Abbiamo incontrato Richard Boulet ad ArtVerona, dove ha partecipato allo spazio espositivo Arte Connettiva. Boulet, artista canadese attivo a Edmonton, affronta questioni di emarginazione, in particolare i temi della salute mentale e, più recentemente, le preoccupazioni relative alle comunità LGBTQ2S+
Vorrei chiederti cosa pensi del cucito, se riguarda l’arte o i calzini da rammendare.
Entrambi, penso, e riguarda anche l’artigianato. Ho amici che fanno all’uncinetto e a maglia e preferiscono la parola artigianato, altri preferiscono la parola arte. Credo sia una questione molto malleabile. Saper rammendare, così come fare all’uncinetto o cucire, non solo tornano utili nella vita quotidiana, secondo me sono importanti soprattutto perché fanno bene alla salute mentale.
Cos’è per te il punto-croce?
È una parte della mia vita. Faccio punto-croce da più di vent’anni ormai e mi piace farlo ogni giorno anche solo per cinque o dieci minuti, mi riporta con i piedi a terra, mi aiuta a concentrarmi prima di fare altro, che sia sistemare la casa o andare al lavoro.
Mi dicevi che per te il ricamo è un piacere semplice, qualcosa che fai solo per te e per te solamente.
Lo è. Penso che tante persone si perdano i piaceri semplici della vita perché sono troppo concentrate su altro, cose importanti, sì, ma non abbastanza da non riuscire a trovare il tempo per notare le piccole bellezze poetiche che ci sono là fuori (small, little, poetic beauty out there). Un piccolo piacere semplice abbastanza comune sono le foglie che in primavera iniziano a germogliare. Viviamo in una cultura di acquisti e consumi, di fast fashion, e credo sia un dovere quello di essere sostenibili. Dobbiamo essere più piccoli in scala. Le nostre vite devono essere più piccole, che non significa che siano meno significative, vuol dire che condividiamo maggiormente ciò che il pianeta ha da offrirci. Per me, vivere piccoli è un piacere semplice. Mi segui?
Sì, è qualcosa su cui ragiono anche io da un po’ di tempo: il vivere lento, e cosa voglia dire non seguire la velocità di questa società.
Il nostro modo di vivere riflette quanto sia difficile vivere con lentezza. Personalmente ho momenti in cui devo essere veloce e in grande scala, diciamo, e so come farlo, ma cerco di prendermi tanto tempo per me stesso. Come artista non mi mancano le pressioni esterne: devo osservare scadenze, soddisfare le esigenze del curatore e del gallerista con cui lavoro, ma penso di essere abbastanza fortunato perché mi trovo in un momento della mia vita dove tutte queste cose sono in sincronia, capisci? Ora mi conosco e sono in sincronia con il tempo che mi serve per affrontare la mia vita fuori, non è più come quando ero giovane e sentivo di dovermi tenere occupato: lì ero in dissonanza con me stesso.
C’è un motivo particolare per cui inserisci parti testuali nei tuoi lavori?
Mi permette di essere molto specifico in termini di quale idea voglio dare. Il testo mi permette di giocare anche con un’immagine, che a volte è a supporto complementare del testo, altre volte crea ambiguità visiva tra testo e immagine, creando quasi confusione nell’osservatore. In ogni caso, che il testo sia complementare, in opposizione, o dovunque nel mezzo, crea l’opportunità di iniziare una conversazione.
Ti piace aprire dialoghi con il pubblico.
Assolutamente, diciamo che in sintesi quello è lo scopo.
E cosa fai per la tua salute mentale?
Oltre al punto croce? In questi giorni sto lavorando come visiting artist in Canada. Recentemente ho finito una residenza presso l’Università di Alberta a Edmonton e una residenza dedicata a 45 artisti queer presso un’organizzazione che si occupa di stampa sempre a Edmonton chiamata Snap Society. In Canada alcune persone usano il termine queer crip nel senso di Lgbtq, io non sono del tutto convinto dell’utilizzo di quella parola e uso semplicemente la parola gay, ma sai, le parole cambiano molto. Ho perso il filo, qual era la domanda?
Dimentico sempre le domande che faccio. Ma dimmi, ritieni che la tua sia arte socialmente impegnata?
Credo di sì, tratto molto il tema della salute mentale e penso che la mia sia un’arte molto impegnata socialmente. Sono consapevole che ci sono diversi movimenti là fuori molto più grandi nella loro portata rispetto a quello che faccio io, l’arte socialmente impegnata può essere uno di questi su larga scala. Nella mia vita piccola, lenta, credo che i miei gesti, seppur anch’essi piccoli, nel mio piccolo angolo di mondo siano una forma di attivismo sociale di supporto alla comunità. La mia salute mentale ha la priorità e pensare troppo in grande rischia di farmi sentire sopraffatto, di destabilizzarmi, così preferisco agire nelle dimensioni che si adattano alla mia personalità.
Credo tu sia una delle persone più consapevoli di sé che abbia mai conosciuto, sai perfettamente cosa è meglio per te e cosa no. Si percepisce tutto il lavoro che hai fatto.
Matilde, ad essere sincero, prima che mi diagnosticassero la schizofrenia la mia vita stava cadendo a pezzi, perché andavo in direzione opposta. Ho avuto una vita di dipendenze, di alcol, marijuana, sigarette, erano le mie strategie di adattamento a una realtà di confini poveri e comportamenti inappropriati, la schizofrenia è stato un campanello d’allarme per me, ero in disarmonia.
Ma non credo sia scontato quello che hai fatto: riuscire a prendere la vita per le corna, e mettersi in discussione per capire chi si è.
Potresti avere ragione sul fatto che forse non molte persone lo fanno, ma penso che molte persone abbiano il potenziale per farlo. Sono d’accordo, ho fatto tanto per me, ho dovuto cambiare un sacco di abitudini e comportamenti, e ho ricevuto tanto supporto dal mio psichiatra per tutto ciò che è la mia salute mentale. Sono stabile, il mio rapporto con la realtà si basa sull’essere gentili con se stessi, ma anche sull’essere onesti, franchi e diretti, se necessario.
A volte è difficile essere franchi con se stessi.
Ora vorrei che mi raccontassi tu una storia.
Vuoi che ti racconti una storia di me?
Sì, vorrei che mi raccontassi cosa fai per prenderti cura della tua salute mentale.
Richard Boulet, artista canadese attivo a Edmonton, mantiene una pratica attiva in studio che affronta questioni di emarginazione, in particolare i temi della salute mentale e, più recentemente, le preoccupazioni relative alle comunità LGBTQ2S+. Boulet ha tre lauree, due conseguite presso all’Università di Manitoba, prima in Studi ambientali (Architettura) e a seguire un BFA in Pittura, infine un MFA presso l’Università di Alberta in disegno e intermedia, dove ha affinato il suo desiderio di lavorare con i tessuti combinando testo e immagine Ha esposto ampiamente, con una tournée nazionale che ha incluso il Textile Museum of Canada, oltre a molteplici mostre personali e collettive.