Dell’arte contemporanea e dell’attualità con Alex Occelli e Giuseppe Mirigliano, due che in pittura hanno idee chiare. E prospettive molto diverse
Oltre a essere una rediviva meta del turismo di massa, Genova è la città di uno sfizioso spazio alternativo ai soliti circuiti del contemporaneo: SP21. Studio d’artista di Anto Milotta e Giuseppe Mirigliano, nonché una manciata di metri quadri adibiti a luogo di confronto artistico. La filiera si accorcia, l’impenetrabile backstage – sì, lo studio – diviene spazio polifunzionale, in cui l’arte si produce e si consuma. Tutto all’interno di un grosso edificio grigio cemento anni 50′ che vedendolo verrebbe voglia d’invocare una Santa Inquisizione del piano regolatore, ma la cui più grande pecca è semplicemente l’essere stretto tra quella botta di medioevo offerta dalla Genova fronte Acquario. Un pezzo di cementificazione genovese d’antan, non certo quella da levate di scudi ideologiche d’oggigiorno.
Fino all’undici novembre prossimo, SP21 si apre a “Space time continuum”. Progetto curato da Anna Daneri, che prende a prestito l’idea di orizzonte pittorico personale per riflettere sul presente in prospettiva aperta e comunitaria, incrociando la ricerca dello stesso Mirigliano a quella di Alex Occelli. Artisti che, fondamentale anticipazione, seguono direzioni molto diverse tra loro. Occelli è diretto, produce serialmente immagini a portata di smartphone, piccole tele che uniscono la più classica ed evocativa delle idee di orizzonte – mare e cielo – alla più contemporanea fruizione/comunicazione social. Una lunga striscia, ritmata da ambientazioni complementari a parole (cose come “enjoy”, “like”, “amore” etc.) che si materializzano – qui fondamentale la scelta della grafite – in sovrimpressioni assolutistico-motivazionali. È il paradosso di Occelli: parodiare quel tipo di comunicazione rendendola pietrificata, non scrollabile, non consumabile come cultura social vorrebbe. Nel suo orizzonte ci ha servito un parallelo tra linguaggi distanti per concezione, tra una pittura che affonda le radici nel passato, e una comunicazione social radicata nel presente, correggendo un effetto potenzialmente distopico al netto di una comune forzatura bidimensionale. Calcando la mano proprio sulla riproducibilità del vero; su ambientazioni che lui ha ritratto en plein air, ma che noi, nativi tridimensionali di vecchia data, possiamo vivere solo nell’assenza di profondità data dall’interposta persona.
Dall’altro lato della stanza Mirigliano, con un frammento, una frattura che definisce «Scossa», ma anche un «Dialogo tra differenze». Nell’ecosistema di una «Pittura che va oltre i limiti del quadro», Black wave on time è una carta che assume la gravità di una raffigurazione persa nel buio del tono bruno Van Dyck. Che spicca, spaccando la verticalità di una parete bianca, aprendo un orizzonte che geneticamente ha qualche cromosoma della Fontana maniera. Con una particolarità: il “taglio” di Mirigliano non è l’effetto di un’azione, ma causa esso stesso.
Non eravamo pronti a capire quanto la pittura potesse andare oltre i limiti del quadro nell’idea di Mirigliano. Finché non ha tirato in ballo la poesia, che lui organizza in piccoli componimenti, tracciati a lettere trasferibili su pareti e finestra. Orizzonti meta-testuali, sfuggenti per due motivi: il primo è che perderli di vista – nel complesso dello spazio s’intende – è un attimo. Sono piccolissimi. Il secondo è l’evanescenza, data dall’uso dei trasferibili – delicatissimo retaggio della formazione da architetto di Giuseppe – con cui sono stati fissati. Una sfuggevolezza che li rende ancor più potenti, causa scatenante di una figurazione non oggettuale, fatta d’immagini proiettate dall’artista per essere libere di concretizzarsi nella testa di chi legge. E non si mandano certo in prescrizione le parole di uno come Leonardo, ma da questa prospettiva la poesia è una pittura tutt’altro che cieca.