Ceramica, arte, cooperazione: è “Anemoni” (fino al 16 dicembre 2023), la mostra alla Fondazione Sabe per l’arte di Ravenna con opere di Renata Boero (1936), Valentina D’Accardi (1985) e Alessandro Roma (1977): partendo dai mosaici ravennati il percorso espositivo presenta tre approcci differenti alla ceramica contemporanea, attivando una riflessione sul fare arte, sul ruolo degli artisti e della comunità. Di tutto questo abbiamo parlato con Irene Biolchini, curatrice della mostra, nell’intervista qui sotto.
Il percorso espositivo si sonda negli spazi della Fondazione Sabe per l’arte ed è stato realizzato nell’ambito di Ravenna Mosaico – VIII Biennale di Mosaico Contemporaneo con il patrocinio del Comune di Ravenna e del Dipartimento di Beni Culturali dell’Università di Bologna e in collaborazione con l’Accademia di Belle Arti di Ravenna.
«Il progetto coinvolge tre artisti di generazioni diverse che, con differenti approcci creativi, riflettono sul rapporto tra natura, decorazione e frammento. Il titolo della mostra, Anemoni, richiama il tema della vegetazione che caratterizza i mosaici ravennati e in particolare i fiori simbolo di caducità e di fragilità. Le opere in mostra stabiliscono, a seconda dei casi, rapporti diretti e indiretti con la tradizione musiva sul piano materiale, tecnico e iconografico», hanno spiegato gli organizzatori.
«A Ravenna – hanno proseguito – gli anemoni sono raffigurati come una croce e alludono alla rinascita, reinterpretazione dell’uso farmacologico e cicatrizzante che ne facevano i latini. La mostra “Anemoni” è un percorso di rinascita, di cura dei traumi, di rapporto con le forze naturali come portatrici di distruzione e creazione. Renata Boero presenta Cromogramma, realizzato immergendo la tela in infusi di pigmenti naturali. Le molteplici piegature che danno vita all’opera generano una griglia, o una sequenza di tasselli di colore. La sua non è una rappresentazione della natura, ma la manifestazione del rituale magico-mitico che ha generato l’opera. Lo stesso rituale che viene celebrato in Abissi di Valentina D’Accardi dove, donando un corpo scultoreo all’immagine digitale, si ritorna ad un rapporto diretto con il mistero e l’insondabile (cercati nella vita di una sequenza di piante domestiche). A chiudere questa riflessione attorno alla potenza creatrice, distruttiva e salvifica della natura, si impongono le opere di Alessandro Roma, una successione di piatti in ceramica (unici manufatti salvatisi dall’alluvione di maggio scorso, galleggiando all’interno del laboratorio di Ceramiche Lega) in cui il soggetto perde i contorni del dato naturale per diventare presenza e salvezza».
Il contenuto della mostra sarà arricchito da eventi collaterali. In particolare il 10 novembre Marco Tonelli, docente di storia dell’arte contemporanea all’Accademia di Venezia, terrà una conferenza sulle evoluzioni della scultura a confronto con altri media, e il 14 dicembre Irene Biolchini, curatrice della mostra, poterà il pubblico alla scoperta della ceramica nell’arte contemporanea.
Silvia Conta: Come è nata la mostra “Anemoni” e come si inserisce negli eventi legati a Ravenna Mosaico – VIII Biennale di Mosaico Contemporaneo?
Irene Biolchini: «”Anemoni” è nata da una riflessione sulla rappresentazione dei fiori nei mosaici ravennati: i petali sono raffigurati come una croce e alludono alla rinascita, reinterpretazione dell’uso farmacologico e cicatrizzante che ne facevano i latini. Era per me importante ripartire da questa idea di cura, stabilendo una connessione quasi magico-rituale prima ancora che religiosa. Da questa linea è poi naturalmente scaturita la scelta degli artisti e il dialogo attorno alle opere più adatte. A maggio le opere di Alessandro Roma erano già terminate e custodite all’interno degli spazi di Ceramiche Lega. La bottega è stata travolta dall’acqua, ma le opere di Alessandro (così come moltissime ceramiche della bottega) hanno galleggiato e si sono salvate. Le abbiamo lavate insieme ad un gruppo di persone autenticamente generose ed altruiste: è come se la cura iniziale della bottega nei confronti del lavoro dell’artista avesse generato nuova cura e amore. Racconto queste cose perché non sono biografiche, ma rendono evidente che si può essere comunità e in questo l’arte e la creatività sono attivatori fondamentali.
L’inserimento della mostra all’interno della Biennale Mosaico è un modo per restituire questa idea di condivisione e di rispetto perché i valori dell’identità e della tradizione hanno senso solo nell’incontro con l’altro e non nella chiusura e nella difesa».
Come è avvenuta la collaborazione con l’Accademia di Belle Arti di Ravenna?
«La Fondazione Sabe ha stabilito un rapporto continuativo con l’Accademia di Belle Arti di Ravenna sin dalla sua apertura, con l’obiettivo di coinvolgere nelle sue attività docenti e studenti, offrendo a questi ultimi l’opportunità di fare esperienza nelle fasi di allestimento delle mostre, di dialogare direttamente con artisti e curatori e di vedere come lavorano. A ciò si aggiunge inoltre la possibilità di organizzare percorsi guidati che permettano agli studenti di fare pratica con la mediazione museale a contatto diretto con il pubblico».
Le opere in mostra, si legge nel comunicato stampa, «stabiliscono, a seconda dei casi, rapporti diretti e indiretti con la tradizione musiva sul piano materiale, tecnico e iconografico». In che termini, in particolare, si articola questo rapporto e che tipo di “rilettura” ne scaturisce?
«Oltre al riferimento iconografico già esplicitato, le relazioni si muovono su due piani, entrambi interni alla tradizione del mosaico. Per prima cosa c’è la convivenza di materiali profondamente diversi che convivono nei “tasselli” di questa mostra: è qualcosa che riparte dalla tecnica del mosaico, che da sempre integra marmi, sassi, frammenti di conchiglie e madreperla.
C’è poi un secondo livello, più legato alla cooperazione: ogni mosaico prevedeva la collaborazione di più figure che assieme lavoravano per il risultato finale: anche in questa mostra si racconta un senso di compartecipazione, sia da un punto di vista realizzativo che installativo. Ciascuno dei lavori entra nel campo visivo degli altri: pur difendendo le specificità c’è una volontà sottile di cancellare la vulgata dell’artista eroico e solitario. Quello a cui abbiamo tentato di tornare è un modo di sentire e praticare l’arte, partendo dalla tecnica e arrivando alla ricezione».
Come sono stati scelti gli artisti invitati a partecipare? E quali sono gli aspetti più interessanti dell’unione di questi tre approcci di differenti generazioni?
«I tre artisti in mostra sono tre persone con cui condivido, seppur in maniera differente, pezzi di vita e soprattutto un modo di intendere l’arte. Il loro incontro è avvenuto in terra romagnola grazie ad una serie di mostre che ho seguito negli anni per il MIC di Faenza. Quello che mi interessava era mostrare come percorsi più o meno storicizzati, e spesso con materiali differenti, raccontino una stessa urgenza e necessità. Per me l’arte è questo: il bisogno di sentirsi parte di un insieme combattendo l’alienazione, la chiusura, la deriva xenofobica. Questo ci ha forse permesso di realizzare una mostra in cui ognuno mantiene la propria tensione, come uno strumento ben accordato pronto a suonare con gli altri. O come un tassello di un mosaico pronto a raccontare una storia a chi vuole darsi il tempo di guardarlo».
Puoi indicarci un’opera per ciascun artista a cui prestare particolare attenzione nel percorso espositivo per la sua relazione con la tematica di “Anemoni”?
«Se rispondessi davvero a questa domanda contraddirei il senso della visione di insieme. Abbiamo tentato di combattere il focus sulle individualità, non riesco a pensare di accendere i riflettori su un solo lavoro. Darei allora una risposta più vera circa l’attenzione. Vorrei che lo spettatore si concentrasse nel sentire il pieno e la forza delle opere nel grande spazio vuoto che le circonda; nel percepire la potenza scultorea di un lavoro digitale; nel riconoscere la capacità installativa del classico piatto in ceramica. Insomma, su come ciò che non si aspetta e non gli è noto possa parlargli. Sostituire termini quali equilibrio, incontro con l’altro, comunità ad altri -oggi abusati- quali sicurezza, controllo, Legge. Vorrei che (anche solo per il tempo della visita) lei potesse immaginare di perdere il controllo, sentendo e rispettando le libertà degli altri. Per me è il solo modo di pensare alla vita o all’arte, che poi sono la stessa cosa. Almeno per me e gli artisti con cui ho pensato tutto questo».
Ad accompagnare la mostra ci saranno una serie di eventi, quali saranno i primi?
«Per il momento abbiamo fissato due incontri connessi a tematiche più generali che emergono dalle relazioni stabilite dalle opere in mostra. Un primo incontro, previsto per venerdì 10 novembre, con Marco Tonelli, docente di storia dell’arte contemporanea all’Accademia di Venezia, che terrà una conferenza sul “campo espanso” della scultura, ossia sulle evoluzioni della scultura a confronto con altri media. Nel secondo incontro, previsto per giovedì 14 dicembre, traccerò invece io stessa un percorso sulla ceramica nell’arte contemporanea. Sarà anche l’occasione per presentare il catalogo della mostra, edito da Danilo Montanari, che alterna le singole opere a vedute dell’allestimento».