Dal 17 novembre 2023 al 24 marzo 2024, Palazzo della Ragione a Bergamo dedica una mostra a Yayoi Kusama. In esposizione un’iconica Infinity Mirror Room, serie che condensa in sé la storia e la carriera di una delle artiste più popolari al mondo.
Yayoi Kusama (Matsumoto, Nagano, Japan, 1929) porta con sé pressoché tutto ciò che un museo del XXI secolo può desiderare: esperienze partecipative e impattanti, dilagante risonanza social e costanti sold out ad ogni mostra. A 94 anni l’artista giapponese, dopo una vita e una carriera travagliate, è ormai una certezza. Soprattutto quanto è in mostra con una delle Infinity Mirror Room, tra le sue più longeve e apprezzate serie. Come ben indicato dal titolo, si tratta di una stanza (ricavata provvisoriamente nello spazio museale grazie a una costruzione in ferro) interamente ricoperta da specchi, che moltiplicano all’infinito le luci e le forme che l’artista ha predisposto al suo interno. E ovviamente ridondano l’immagine del visitatore, che può visitarla individualmente per un minuto, a volte due, perdendosi in un universo colorato e avvolgente, evocativo e divertente, meditativo e intenso. Senza dimenticare, ovviamente, di scattarsi almeno un selfie. D’altronde, è innegabile: la natura fotogenica delle Infinity Mirror Room ha contribuito in maniera decisiva alla consacrazione di Kusama. Non è un caso, probabilmente, se l’artista ha raggiunto il successo globale solo in seguito alla nascita degli smartphone, cavalcando il trend dell’arte spettacolarizzata, condotta sulla soglia dell’intrattenimento, a volte fin troppo frivolo.
Ma, d’altro canto, è da sottolineare l’incredibile coerenza e tenacia che hanno contraddistinto Kusama, che fin dall’infanzia ha iniziato a disegnare forme ripetitive e puntini colorati, i quali sarebbero poi evoluti con costanza nel corso della sua vita in soluzione sempre più grandi e organiche. Non è mai scesa a compromessi, non è mai cambiata per compiacere il mercato o assecondare i critici. Anche perché, anche volendo, forse non avrebbe potuto. Quando Kusama aveva dieci anni, iniziò infatti a sperimentare vivide allucinazioni, “lampi di luce, aure o densi campi di punti”, che non l’avrebbero più lasciata. Trasformarle in arte è diventato per lei un atto terapeutico, di fuga. Se spesso dire che “per l’artista creare è una necessità” suona retorico, in questo caso appare invece molto credibile. Tanto che il suo personaggio, perlopiù percepito positivamente, è ormai divenuto un brand, tutt’uno con le sue creazioni. Una sorta di anziana zia eccentrica del mondo dell’arte, dallo sguardo perso e dolce, dall’arte pop e surrealista. Nelle sue creazioni ossessive traspare la leggerezza di un mondo colorato e gioioso, come anche il sinistro mistero tipico dei clown, la cui minaccia è celata dietro un sorriso indecifrabile. Allo stesso modo, è impossibile per lo spettatore comprendere appieno il tormento vissuto da Kusama – che dal 1977 vive volontariamente in un ospedale psichiatrico – ma rimaniamo in ugual modo stupefatti, sedotti, intrappolati nelle sue mitotiche fantasie. Ma non è sempre stato così.
Se nei primi anni ’50 ottiene un discreto successo in Giappone, quando nel 1957 compie il grande salto trasferendosi a New York, le cose non vanno per il verso giusto. Ottiene gli apprezzamenti e il supporto di alcuni grandi artisti del tempo – su tutti Donald Judd, Andy Warhol e Georgia O’Keeffe – ma nessuna grande galleria le dà fiducia. Anche i tentativi che fa in Europa, compresa l’Italia, alla Galleria d’arte il Naviglio a Milano, non vanno a buon fine. Nel 1965, alla galleria Castellane Kusama presenta la prima Infinity Mirror Room: ha un prezzo di 5 mila dollari, la metà per i musei, ma va invenduta. La sua partecipazione (non ufficiale) alla Biennale di Venezia del 1966, favorita da Lucio Fontana, non sortisce effetto. Nel 1974 – sconfitta, disperata, malata – fa ritorno in Giappone. Inizia a sottoporsi costamente alle terapie, continua a fare arte. Per l’opinione pubblica è l’artista un po’ folle, che è stata negli Stati Uniti e fa delle opere bizzarre. Nel 1982 la Fuji Television Gallery, gestita da una delle principali reti del paese, allestisce una mostra del lavoro di Kusama e la promuove con uno show televisivo. Anche se in modo non convenzionale, anche se non come l’aveva immaginato, il successo arriva. Non a caso attraverso la mediazione di uno schermo.
Sempre più gallerie giapponesi vogliono collaborare con lei, nel 1987 ottiene una retrospettiva museale a Tokyo. In questa occasione viene notata dal critico d’arte Akira Tatehata, che sei anni dopo curerà il Padiglione del Giappone alla Biennale di Venezia. E chi chiama? Yayoi Kusama. I dipinti, i video, le performance, le sculture. L’arte di Kusama inizia a diffondersi come i suoi pois. Nel 1998 si consacra, grazie a Mirror Room (Pumpkin), con una retrospettiva negli Stati Uniti. Grazie al lavoro manageriale di Hidenori Ota, che lavorò con Kusama alla Fuji TV Gallery e poi nella sua Ota Fine Arts, l’artista (sempre dall’ospedale) inizia a produrre opere per Victoria Miro a Londra e David Zwirner a New York. Nel 2006 inizia a rappresentarla Gagosian. Finalmente le grandi gallerie. Mentre le mostre nei grandi musei si susseguono – Tate, Pompidou, Reina Sofía, the Whitney – la collaborazione con Louis Vuitton la conduce definitivamente al grande pubblico. La diffusione degli smartphone è un vento caldo che soffia su un incendio.
Nel 2013 lascia Gagosian per David Zwirner, dove ogni volta che in mostra c’è un’Infinity Mirror Room la coda di visitatori si moltiplica come farebbe all’interno dell’opera. A moltiplicarsi, negli anni, è stato ovviamente anche il suo valore sul mercato. Ora una stanza costa più di un milione e mezzo di dollari, in asta il record è di 3 milioni (My Heart is Flying to the Universe, da Sotheby’s Hong kong nel 2023). Negli ultimi 10 anni le installazioni sono diventate per i musei ciò che i panda sono per gli zoo: rari, costosi, irresistibili per il pubblico. Nel 2018 l’Art Gallery of Ontario ha speso 2 milioni di dollari per acquisirne una, sfruttando una campagna crowdfunding tra i sostenitori che ha coperto il 40% delle spese. Almeno venti musei sono riusciti, per ora, a metterne una nella loro collezione, tra cui la Tate Modern di Londra, l’M+ Museum di Hong Kong, il Louisiana Museum of Modern Art di Humlebæk (Danimarca), il The Broad di Los Angeles e il Guggenheim Bilbao. Si tratta per lo più di istituzioni americane e asiatiche, mentre in Europa le troviamo sostanzialmente solo nei musei sopracitati. In Italia, ad esempio, finora nemmeno le si sono viste in prestito.
Per tutte queste ragioni la mostra di Bergamo, che porta in scena a Palazzo della Ragione Fireflies on the Water, una delle Infinity Mirror Room più iconiche di Kusama, assume un’importanza capitale. L’impegno del curatore Stefano Raimondi, da un anno alle prese con il Whitney Museum of American Art di New York per il difficile prestito dell’opera, aggiunge l’Italia nella particolarissima geografia della Kusamamania, ponendola dunque nella conversazione dell’arte contemporanea più chiacchierata. Quanto all’opera, essa consiste in un ambiente buio, le cui pareti sono rivestite di specchi; al centro, si trova una pozza d’acqua, che trasmette un senso di quiete, in cui sporge una piattaforma panoramica simile a un molo e 150 piccole luci appese al soffitto che, come suggerisce il titolo, sembrano lucciole. Gli elementi creano un effetto abbagliante di luce diretta e riflessa, emanata sia dagli specchi che dalla superficie dell’acqua. Lo spazio appare infinito, senza cima né fondo, inizio né fine.
Fireflies on the Water, come tutte le opere di Kusama, incarna un approccio quasi allucinatorio alla realtà, strettamente legato alla mitologia personale dell’artista. Kusama riproduce infatti elementi tratti dalla quotidianità – scale, poltrone, vestiti, borse, zucche, pavimenti o, appunto, stanze – e li avvolge col suo manto lisergico, ripetitivo e totalizzante. É come si trattasse di una patina, un velo protettivo con cui Kusama decora la realtà per renderla digeribile ai suoi sensi, assimilabile dallo spirito. Non a caso le opere, pur composte da elementi del tutto concreti, assumono titoli emozionali e inerenti alla sfera filosofica, con termini ricorrenti quali amore, spirito, anima, eternità, bagliore, vita.
Tutta la Kusamamania, a pensarci bene, assume tratti assurdi: l’espressione intima di un disagio, la manifestazione estetica di un mondo interiore è divenuta per il pubblico un’occasione ludica, da vivere con la trepidazione di un bimbo al luna park e la necessità di immortalarla prima che sfugga in un attimo come tutti i pomeriggi più belli. Un apparente cortocircuito, quasi tendenzioso. Ma poi, a pensarci ancora meglio, forse questa sovraesposizione è esattamente ciò che Kusama ricercava. Un canale e un linguaggio con cui connettersi al mondo, una finestra per gli altri sulla sua psiche ingarbugliata, un punto di contatto reale con il prossimo. Mille emanazioni di lei vivono e si moltiplicano per il mondo, come pois impazziti o scatti sui telefoni, condivise sui social o esposte nei musei, mentre Kusama rimane isolata nella malattia, tra le pareti di un ospedale, in una condizione che veramente solo lei conosce.
Io, Kusama, sono la moderna Alice nel paese delle meraviglie. Come Alice che attraversa lo specchio, io, Kusama (ho vissuto per anni nella mia famosa stanza costruita interamente ricoperta di specchi) ho aperto un mondo di fantasia e libertà. Anche tu puoi unirti alla mia avventurosa danza della vita.
Yayoi Kusama, durante l’happening di The Anatomic Explosion, 1968