Lo straordinario filosofeggiare di Umberto Orsini ne Le memorie di Ivan Karamazov in scena al Teatro Eleonora Duse a Genova fino al 29 ottobre
Essere anziani fa vedere le cose in modo diverso, questo è indiscutibile. Come è indiscutibile che diventare anziano sia difficile. La vecchiaia è una fase della vita che porta con sé molte perdite, dal declino fisico alla scomparsa di persone care nonché alla dismissione dal lavoro con la conseguente perdita di ruolo sociale. Ma essere anziani non significa solo aver maturato dell’esperienza da trasmettere, ma anche comprendere l’essenziale delle cose da poter insegnare e tramandare. Umberto Orsini, classe 1934, è indubbiamente un uomo anziano, ne è consapevole, ma da questa sua vecchiezza ne ha tratto una nuova filosofia di vita.
Certo lui non fa parte di quegli anziani che si sono trovati nella situazione sopra citata di dover smettere di lavorare, perché il lavoro di un attore di teatro non ha limiti di età, anzi. Un bravo attore, come nel suo caso, più invecchia e più sa dare al pubblico. Certo il ruolo di Romeo non farà più al suo caso, ma quello di Ivan Karamazov con la sua filosofia dell’ateismo sì, eccome.
Orsini, con la sua prestanza fisica, la naturale eleganza e l’ottimo controllo dei mezzi espressivi, negli anni Sessanta, è stato attore molto richiesto anche in televisione. Ora, in questi giorni, è a Genova al Teatro Eleonora Duse dove porta in scena Le memorie di Ivan Karamazov di cui è protagonista e autore della riduzione drammaturgica, insieme al regista Luca Micheletti. Orsini interpretò Ivan già nello sceneggiato televisivo di Sandro Bolchi nel lontano 1969 come racconta lui stesso: “Conosco il signor Ivan Karamazov da oltre mezzo secolo. Lo incontrai in uno studio televisivo a Roma, e da allora ci siamo guardati nello specchio e ci siamo confusi uno nell’altro al punto di identificarci o de-identificarci”.
E’ indubbio che il personaggio di Dostoevskij gli è rimasto dentro e adesso, con la visione analitica di un anziano, Orsini riesce a dare a quel personaggio l’epilogo che a suo avviso reclamava. Il grande attore ripropone in scena da solo quel personaggio che resiste nel tempo e gli dà quell’immortalità che forse vorrebbe anche per sé. Orsini non vuole ricalcare l’Ivan raffinato, gelido e razionale dello sceneggiato diretto da Bolchi, ma lascia il posto ad un Ivan sfaccettato e imprendibile, il libero pensatore che teorizza l’amoralità del mondo e conduce più o meno consapevolmente all’omicidio di suo padre, anche se non per mano sua.
Sul palcoscenico troviamo un Karamazov ormai anziano che ritorna a parlare perché sente di non aver esaurito il proprio compito, di non aver espresso compiutamente il proprio pensiero e non aver chiarito le esatte dinamiche dei “delitti” e dei “castighi”. Il suo è un bilancio disincantato di una vita, l’allucinazione e incubo di un uomo che si sa cattivo e richiede attenzione alla corte: “Reclamo il mio finale, voglio la mia sentenza”, dice in un tribunale vuoto e impolverato, un ambiente senza vita né luce (bravissimo Carlo Pediani che ha disegnato le luci in modo da sottolineare questo aspetto), palesemente anticamera della tomba.
Il monologo-confessione parte dal passo del Vangelo di San Giovanni del chicco di grano che rimane solo, se non muore, una volta caduto a terra, una scelta che dice già tutto. Una partenza che Micheletti e Orsini riprendono alla fine della pièce, per chiudere il cerchio. Un’analisi che porta alla conclusione del riconoscersi sconfitto. Quello che fa Orsini in questo suo spettacolo è un un viaggio dentro la coscienza da cui scaturisce una riflessione su colpevolezza e innocenza, volontà e destino che sono dentro all’animo di Ivan Karamazov, ma che potrebbero essere anche quelli di Umberto Orsini stesso. Ha ancora le sue convinzioni giovanili come la conferma dell’inacettabilità della sofferenza degli innocenti, i bambini, anche nel caso fosse il prezzo per pagare l’armonia del mondo (argomento quanto mai attuale in questi giorni). Qui ritrova il vigore giovanile. È un’anima in pena, che tra folate di vento e un turbinio di neve dialoga con il se stesso giovane grazie a una sorta di macchina del tempo, un fonografo che gli ripete le parole dette tanto tempo fa, quelle pronunciate dall’Orsini Ivan Karamazov dello sceneggiato, trasmesso dalla RAI nel 1969.
Le voci si sovrappongono, come si sovrappongono i ricordi per l’attore e per il pubblico, molti dei quali hanno ben presente quel leggendario sceneggiato da decine di milioni di telespettatori i cui attori sono quasi tutti scomparsi. Resta lui che da solo ha il vigore per dare voce ancora una volta a tutti quanti.
La filosofia di Ivan è la filosofia dell’ateismo che si compie tra l’Ottocento e la prima metà del Novecento e che trova nei cosiddetti filosofi del sospetto la sua sintesi (Feuerbach, Marx, Nietzsche, Freud). Per questi Dio è un ostacolo che va superato perché fattore di alienazione, così che l’uomo possa essere l’unico responsabile di tutto, anche della vita e della morte. Questo uomo-dio, che diviene per Marx la massa del proletariato e per Freud il super-Io, per Ivan/Orsini vive nella propria coscienza l’incertezza della sua affermazione. Pur volendo far credere di non credere, Ivan riconosce la potenza della figura di Cristo che solo con un bacio mette in crisi il Grande Inquisitore, ma sembra una crisi che non coinvolge solo il personaggio ma l’attore stesso all’alba dei novant’anni. Malgrado la croce rovesciata che fa mostra di sé sulla tetra scena, Cristo è presente, forte, il suo amore è spiazzante. Un amore che non condanna, ma danna. Ivan non può morire, ma solamente fuggire e questa sì che è una dannazione eterna.
Spettacolo da non perdere in scena al Duse fino al domenica 29 ottobre.