’, intervenuta all’esterno della sfera, cioè, della sua materiale realizzazione… La finalità di lucro nell’esposizione dell’opera in una mostra ovvero in una galleria commerciale, per la successiva auspicata vendita (e in ogni caso per il ritorno di immagine e l’effetto promozionale nei confronti di potenziali interessati collezionisti), anche a prescindere da qualsiasi effettiva cessione della singola opera, non è in alcun modo discutibile…”.

Miriam Loro Piana e Giada Berti, LCA Studio Legale – Team Arte

Commenta con Facebook