“Killers of the Flower Moon”, l’ultimo film di Martin Scorsese appena uscito nelle sale, si rivela piatto e inerte. Non aiutato dalle prove di De Niro e DiCaprio
– Finalmente è arrivato in sala “Killers of the Flower Moon”, l’ultimissimo e attesissimo film di Martin Scorsese presentato fuori concorso allo scorso Festival di Cannes, se non sbaglio.
– Non sbagli. Aspetterei però a dire “ultimissimo”, che per un regista ultraottuagenario può suonare un tantino jettatorio, visto che ne sta già preparando un altro tratto, come questi Assassini della Luna Piena, da un libro di David Grann. La notizia in un certo senso mi conforta, perché vorrei tanto sperare che Scorsese, cioè il regista di un’infilzata di capolavori che hanno fatto la storia del cinema americano dell’ultimo quarto del secolo scorso, non chiuda la sua carriera con questo titolo infelice.
– Addirittura “infelice”?
– Per me sì. Ovvio che i fan sfegatati, quelli che hanno spacciato per massime vette dell’arte porcheriole come “Hugo Cabret” o “The Wolf of Wall Street”, hanno gridato e continuano a gridare all’immenso capolavoro. Io sono stato il primo a difendere “Silence”, opera senile di asciutta e vigorosa monumentalità, o addirittura “The Irishman”, la cui ultima ora, che a suo tempo paragonai agli ultimi Quartetti per archi di Beethoven, si faceva perdonare le altre due e mezza, non proprio da buttar via integralmente, ma con seri scompensi di tenuta narrativa. Il problema di Martin Scorsese è che…
– Dunque secondo te Martin Scorsese ha un problema?
– Ce l’ha eccome. Anche più di uno, secondo me. Diciamo che dopo “Goodfellas”, anzi, voglio esser buono: dopo “Casino”, meno perfetto di “Goodfellas” ma indubbiamente sensazionale, ad andarli a contare uno per uno non si riesce a trovare un solo titolo pienamente convincente, ad eccezione, forse, di “The Departed”. Lo so che è un mio personalissimo modo di vedere, ma secondo me, a riguardarlo dopo tanti anni, tutto il cinema di Scorsese, anche i titoli considerati più inattaccabili, presentano un problema di artificiosa manieratura, qua più e là molto meno, magari, ma pur sempre, in diversi gradi, palpabile e a volte fastidiosa. Quando in casa di amici, anche se ormai raramente, mi succede di incappare nel passaggio in televisione di “L’età dell’Innocenza”, “L’ultima tentazione di Cristo”, “The Aviator”, o il remake di “Cape Fear”, mi accorgo di venire sgradevolmente assalito da questo senso di vertigine causato dal troppo stile, dall’eccessiva impellenza di ostentare se non il proprio virtuosismo, la propria presenza dietro la macchina da presa. Ti confesso, ma a questo punto dovrei ammettere che si tratta di un “mio problema”, che a tratti perfino il veneratissimo “Fuori Orario” mi provoca urticanti pruriti…
– Vabbè, ma allora sei tu che hai qualche rotella che gira al contrario, amméttilo…
– Che ti devo dire? Considero infinitamente più interessanti i film “sbagliati” di Coppola o De Palma, anche quelli che non si è filato nessuno, come “Twixt” o “Domino”, da tutti bollati come disastrosi. Eppure ci avverto un cinema più viscerale e autentico. Ora, io voglio bene a Martin Scorsese: come fai a non voler bene a uno che ha fatto “Mean Streets” e “New York, New York”? Speravo, mi illudevo, dopo la presentazione a Cannes da dove qualcuno scrisse di un “film solenne” o di “maestosa classicità”, “profondamente umano”, “eticamente necessario”, di rintracciare il vigore degli anni felici nella zampata dell’anziano leone. Mi sono ritrovato invece a gestire tre ore e venti di racconto piatto e inerte, con passo a volte addirittura televisivo per quanto di lusso, montato da una Thelma Schoonmaker sorprendentemente sbadata (errori vistosi nei semplici campi e controcampi delle conversazioni), verboso, scritto con la mano sinistra da Eric Roth e dallo stesso Scorsese, i quali hanno evidentemente compiuto la scelta infelice di raccontare una storia di americani nativi vittime dei bianchi cattivi quasi esclusivamente dal punto di vista dei bianchi cattivi, senza riuscire a creare alcuna empatia né suscitare la minima commozione.
– Devo correggerti: la durata esatta del film è di tre ore e ventisei minuti.
– Lo so bene. Ho tenuto fuori infatti, e apposta, i sei minuti finali, dove finalmente fa irruzione il cinema, anzi voglio sbilanciarmi (perché io a Scorsese gli voglio bene), il Grande Cinema, quando in un felicissimo e pirotecnico siparietto conclusivo viene allestita in uno studio radiofonico, sceneggiata, recitata da attori e sonorizzata da rumoristi, la “morale” della storia, dove si viene informati della fine che hanno fatto i diversi personaggi di cui per oltre tre interminabili ore abbiamo seguito gesta e avventure. Ma sei minuti sono un po’ pochino per poter scomodare il dizionario dei superlativi per l’intero film.
– Mi sorprendi. Sei l’unico a bollare “Killers of the Flower Moon” così severamente. In giro non leggo che elogi sperticati.
– E questo che significa? Se ti fidi di me devi darmi retta senza per questo decidere di non andare al cinema per farti la tua opinione.
– Certo che ci vado. Ma De Niro e DiCaprio?
– Allora: nel cast a brillare non sono affatto loro due. Robert De Niro è una sorta di boss mafioso locale, mellifluo e spietato ma senza spessore, privo della diabolica ambiguità che giustificherebbe la fiducia ingenuamente accordatagli dai poveri nativi della Contea di Osage, dove negli anni ’20 dello scorso secolo iniziò a schizzare a fiumi l’oro nero, il petrolio. Leonardo DiCaprio, suo nipote, è un fessacchiotto talmente inetto che potrei non stupirmi se un personaggio del genere gli compromettesse momentaneamente la carriera. Come De Niro, anche lui sembra la macchietta di se stesso in altri film ben più gloriosi dell’amico Martin, compreso “Shutter Island”, fino ad oggi il punto più basso della filmografia scorsesiana. La permanente smorfia caricaturale che ostenta in ogni inquadratura, rimasticando e mugugnando in modo del tutto innaturale come fosse un cartone animato, lo caratterizza come uomo debole, senza polso né personalità. L’unica che meriterà l’eventuale candidatura all’Oscar è Lily Gladstone, nel ruolo della severa, riflessiva e sfortunata nativa. Il più bravo e convincente è senza dubbio Jesse Plemons, sobrio, garbato, ma insinuante investigatore dell’FBI di Edgar J. Hoover. Perfino Brendan Fraser, nel ricordo, oscura le prestazioni dei due protagonisti maschili maggiori. Su tutto e tutti dovrebbe aleggiare una minaccia strisciante e sanguinaria, né mancano cruenti omicidi ed episodi, rari, di fulminea crudeltà, subito riassorbiti, però, nel lento fiume troppo magmatico del racconto: nessun sussulto, nessuna suspence, se non per timidi accenni, anch’essi sommersi come pentimenti dalla soporifera e indigesta qualità del racconto.
– Che panorama desolante.
– Atroce. Non si fa che chiedercisi “Ma Scorsese dov’è?” È lui il grande assente: il suo cinema istrionico, bulimico, prepotente, quel cinema che gli era riuscito di incanalare nella, quella sì, solenne e maestosa navigazione di “Silence” con risultati di una forza stupefacente. La rarefazione di “The Irishman” qui svapora in una trasparenza prosaica e poco attraente che mai ti invita a entrare dentro la storia, a darti pena per qualcuno, o a prendere le debite distanze dalla riprovevole condotta dei bianchi avidi e assassini. Aggiungi una colonna sonora incisiva quanto un panno lenci (inclusiva del solito rock che sulle danze e sulle cerimonie tribali dei nativi americani degli anni ’20 dovrebbero “fare tanto fico” secondo i cinefili di bocca buona) e otterrai questo “Ritratto del Dark Side del Sogno Americano”, questo “Manifesto contro la Violenza Razziale e il Colonialismo Bianco”, questa “Denuncia della Brutalità del Capitalismo” (cito gli entusiasti) che in realtà va avanti per tre ore a volare basso senza un guizzo, un’imbizzarrita, un colpo di coda che ti faccia arrivare nello stomaco anche uno solo dei cazzotti di cinema che eravamo soliti prenderci, e volentieri, da Martin Scorsese… Anche in questo caso, come già per il torvo “Oppenheimer”, al termine mi sono detto: “Che peccato che non lo abbia diretto Clint Eastwood”…