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El Greco, avanguardia ed eucarestia. La grande mostra a Milano

El Greco, Laocoonte - Olio su tela, 137 x 172 cm, National Gallery of Art Washington, ©Courtesy National Gallery of Art, Washington El Greco, Laocoonte - Olio su tela, 137 x 172 cm, National Gallery of Art Washington, ©Courtesy National Gallery of Art, Washington
El Greco, Laocoonte - Olio su tela, 137 x 172 cm, National Gallery of Art Washington, ©Courtesy National Gallery of Art, Washington
El Greco, Laocoonte – Olio su tela, 137 x 172 cm, National Gallery of Art Washington, ©Courtesy National Gallery of Art, Washington
A Palazzo Reale di Milano dall’11 ottobre 2023 all’11 febbraio 2024 è visitabile la mostra El Greco, dedicata al grande artista, cretese di nascita (quando la terza isola del mediterraneo era sotto il dominio veneziano) e spagnolo di Adozione.

Impossibile evitare, persino in una nota introduttiva tanto succinta, la ridondanza di El Greco, nelle opere e nella vita. La sua origine geografica, in bilico tra occidente e oriente, nel solco più profondo del Mediterraneo, e la collocazione cronologica – nato nel 1541 (quattro anni prima del Concilio di Trento), nel secolo delle scoperte oceaniche che traslavano ogni logica politica e imperialista verso l’Atlantico e le coste occidentali dell’Europa centro settentrionale – non possono essere ignorate. Per quanto ci si voglia concentrare sulle tecniche pittoriche o sulla sua indipendente poetica, non si può fuggire la prolungata e oblunga eco di tempi e luoghi.

Nascere al confine con l’Oriente, nel rafforzarsi dei paradigmi occidentali (che il Rinascimento italiano aveva riconosciuto nella classicità latina più che in quella bizantina e greca) significava ridestare vecchie latenze culturali che si credeva, o voleva, sopite sotto l’omologante ma elastica retorica delle arti moderne. Tanto più evidente è questa tensione a Venezia, dove El Greco giunge nel 1567. Nella Serenissima la rigidezza magnetica delle icone bizantine, che aveva influenzato El Greco, incontra i colori di Paolo Veronese, la tecnica pittorica delle “chiazze” di Tiziano e la luce delle scene dipinte da Jacopo Tintoretto; mentre poco lontano dal centro lagunare, Jacopo Bassano si dedica alla raffigurazione di scene crepuscolari, suggerendo, nel disvelarsi della luce, le azioni di uomini indaffarati, che solo a fatica riconosciamo essere personaggi di scene sacre e miti, in una difficile e rivelatoria epifania ombrosa; e il Parmigianino, nella Parma Farnesiana (proprio i Farnese saranno i protettori di El greco durante il suo breve soggiorno romano) dipinge figure allungate, stirate da una pulsione all’astrazione che rimane, tuttavia, ancora soffocata.

Per El Greco (il cui nome di battesimo era Dominikos Theotokopoulos) il naturalismo non è affatto un limite all’avanguardia che già imperversa nelle sue tele, ma anzi, a differenza delle avanguardie moderne, ingabbiate dallo sforzo autoinflittosi di dover dimenticare ogni convenzione figurativa, El Greco agisce nel segno della figurazione, sgombro da ogni programma di intenti (al contrario di cubisti, astrattisti e gli altri grandi avanguardisti novecenteschi del XX secolo che guardano a El Greco), piegando la realtà e manipolandone al limite la percezione. Il mondo che i suoi quadri raffigurano è scomposto tanto quando un collage cubista.

Prospettive architettoniche e convenzioni iconografiche sono continuamente manomesse dal filtro dell’umano, dell’individuo, che per la prima volta conduce alla sostituzione della realtà con l’emotività dell’artista. È un drammatico proto-espressionismo, che giunge nel momento giusto. El greco non sarebbe stato possibile nell’età di Leonardo, Michelangelo e Raffaello, solo nella tragica necessità di umanità dell’età della controriforma la sua pittura avrebbe potuto trovare collocazione.

Se potremmo, estremizzando, dire che le opere di Leonardo o di Raffaello reggono anche senza conoscere i loro artefici, perché rappresentazione di una realtà che si tenta di oggettivare e comprendere nel suo apparire, le tele di El Greco possono essere comprese solo se associate al suo nome, agli ambienti che egli frequenta, al tempo che vive. È il ribaltamento, precocissimo, della definizione di opera d’arte che la modernità aveva formulato a partire dallo studio consapevole dell’antico. L’arte non conduce più all’assolutezza, al vero, ma al relativo, al paradossale, all’irreale. Come se già fosse stata scoperta la fotografia, l’arte di El Greco è totalmente sollevata dall’annoso compito di raffigurare il reale.

El Greco, Adorazione dei Magi - Olio su tela, h 45 x 52 cm Museo Lázaro Galdiano, Madrid ©Museo Lázaro Galdiano, Madrid
El Greco, Adorazione dei Magi – Olio su tela, h 45 x 52 cm Museo Lázaro Galdiano, Madrid ©Museo Lázaro Galdiano, Madrid

L’ambiente veneziano e i suoi molteplici stimoli, dunque, ma anche e necessariamente il suo tempo, con gli anni della controriforma. Nel 1545 ha inizio il concilio di Trento. Terminato nel 1563, solo 4 anni prima dall’arrivo dell’artista a Venezia, esso segna i caratteri di una nuova arte sacra.

Se la riforma seguiva il periodo del razionale edonismo cinquecentesco, che si riversava anche nelle tele di soggetto religioso (basti pensare ai floridi banchetti di Veronese), la controriforma riconosceva come debole il tentativo di rappresentare le scene sacre inun preciso realismo. Disegnare geometrie e prospettive perfettamente costruite e calcolate, raffigurare i corpi di santi, martiri e di Cristo anatomicamente proporzionati non aveva funzionato. Il battesimo di Piero della Francesca ne sia esempio. La scientifica freddezza oggettivizzante allontana il fedele. L’emotività umana era stata esclusa da queste scene credendo che condendo con la prova della scienza la santità, l’una avrebbe comprovato la veridicità dell’altra, ma non fu così. La controriforma risponde al duro e incontenibile attacco della riforma luterana, invece, puntando sull’emotività e sulla capacità dell’osservatore di immedesimarsi nella scena sacra, nel dolore del sacrificio di Cristo, nella gioia del miracolo trinitario.

Così El greco, dalla periferia de mondo, riesce a sovvertire, disinibito, gli ordini consolidati. Il disorientamento di angeli, martiri ed evangelisti che si accalcano nell’indefinito spazio pittorico delle sue tele si chiedono quale sia il senso della religione dopo la riforma, e si mostrano disarmati, così umani, così dignitosi, quasi avvertendo nel loro sguardo il rammarico della sconfitta etico-valoriale appena subita.

Le ali dell’arcangelo Gabriele nell’annunciazione di El greco non sono candide e piumate come quelle dei numerosi precedenti – dalle perfette ali dell’annunciazione di Leonardo, sino alle preziose ali dell’annunciazione di Simone Martini senese – ma sono grandi ali nere, sporche, ali forgiate dalla terra, dal reale.

Gli occhi miseri, dignitosi e umani dei suoi soggetti; i colori aspri e troppo freddi per poter essere illuminati; e poi i corpi d’avorio, che costituiscono le principali sorgenti di luce sulle tele, sotto cieli di nubi grigie e brani di cielo azzurro pallido. Il ricorrente verde acido, il rosa accecante, toni cromatici esasperati. Una cosmologia, quella di El Greco, che nel farsi terra incontra il surreale.

L’arte sacra non doveva più convincere sui contenuti, ormai infranti, bensì coinvolgere.  È la più potente resa della tradizione religiosa: abbandonarsi ai toni patetici per poter mantenere un ruolo nella modernità. Gli angeli astanti della scena del battesimo non assistono fermi alla scena, ma accorrono a porgere le vesti al corpo di Cristo bagnato dell’Acqua del Giordano, il corpo crocifisso di Gesù non si appoggia al crocifisso senza fatica, ma è a stento retto dai chiodi, a cui la gravità si oppone, lacerando al carne. I volti e gli sguardi sono oniricamente realistici, confondono realtà e fantasia. Le tele di El greco raffigurano un’ininterrotta ed apocalittica eucarestia di carne.

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