Ha inaugurato sabato 28 ottobre la mostra “The Kitbasher”, personale di Oscar Giaconia alla Fondazione Coppola di Vicenza, visibile fino al 21 gennaio 2024
Disposta attraverso i sei piani della torre, “The Kitbasher” presenta un numero cospicuo di opere – alcune provenienti dalla collezione di Antonio Coppola – e documenta quindici anni di lavoro di un pittore ormai maturo – anche se in Italia, con i suoi quarantacinque anni, Giaconia viene considerato ancora un giovane artista. Dotato di una straordinaria abilità tecnica, di una perizia rara e di uno sguardo potente e immaginoso, Giaconia è un artista versatile e disposto al rischio: «il “kitbashing” – puntualizza il foglio di sala – è un esercizio ludico di ricomposizione oggettuale, l’artista qui diventa soggetto del fare e del farsi a pezzi, dando alla mostra una valenza da manuale di distruzione». L’esposizione si presenta quindi come una sorta di attraversamento di tutto il suo lavoro e, come ogni attraversamento, consegna il corpus dell’opera a una sorta di smembramento, decostruzione, o distruzione, e ricollocazione in una nuova geografia: ogni attraversamento, ogni viaggio, porta con sé un nuovo racconto.
La sede della Fondazione, un suggestivo spazio ricavato nei livelli finali di una imponente torre difensiva delle mura tardomedievali della città, così diversa dagli sterilizzati “cubi bianchi” a cui ci ha abitualo la moda espositiva odierna, si presta in modo particolare ad accogliere le opere di questo pittore perfettamente contemporaneo che, a un primo sguardo e paradossalmente, sembra invece sospeso tra visioni futuristiche o suggestioni premoderne. Giaconia – nonostante l’iperrealismo delle sue opere – appare disattento al tempo presente, lontano dal documento, dal qui e ora del mondo reale.
Ovviamente non è così, ma andiamo con ordine: il repertorio visivo di Giaconia è davvero ampio e stratificato, le correlazioni tra un certo stile fantascientifico, fatto di mostri e prodigi (Alien!) e un immaginario medievale fatto di mostri e prodigi (Baltrušaitis!) sono in qualche misura obbligatorie ed entrambe queste direttici sembrano portarci fuori dal presente, in un tempo futuro o remoto che non è il nostro. Tuttavia, per chi scrive, il riferimento più utile e diretto per cominciare a circoscrivere l’opera di Giaconia è forse Max Ernst, specialmente quello dei romanzi Una settimana di bontà, narrazioni senza trama e composte solo di montaggi di immagini.
Se l’opera di Giaconia ha qualche eco con il surrealismo di Ernst non è solamente per alcune correlazioni nella formazione dell’immagine – collages, sovrapposizioni e metamorfosi, tecniche quasi alchemiche nel produrre i segni, specie nella stesura dei fondi e, insieme, un maniacale controllo del segno – ma per una intima aderenza a una dimensione narrativa che dobbiamo definire fantastica; una dimensione, è bene specificare, lontana dall’onirico indicato da Breton e lontanissima dalle bislacche messe in scena di Dalì. Il fantastico, contrariamente a quello che si pensa, non è la descrizione di un mondo di fantasia, disancorato dal nostro, tanto parallelo quanto impossibile, è, al contrario, un modo di dire il reale.
Per cercare di circoscrivere l’argomento dobbiamo utilizzare le parole di Roger Caillois – surrealista eretico ed erratico, non a caso – tra i primi a individuare con precisione la dimensione narrativa del fantastico, che non è il fiabesco, con il quale viene spesso confuso: «Il fiabesco – scrive Caillois – è un universo meraviglioso che si affianca al mondo reale senza sconvolgerlo e senza distruggerne la coerenza. Il fantastico invece rivela uno scandalo, una lacerazione, un’irruzione insolita, quasi insopportabile nel mondo reale» (Caillois, Dalla fiaba alla fantascienza).
Seguendo questo filo, possiamo dire che i quadri in mostra ci fanno precipitare in questa “lacerazione”, in questa “irruzione irrisolta”, in questo “scandalo del reale” che Giaconia è capace di vedere. Ed è una visione febbrile, a tratti allucinata e pertanto vivissima, una visione che produce un racconto spettacolare e travolgente, sebbene senza storia, cioè senza trama, senza svolgimento, composto solo di montaggi di immagini. Quello di Giaconia è un racconto fatto di apparizioni, di agnizioni, di accadimenti selvaggi; un racconto con un nucleo centrale ineludibile che pulsa e attrae come un magnete o, forse, come un’ossessione: mutazione, metamorfosi, trasformazione; volti che si strappano dai volti; arti che si dissolvono nell’aria; figure umane perse in se stesse o mascherate o distorte; morte, vita e ancora morte.
Dopotutto, l’intenzione narrativa sembra esplicita nel montaggio della mostra, a cominciare dai quadri in apertura (due bellissimi oli su carta intelaiata), stilisticamente sospesi tra dei fumetti underground e delle predelle di un altare perduto, due quadri composti da “vignette” o da “scene” che iniziano con immagini realistiche, quasi fotografiche – un paesaggio con un uomo in posa, sembra la foto di una serena vacanza, e un uomo alla scrivania, un interno di vita banale – ma tutto diventa immediatamente un viluppo di storie, di intrecci misteriosi, di inabissamenti, di trasformazioni, di mutazioni.
Il fantastico è, storicamente, una creazione dell’immaginario moderno, è il modo narrativo che la modernità si è data per comprendere e raccontare il tumulto lacerante, scandaloso e altrimenti inesprimibile del tempo. Oggi, in questo nostro presente precipitato in un caos perenne, travolto da crisi e mutazioni senza controllo, in cui il mondo sembra ormai indicibile perché irriconoscibile, il fantastico è più che mai il modo di dire il reale.
E, più ancora, dentro al reale ormai fuori controllo, sembra diventato impossibile raccontare e rappresentale l’umano, il soggetto che di questo reale dovrebbe essere, se non il protagonista, almeno il testimone. Ma Kafka è sempre sulla soglia a ricordarci qual è l’unico modo che abbiamo per dire l’umano: è una soglia inquietante, abissale e sconvolgente; lacerata, irrisolta, scandalosa; l’unico punto per guardare, riconoscere e nominare la violenza – e la rara bellezza – di un mondo troppo umano e sempre sull’orlo del precipizio. Oscar Giaconia dipinge sul limite di questa soglia.