Print Friendly and PDF

KayOne e lo spirito del Writing. Intervista

Incontriamo la prima volta KayOne in un pomeriggio dei primi di marzo del 2020, a Milano, agli arbori della prima ondata Covid19, poi nel settembre 2023, all’interno di un cortile ben curato e organizzato in un fabbricato in zona Giambellino

Giambellino, un tempo estrema periferia sud-ovest, merita attenzione per descrivere il contesto urbano e sociale dove Marco Mantovani è nato, cresciuto ed attualmente lavora.

Il quartiere Giambellino (Lorenteggio), dove tra gli anni ’60 e ’70 è cresciuto Renato Vallanzasca, abitato da Richi Maiocchi dei Camaleonti, Lucio Battisti e Diego Abatantuono, è divenuto celebre grazie alla canzone di Giorgio Gaber, La ballata del Cerutti, ispirata al “Bar del Giambellino” (Via Giambellino 50), frequentato all’epoca dal cantautore milanese. Un quartiere popolare di nebbie periferiche, casermoni dormitorio, caserme militari ormai abbandonate, convivenza difficile tra immigrazione dal sud e poi nordafricana, forte disoccupazione, droga e prostituzione (anni ’80/90) e dove, piace ricordare, trovava sede il Pussycat, storico cinema a luci rosse (Via Giambellino 153), che ha cercato di resistere per ultimo all’assalto del web porno casalingo, chiuso nel 2016, ultimo della città.

Nella corte un basso edificio ben restaurato di un colore rosso, è il luogo dove, insieme al fratello, Marco organizza delle mostre legate alla Street Art.

Lo studio, diviso nella prima parte con la zona di ricevimento, ben ordinata e pulita, sedie e tavolo bianchi sul quale appoggiano due grandi schermi, una fornita raccolta di libri alle sue spalle, ed alle pareti, oltre ad alcune opere, fa sfoggio la sua importante collezione di bombolette spray usate negli anni. Opere ben impacchettate di ritorno da una mostra recentemente esposte, al centro un tavolino con opere di carta, multipli e cataloghi di mostre.

L’altro spazio ben visibile attraverso una grande vetrata, è la zona creativa, molto più ampia e spaziosa, è luogo di lavorazione, sperimentazione ed esecuzione delle opere, nella libertà che lo spazio consente e necessita. In una parete vecchi disegni eseguiti negli anni della figlia, ormai diciassettenne, con sogni d’artista nella moda.

Fa un certo effetto parlare con un uomo cinquantenne dei fasti entusiastici e sperimentali degli anni ’80 che vedeva riunirsi a Milano (in Largo Corsia dei Servi) tutti i giovani che cercavano di esprimersi attraverso l’arte nelle sue più svariate e multiformi espressioni, dalla danza alla musica all’arte applicata.

A cristallizzare l’atmosfera di quell’epoca e raccontare tutta l’evoluzione del percorso Urban a Milano, KayOne ha da poco pubblicato il libro “Vecchia Scuola – Graffiti Writing a Milano” edito per i tipi di Drago.

-Marco Mantovani, KayOne, siamo a Milano in zona Giambellino, tu sei nato qui? In questa palazzina qui?

Si sono nato qua.

-Stesso palazzo, stessa strada?

Io sono nato in questa zona, negli anni in cui ho iniziato la mia militanza da writer la strada era “all’abbandono”. Erano gli anni ’80, c’era un grosso problema a Milano legato alla droga, eroina e via dicendo… essendo una zona periferica della città, che aveva uno storico legato alla ‘mala’, se vogliamo tornare ancora più indietro, chiaramente viveva tutte le problematiche di questo genere; perciò io uscivo da casa e vedevo che intorno a me c’era il disagio, attraversavo la strada e lì a terra vedevo siringhe e trascuratezza. D’altro canto era un piccolo “borgo” all’interno di una grande città, ci si conosceva un po’ tutti, c’era la familiarità di andare all’oratorio e trovare i tuoi amici di zona che erano un po’ quelli che vivevi nella tua quotidianità. Io ho sempre disegnato, però poi è arrivato il momento del liceo artistico e lì probabilmente mi è scattata quella voglia di cambiare un po’ questa zona e renderla quel ghetto americano che io vedevo nei film, sulle copertine dei dischi, nei primi libri legati al Writing e perciò iniziare il mio percorso di vero writer per strada.

-Il senso di periferia abbandonata ti ha fatto muovere la voglia di riscatto?

Certo, l’idea di viverla tutti i giorni ma non essere nel luogo che vorresti. Quando ho scoperto il Writing, la voglia di tele-trasportarmi nel Bronx a Manhattan e vedere questi treni che sfrecciavano pieni di colori era naturale. Quei treni rappresentavano l’urlo del Writing, il desiderio e necessità di cambiamento. In maniera simile lo abbiamo fatto anche noi, in Italia, l’idea di aggiungere del colore nella propria zona era in un certo senso un binario parallelo a quello dei primi writer newyorkesi, con i loro treni che dal Bronx arrivavano a Manhattan, era la voglia di rendere la tua quotidianità più bella. In questo aspetto ho trovato un parallelismo forte con tutta la corrente del futurismo, legata alla velocità, al dinamismo ed essere controcorrente ed eversivo. I writer americani sono stati dei futuristi, che hanno aggiunto l’idea di velocità, di movimento alle proprie opere, erano per certi versi eversivi, ma per loro, come per noi, era semplicemente l’idea di trasformare la loro vita in qualcosa di bello. La cultura Hip Hop poi è stata quello, cambiare le discipline del mondo che erano la pittura col Writing, la danza con la Break Dance, la musica con il DJing, la poesia con il Rap. Un fermento culturale e sociale che a un certo punto ha acquisito anche una valenza estetica, che ha portato a ciò che conosciamo nella contemporaneità.

-Perché questo nome?

E’ una cosa che mi porto dietro dagli anni in cui ho iniziato, perché il cuore del Writing sappiamo che è la ricerca sulla forma delle lettere, cioè l’idea di creare un proprio alfabeto che è disegnato con dei dettami stilistici che rimandano alla nostra quotidianità, lettere dinamiche, veloci e taglienti e l’idea di avere un nome con la sua parte iniziale che richiamasse una lettera dell’alfabeto… a me sembrava la scelta migliore, la K è sempre stata una lettera che ho amato. Nell’Hip Hop poi c’era l’abitudine di aggiungere “one” dopo il nome, una sorta di segnaposto… io sono il primo con questo nome! Peccato però che quando è arrivato internet mi sono reso conto che la mia stessa scelta l’avevano fatta in America, in Francia, in Inghilterra, in Germania e di volta in volta scopri un nuovo KayOne in giro per il mondo, poco importa. La verità è che internet ha portato alla scoperta di qualcosa che era lontano e che non potevi conoscere perché per noi conoscere il nostro mondo era viaggiare, vedere e riportare a casa qualche scoperta, qualche foto, qualche cosa che potesse aiutarci nella nostra crescita.

-A Milano sei considerato un pioniere, com’era Milano in quegli anni quando hai cominciato? E cosa è cambiato rispetto ad allora?

Io non sono della primissima ondata, fai conto che la storia di Milano inizia nel 1984, io ho iniziato a fare le prime tag nel 1988… ricordo i ragazzi con cui ho fondato la mia prima crew, si chiamava MNP (Milano Napalm Posse) nel 1989. È cambiato tanto, nel senso che non c’era internet che invece ora è la base un po’ di tutto. Milano era ed è la città italiana che possiamo considerare più internazionale e più europea, quella che, in un certo senso, per prima incontra le tendenze che arrivano da altri continenti e non a caso è stata una delle prime città italiane che si è avvicinata all’Hip Hop e di conseguenza al Writing. Quando io ho iniziato eravamo una manciata di persone.

-Chi c’era con te?

I miei primi compagni di crew erano: Crase, Chief, Rush… poi se ne aggiunsero tanti altri. Eravamo il primo gruppo ad ovest di Milano, buona parte del fermento milanese nasceva in zona Loreto, Lambrate, addirittura a Cimiano. Noi eravamo la prima crew che nasceva in questa parte della città e questo in età giovanile ha creato una sorta di competizione.

-Li vedi ancora?

Si, ogni tanto ci s’incontra, ma ognuno poi ha fatto la propria vita, tutti consapevoli di aver creato una cosa bellissima in un momento importante e come ti ho detto in una zona della città che in quel momento non conosceva il Writing. Il bello di allora era anche l’idea del viaggio per vedere le opere altrui, noi prendevamo la metro e dovevamo arrivare dall’altra parte della città a cinque centimetri da un muro per assaporare il lavoro nuovo dell’altra persona e vederlo, non c’era il concetto dello sharing, adesso con i social hai tutto a disposizione di click. Le fanzine, che erano delle sorte di giornaletti fotocopiati, erano i nostri social… servivano per diffondere la cultura e far vedere i tuoi lavori. Io, per esempio, con Airone e Alberto di Wag, ho fondato la prima fanzine di Milano, che si chiamava Tribe Hip Hop Magazine, la prima fanzine italiana a essere andata realmente in stampa!

-Autoprodotta?

Autoprodotta, assolutamente! Cercavamo le pubblicità per coprire un po’ di costi però la grafica era ancora acerba, noi facevamo dei collage che poi portavamo in tipografia, li scansionavamo e mettevano insieme. Le prime edizioni erano delle fotocopie, addirittura ai tempi mettevamo in copertina, per essere dei grandi, la fotocopia a colori… costava un botto, poi usavamo i trasferibili sopra ai collage per scrivere il nome dell’artista. Questo era lo strumento che ci permetteva di far vedere il nostro lavoro e fare conoscere la cultura che amiamo.

-Che anni erano?

Saranno stati i primissimi anni 90, conta che io avevo 15 anni quando ho iniziato. Milano era quella città per cui non esisteva il Writing, per assurdo non c’era neanche una firma in giro e queste sono quelle cose che piano piano sono cresciute, ma la stessa gente quando vedeva la nostra firma che rimandava al mondo del Writing, cioè non una scritta politica, non la capiva, pensava che fosse una scritta araba di qualcuno perché non riusciva neanche a decifrare la calligrafia. Era tutto un creare un mondo che non c’era.

-Ma che ispirazioni avevi, come facevi ad avere dei riferimenti senza internet?

Io mi sono avvicinato al Writing quando ho comprato il libro ‘Subway Art’ alla libreria American Book, una libreria che c’era in centro a Milano che importava libri americani a Milano. Quel libro è una delle bibbie internazionali del Writing ed è dedicato a tutti i treni di New York fatti negli anni ’80. Frequentavo il primo anno di liceo artistico e da lì mi sono detto “questa roba qua è fantastica voglio farla anch’io” ma non sapevo cosa fosse, mi aveva colpito per la sua estetica, per la sua forza, per la sua energia, per il modus-operandi del farlo, però non c’era un manuale. Adesso vai su Google, cerchi “graffiti” e ti esce il mondo, ormai è tutto storicizzato, se inizi adesso non devi andare a cercare le informazioni, sono disponibili a tutti. Noi facevamo un viaggio all’estero e qualsiasi vedessimo, non come adesso con il telefonino, facevi la foto del lavoro in pellicola, la portavi a casa, la sviluppavi e facevi vedere ai tuoi amici… qualsiasi cosa si vedesse era una crescita per il tuo stile.

-Che maestri hai avuto? Quali sono stati i tuoi riferimenti all’interno di questa comunicazione?

Milano ha avuto la fortuna di ospitare tantissimi americani nel tempo. Non posso dire di aver avuto un maestro preciso, però oggettivamente sono stato influenzato da tutte le persone del periodo, ero una spugna, perciò qualsiasi cosa mi arrivava ed era nuova, per me era qualcosa che formava il mio stile e il mio percorso. Milano è sempre stata abbastanza legata alla cultura del Writing di stile newyorkese, poi un po’ tutti noi abbiamo creato una personale versione del Writing, poi in realtà in Europa si è diffuso uno stile un po’ più “semplice” che è diventato diffusissimo e per anni ha creato un divario all’interno della scena tra chi seguiva uno stile e chi un altro. Per noi era un istinto, un gioco serio prima di capire che invece era una forma di espressione di altissimo valore che richiedeva una maturità che in quegli anni non potevamo avere. In realtà è una cultura che ha influenzato anche il futuro della Street Art contemporanea e del Muralismo, se non ci fosse stato il Writing tutta questa ondata di espressioni successive non avrebbe avuto la stessa intensità. Ritengo che il Writing sia stato la rivoluzione mondiale artistica più importante della storia. Questo linguaggio è arrivato in tutti gli angoli del mondo; non c’è città ove non vi sia un’opera di Writing o una firma. Le altre correnti artistiche sono state importantissime ma non sono state così capillari, questo va riconosciuto. È un’espressione che ha saputo essere una rivoluzione culturale che ha raggiunto una valenza estetica ribaltando le idee che le persone potevano avere nei confronti dei ragazzi che inizialmente venivano ritenuti dei vandali.

-E i tuoi genitori come hanno accolto questo tuo percorso?

I miei genitori vedevano un ragazzo di 15 anni che usciva la sera con uno zaino pieno di spray e il loro pensiero era “occhio non vede, cuore non duole”, sapevano che avevo questa passione. Una cosa che riconoscerò sempre ai miei genitori è che sono stati fantastici nell’assecondare le mie scelte per quanto rischiose fossero, per fortuna non gli ho mai recato grossi guai, per cui sono stati costretti ad arrivare all’aut aut sul mio agire. Mio padre ha sempre lavorato nel mondo delle ceramiche, portava delle piastrelle molto grosse a casa, io le prendevo e le usavo per fare i miei primi quadri che sono nati usando queste piastrelle e gli avanzi di spray (ho delle fotografie in cui si vedono).

I miei genitori vedevano che nel mio gioco ero molto disciplinato, quando uscivo carico di spray, andavo davanti al mio muro trascorrendo tutto il giorno a dipingere. Poi è chiaro che il risultato era legato a quei tempi. Andavamo a dipingere qui in zona presso il Ponte Santa Rita, dove la gente andava a bucarsi, e anche in via Rosalba Carriera, dove ai tempi si trovava un parcheggio nascosto da una fabbrica abbandonata, una zona con una situazione di disagio.

La nostra presenza costante sul luogo ha, di fatto, debellato la problematica della gente che andava lì a bucarsi. Era un servizio sociale che avevamo fatto in maniera inconscia, semplicemente perché avevamo trovato quel punto abbandonato e non avremmo dato fastidio a nessuno, volevamo “costruire” e non distruggere.

-Quindi tu non sei della prima linea, della prima scuola, sei del secondo fronte.

Ci contavamo su due mani, c’è stata una prima ondata legata alla Break Dance, qualche writer, le primissime persone a frequentare il “muretto”. Io arrivo in un momento in cui c’era già questo punto di ritrovo a Milano, in Galleria dei Servi in pieno centro, ed era il punto dove ci incontravamo per condividere la nostra passione, io andavo lì e facevo vedere li mio nuovo disegno, tu mi facevi ascoltare il tuo nuovo rap… si rideva e scherzava.

-Chi c’era lì allora?

Le crew importanti di allora erano due e si chiamavano MCA (Milano City Artists), dove c’erano dentro Rendo, Play, Graffio, Kaos e Yassassin e l’altra PWD (Pals With Dreams) formata da Flycat, Mad Bob, Sky 4 e Mace. Tutte persone che in un certo senso hanno dato un primo imprinting alla città.

-E tu hai avuto rogne con la legge?

Per fortuna non ho avuto rogne, ho avuto solamente grandi calci in culo. In quel periodo non c’era la coscienza del Writing per cui non era percepito come un problema, ai tempi non lo capivano e la loro preoccupazione era se io stessi facendo qualcosa di politico. Superato questo scoglio dicevano “non si capisce niente”, “chissà cosa sta facendo questo”, anche loro per evitarsi tutto il percorso burocratico si limitavano a grandi calci per poi dire: “si è fatto tardi, vai a casa, se ti ribecchiamo di nuovo qui ti facciamo un mazzo così” o ti facevano tornare a pulire, però per fortuna, avendo vissuto il periodo nei primi anni, mi sono salvato da queste problematiche legali.

-E fai ancora muri?

Assolutamente, per forza, non potrei, mi è rimasto dentro. Una cosa che secondo me non abbandona mai un vero writer è, usando un termine da nostri figli, la “fotta”, cioè la voglia di fare qualcosa che sia di alto profilo. Io quando vedo i lavori degli altri, che sono delle bombe atomiche, ancora adesso mi dico “cavolo, devo tornare in strada e devo lasciare qualcosa”.

-L’ultimo che hai fatto?

L’ultimo risale a prima dell’estate.

-A caso oppure…?

No, io adesso, da buon pensionato del Writing, chiaramente cerco delle modalità comode per dipingere… non vado particolarmente lontano se non per occasioni particolari. Abbiamo quelli che noi in gergo tecnico chiamiamo Hall of Fame, che sono i muri dove possiamo dipingere e sono per assurdo gli stessi dove io ho iniziato. Posso dire che quei muri ormai li sto dipingendo da quarant’anni, vado lì, sono tranquillo, faccio il mio lavoro è la mia espressione, mi fa stare bene. Di solito adesso vado sempre con l’idea di voler lasciare quella cosa che arricchisca innanzitutto me stesso, è la storia del Writing… tutto nasce dall’ego personale dell’artista, che scrive il proprio nome per tutta la vita e se lo porta avanti.

-È una domanda che ti volevo fare, c’è qualche messaggio che vuoi esprimere nella tua arte?

La mia arte è stata semplicemente il riflesso del mio percorso. Il Writing non nasce come una forma di espressione con un messaggio esplicitato nelle opere, l’azione stessa era il messaggio, l’Hip Hop, era quel friggere sociale che si è riversato in qualcosa di grande. Fai conto che la prima ondata dell’Hip Hop aveva un sapore di “festa”, poi arrivano, soprattutto nel rap, gruppi che lo trasformarono in qualcosa di più politico, i Public Enemy, gli NWA a Los Angeles che lo fecero diventare più gangsta… tutto era nato con messaggi positivi, che era poi il momento che noi avevamo abbracciato e vissuto.

-Quindi nel fare i muri, nel fare questa arte non c’è politica?

C’è la politica ma è scritta dentro il codice, nel gesto di questi ragazzi, che si riappropriavano di uno spazio, di una cultura e di un’espressione. Era un gesto politico forte, che era anche in un certo senso di fratellanza e comunità, non c’è un messaggio che tu devi leggere.

-Lo schieramento destra sinistra si può incanalare in una ambivalenza artistica?

Se parliamo della scena americana, vicino alla cultura Hip Hop gravitavano la Zulu Nation e le Pantere Nere con i loro valori… teorie che rimandavano a un mondo più di sinistra. In Italia i centri sociali colsero in questa cultura la forza di un grande strumento di comunicazione e diedero ospitalità a queste forme di espressione, perciò, naturalmente, molte cose si svilupparono all’interno dei centri sociali. Tutta la prima ondata milanese però… me compreso, eravamo al di fuori di qualsiasi dinamica politica, anzi l’idea che l’Hip Hop venisse usato in ambito politico non ci piaceva proprio, volevamo rimanesse una cosa al di fuori degli schieramenti, soprattutto se strumentalizzati a livello politico.

-Tu, oggi, sei orientato più verso destra o sinistra?

C’è differenza? Io ho sempre guardato le persone e i loro pensieri, non gli schieramenti.

Tutti mi hanno sempre detto che sembro una persona abbastanza impostata.

-Conservatore, insomma.

Si, io sono aperto mentalmente perché tutta la mia vita l’ho passata in contesti come la strada, spazi aperti, dove c’era gente di tutte le estrazioni, però sono anche molto concreto e in un certo senso questa concretezza per molti è stata interpretata come essere una persona di destra. Se gli altri andavano a fare casino io ero quello che preferiva stare a casa a disegnare per avere il pezzo perfetto per andare al muro. Questa rigidità è stata interpretata come atteggiamento di una persona di destra. A me non piacciono gli eccessi, in nessun senso, poi adesso, dire se sei di destra o di sinistra, che valore ha? vorrei capire se esiste ancora una linea di distinzione.

-Hai votato Meloni?

No, io alle ultime votazioni non ho votato.

-Tu di che segno sei?

Ariete, 25 marzo, mi dicono ascendente Capricorno… cioè doppie corna, una cosa che rafforza probabilmente il mio essere di legno.

-Il passaggio dal muro alla carta e la tela com’è avvenuto? Dall’ufficializzare l’arte e farne un lavoro.

Come ti ho raccontato prima, per me è stato naturale, ma questo fa parte della storia del Writing. E’ un falso storico che il Writing sia solo quella cosa o meglio che i Writer abbiano fatto solo quello, tutti i writer americani o quasi tutti, almeno quelli più importanti, fin dall’inizio hanno trasportato quello che facevano nelle strade e nelle metropolitane su altre superfici; non a caso l’Italia, nel 1979, è stato il primo stato europeo che ha ospitato la prima mostra di due artisti, due writer americani, Lee George Quinones e Frederick Brathwaite alla Medusa Art Gallery a Roma nella mostra The Fabulous Five. Sono venuti qua con le loro tele che rappresentavano dei graffiti e non facendo dei graffiti sul muro.

Loro già vendevano le loro tele a New York, il gallerista romano, questo me l’ha raccontato FabFive, ha trovato dei volantini che pubblicizzavano il loro lavoro e ha instaurato un rapporto con loro a New York per poi organizzargli la mostra, la prima che l’Europa vedesse. Per assurdo, se vogliamo pensare alla storia italiana, il tutto è nato con quella mostra di Writing. Tieni presente che il Writing per loro era uno strumento di rivalsa sociale, l’idea era di fare arte senza fini commerciali ma semplicemente per esprimersi, senza avere limiti di media su cui farlo era il loro modo di agire… c’era la tela, il muro, il treno… loro hanno fatto così e alla stessa maniera ho fatto io. Quando ho iniziato e stavo uscendo dal liceo artistico, per me non c’era un confine, quello che facevo, mi piaceva farlo con gli spray su muro, ma anche i primi quadri astratti… li ho portati avanti in maniera parallela, due cose che si contaminavano a vicenda. Il Writing rimane un linguaggio stradale fatto su muri, treni e via dicendo, il resto era il riflesso di quel mio percorso.

Ti ricordi la prima opera venduta?

Non vorrei dire una cavolata ma la mia prima opera venduta…, che poi venduta… in maniera già un po’ concreta, forse è stata in occasione della mostra del PAC nel 2007.-

-Quella di Sgarbi e Alessandro Riva?

Esatto! Perciò non ero neanche tanto giovane ma lì posso dire di avere venduto veramente un’opera con i crismi di aver venduto un’opera.

Un collezionista nel 2007, che ha visto le mie opere, mi ha chiesto di realizzarne una e diciamo che in un certo senso da lì è partita la mia nuova quotidianità legata a questo mondo dell’arte “ufficiale”. Quella mostra con tutti i suoi pregi e difetti è stato un po’ uno spartitraffico, la scena artistica era già un fermento, c’era anche prima della mostra ma non in maniera così ufficiale… un premio che forse si può dare a quella mostra è che l’ha resa effettivamente sotto gli occhi di tutti, prima magari non aveva l’attenzione che meritava, per quanto ci fossero già i muri e il fenomeno all’interno della città fosse ben sviluppato.-

-Quante opere fai in un anno? Lo sai?

Io ho tutto il registro delle mie opere, ho l’archivio con tutto, da quando ho iniziato fino adesso. Entrando nel sistema arte “ufficiale” da galleria… è chiaro che ti declini a tutte le regole di questo mondo, fotografi l’opera, fai l’autentica, organizzi l’archivio e via dicendo… e questo chiaramente vale anche per la quantità di opere necessarie per sorreggere la richiesta di tuoi lavori.

-E in questo sei rigoroso, sei preciso?

Sono estremamente preciso anche perché abbiamo avuto per un periodo uno studio di grafiche perciò me la cavo abbastanza anche in quel senso. Fai conto che il libro che ho fatto sulla storia di Milano l’ho impaginato io, per intenderci, forse questa cosa di accuratezza mi è rimasta dentro da quando facevo Tribe, ai tempi i ruoli erano precisi, io mi occupavo della grafica, Francesco Airone era il giornalista e Alberto di Wag era l’uomo del marketing. Erano un po’ questi i tre ruoli e io me lo sono portato un po’ dietro, e quell’essere grafico mi ha agevolato un po’ in tutto quello che riguarda il mondo dell’arte.

-Riesci a vivere bene con questo lavoro?

Riesco a viverne e questo è un privilegio. Chiaramente sono anni difficili, il nostro collezionismo era prettamente di classe media… proprio quella parte di società che in questi anni ha visto erodere il suo potere d’acquisto.

-Nel senso di classe media?

Si, classe, perché poi è quella che è andata più in crisi in questo periodo, è stata un po’ spazzata via. Quando arrivi ad essere un artista ambito e battuto in asta a cifre da record è chiaro che vai a finire in un limbo dove non ci sono problemi. Diversamente, se sei ancora a metà del tuo percorso, questi sono anni dove le persone hanno dovuto tirare un po’ i remi in barca e l’arte probabilmente è passata in secondo piano. Io nel frattempo sono un po’ cresciuto, le quotazioni sono salite e la conseguenza è semplice… finisci in una fascia di prezzo non semplice per tutti. Parlandone anche con i miei amici e colleghi, purtroppo è un problema comune un po’ a tutti, in tanti ambiti. Per quanto ci raccontino sempre che l’arte salverà il mondo e l’anima, la verità è che poi le persone quando si trovano in difficoltà pensano alle cose primarie, appendersi un quadro nuovo alla parete non è certo una priorità. Perciò per rispondere alla tua domanda, riesco a vivere di questa mia passione infinita, ma non sono diventato ricco, se parliamo di ricchezza economica… sono ricco, perché nella vita sono riuscito a fare di questa mia passione la mia quotidianità.

– C’è un messaggio che vuoi trasmettere ai posteri con la tua arte?

Nei miei quadri ho cercato e cerco di riportare quello che è il mondo che mi ha illuminato a quindici anni… lo spirito dei Writing, quella forza, quell’energia, quell’immediatezza che avevano i graffiti. Voglio realizzare opere che si prendano il loro spazio, come un graffito per strada, non voglio che passi inosservato. Riprendo la frase che se non mi sbaglio era di Picasso: “un buon artista copia, un grande artista ruba”. Io ho cercato di cogliere lo spirito di tutti questi grandi artisti che ci hanno ispirato, cercando poi di renderlo mio e trovare un linguaggio che su tela diventasse personale, rubare alla strada i propri codici e restituirli in un piccolo frame. Quando le persone vedono le mie opere e dicono “ok, questa è un’opera di KayOne”, quella è la mia vittoria. Solo quello è già aver raggiunto un grande obiettivo, la riconoscibilità, è chiaro, siamo tutti figli di qualcuno… ma per un writer cosa c’è di più importante se non lasciare il proprio segno!

 

www.kayone.it

Commenta con Facebook