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Il Sole allo Zenit #14: Il caso volle

Richard Artschwager, Exclamation Point (Yellow), 2001, Plastic bristles on a mahogany core painted with latex, 165.1 x 55.9 x 55.9 cm
Sembra che Alfred Fielding e Marc Chavannes, due ingegneri americani, nella seconda metà degli anni 50, in un garage del New Jersey, si prodigassero a realizzare una carta da parati in plastica con supporto di carta. Il loro prodotto non ebbe il successo sperato nel campo previsto ma i due presto si resero conto che quell’invenzione poteva essere utilizzata come materiale da imballaggio e così diedero vita al pluriball, che da allora risolve molti problemi a galleristi e artisti, allestitori e spedizionieri. Del resto
decine di invenzioni sono nate dal caso, soprattutto in ambito medico.

Vedasi il primo anti-depressivo scoperto negli stessi anni mentre si cercava una cura per la tubercolosi o Wilson Greatbatch che inventò il pacemaker aggiungendo un componente elettronico sbagliato a quello che doveva essere uno strumento per registrare il battito cardiaco. Anche Alexander Fleming arrivò ad inventare la penicillina scovando in un contenitore una muffa che aveva ucciso alcuni batteri e Wilhelm Roentgen progettò la radiografia a raggi X dopo aver frapposto la sua mano davanti a un proiettore di elettroni per caso. Ma “I’ve a feeling we’re not in Kansas anymore”, come disse Dorothy al cane Totò dopo l’uragano che li portò nel Regno di Oz, quindi riprendiamo le briglie e torniamo alla materia a cui è dedicata la nostra rubrica. Richard Artschwager, pittore e scultore statunitense, inserito nella corrente minimalista, in realtà conseguì la laurea presso la Cornell University di New York nel 1948 e all’inizio degli anni ’50 si dedicò all’ebanisteria, producendo e vendendo mobili funzionali. Dopo un rovinoso incendio nel laboratorio, alla fine del decennio, iniziò a realizzare sculture e installazioni site-specific utilizzando elementi industriali di scarto. Le sue opere risultano infatti un riuscito incontro tra artigianalità e industrializzazione, volte alla comprensione dello spazio degli oggetti quotidiani e delle persone che lo abitano, proprio come prevedeva la sua originale formazione. Jo Baer, donna dalle sette vite che ancora continuano, si recò in svariati posti del globo seguendo i suoi vari mariti. Nacque a Seattle, si spostò prima a New York, poi a Los Angeles. Tornò di nuovo a New York, si legò professionalmente ad artisti come Donald Judd, Sol Lewitt, Dan Flavin e indagò per buona parte della sua vita le periferie e i bordi della tela, segnandoli con due fasce di colore quadrate. “Volevo sapere cosa succede dietro l’angolo”, sostenne in un articolo, ma poi si trasferì in una fattoria in Irlanda e casualmente iniziò a dipingere uccelli, cavalli, contadini e prati verdi. Da lì si spostò a Londra e scrisse uno dei suoi articoli più noti intitolato ”I am no longer an abstract artist”, anche se già si era capito. Poi se ne andò ad Amsterdam e sembra che oggi dipinga anche fiori, che io immagino tulipani.

Mary Corse, Untitled (First White Light Series), 1968, Glass microspheres and acrylic on canvas, 198.1 × 198.1 cm

Per Mary Corse invece, nata e cresciuta in California, l’ispirazione per i suoi primi dipinti “White Light” giunse durante un periodo di grande attenzione alla tecnologia, condivisa dagli artisti della West Coast, che sfidavano le tradizionali modalità di percezione degli spettatori attraverso la creazione di ambienti immersivi e opere di luci artificiali. Impegnata a capire come incorporare la luce nei suoi lavori, realizzò il dipinto monocromatico Untitled (First White Light Series) del 1968 dopo un viaggio in autostrada al tramonto. “Ero a Malibu, l’occidente era dietro di me e tutto si stava illuminando”, ebbe a dire un giorno. Scoprì che poteva ottenere un simile senso di luminosità nei suoi dipinti utilizzando le microsfere di vetro che il dipartimento dei trasporti di Los Angeles inseriva nella segnaletica e sparse le microsfere sulla tela incorporandole nella sua miscela di vernice acrilica, e il resto è ciò che oggi ci illumina. Persino il grande De Kooning se non avesse iniziato a lavorare come decoratore a Rotterdam e non avesse osservato le prostitute del posto abbassare il vestito per mostrare il seno e convincere i passanti a perdercisi dentro, non avrebbe dipinto così di certo e non avrebbe ricreato nella sua arte quell’ “occhiata fugace” che spesso amava citare. “Signora Robinson, sta cercando di sedurmi, vero?” avrà forse anche chiesto loro, come Dustin Hoffman nel film famoso. Frutto del caso erano anche gli incontri di Gabriel Orozco nella Berlino del 1995 quando a bordo della sua Schwalbe gialla (una specie di vespa prodotta nella zona Est della Germania) scorrazzava per la città. Appena ne incontrava un’altra simile dello stesso colore ci parcheggiava la sua accanto e scattava una fotografia per testimoniare l’incontro: “un po’ come in una fiaba persiana, si vaga e ci si perde, si trova quel che si cerca e poi lo si cerca ancora” scrisse Jerry Saltz dell’opera.

Braco Dimitrijević, Accidental Painting, 1968, 3 photographs B&W, 87×68 cm

Con l’accidentale lavora anche Braco Dimitrijević, che è stato uno dei primi artisti a coinvolgere il pubblico nei contesti urbani. Nella serie Casual Passerby ha presentato ritratti di persone comuni su pannelli pubblicitari, sfidando la distinzione tra l’anonimo individuo e il soggetto artistico, producendo un turbamento poetico nell’ordine costituito al fine di cambiare la nostra accettazione acritica delle cose. E lo stesso può avvenire per chi esegue le opere d’arte, come nei suoi famosi dipinti accidentali. D’altronde “non ci sono errori nella storia. L’intera storia è un errore”, come cita un suo famoso statement. Anche Matisse iniziò la serie dei Cut-outs a partire da grandi pezzi di carta dipinti dai suoi assistenti e da lui poi selezionati e ritagliati con grandi forbici. Già provato da vari disturbi e impossibilitato nei movimenti, scelse la tecnica del ritaglio proprio perché non poteva fare altro. E la sorte nella sua vita pare aver detto la sua anche all’inizio della carriera e per una svolta stilistica successiva. Iniziò infatti a dipingere nel 1889, durante la convalescenza da un attacco di appendicite, mentre all’arte primitiva arrivò introdotto da Picasso dopo un casuale incontro da Gertrude Stein, nel suo famoso salotto.

Akira ‘Leiji’ Matsumoto, Capitan Harlock

In un altro salotto, da qui poco lontano, c’è invece qualcosa che non è potuto entrare. È una grande scultura di Anish Kapoor, voluta e pagata da un collezionista che aveva anche programmato la consegna ma che al momento dell’allestimento non passò dalla porta d’ingresso. L’acquirente fu costretto suo malgrado a tenerla nell’atrio comune, per la gioia degli altri inquilini che ci interagiscono davanti senza aver speso un penny.
“L’accidentale rivela l’uomo”, diceva il grande Pablo. E a volte anche l’eroe, aggiungerei io. Visto che pure la cicatrice di Capitan Harlock pare essere frutto del caso e la leggenda vuole che Matsumoto, alle prese con il disegno, prolungò troppo una linea sul viso ma decise di tenerla come sfregio speciale per il suo amato pirata spaziale.

Nicola Mafessoni è gallerista (Loom Gallery, Milano) e amante di libri (ben scritti). Convinto che l’arte sia sempre concettuale, tira le fila del suo studiare. E scrive per ricordarle. IG: nicolamafessoni

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