Il buongiorno dell’arte è un caffè con la Moka. Senza zucchero.
Una volta mi trovai in una zattera di fortuna. Mi resi conto che ero seduto sul pavimento della mia vita. Quando tutto ti scivola addosso, intorno a te le grida si mescolano allo stupore. Come si riconosce la rassegnazione? Il mio non è più un sentimento ambivalente. Questo è il mio atteggiamento verso la vita, e non comprendo più in quale mare io sia finito. Nella profondità l’abisso scopre la sua vera natura. Chi sono, per voi? Con una fascia al braccio, barba incolta. Sguardo noncurante, non indietro non avanti. Fidatevi, non serve una benda per nascondersi dalla realtà. La mia posa è un abito classico. La rassegnazione è un’idea di sconfitta? La mancata capacità di accogliere un evento negativo significa accettare l’impossibilità di realizzare una perdita? A volte non cedere ad un evento ci fissa in una condizione che peggiora via via. Ho raggiunto il punto massimo di rassegnazione, smetto di oppormi, smetto di combattere e non sfido nessun vento. Sono il rassegnato, una Medusa inerme, spiaggiata, che attende che il primo secchiello mi chiuda, giustiziata.
Ci arenammo negli spettacolari scenari della costa della Mauritania, tra le secche del Banc d’Arguin. Provammo e ancora provammo. Lo spavento camminava cieco tra le quattrocento persone a bordo. Fallimmo ogni tentativo di disincagliarla. Fu chiaro a chiunque che le scialuppe non sarebbero state sufficienti per tutti. Più della metà salirono su di esse: il comandante, gli alti ufficiali, notabili con famiglie e tutti i bagagli. Non c’è da avvilirsi, mi dissi. L’opzione della vita è anche una questione di potere. Chi deve pensare a vivere e chi, invece,deve poter vivere. Io, ancora di buone speranze, tra marinai e militari, salimmo su una zattera di fortuna di venti metri per sette, realizzata, veloce come un formicaio allarmato senza regina, con alcune travi della nave. La zattera avrebbe dovuto essere trainata da una delle scialuppe fino alla costa africana. Navigammo qualche metro. Ci allontanammo dal ricordo di una grande nave. Incontrai lo sguardo di un ufficiale, a metri di distanza. Stava discutendo con un signore. Senza più un bottone sul giaccone. Secco e cinico fu il taglio. Furono recise le funi. Fummo abbandonati in questo modo alla nostra deriva. L’oceano ci accolse a braccia aperte. La tempesta ancora dormiva.
Non parlate adesso di mancanza di rispetto e sopravvivenza. La zattera si trasformò nel peggior canto dell’Inferno: la fame, la sete, le violenze e i suicidi segnarono ben presto le nostre ore. I morti erano un peso eccessivo. Inclinavano pericolosamente la zattera, e tutti volevano conquistarsi un posto più sicuro al centro. Bevemmo acqua salata, mangiammo senza avidità la carne umana. Non esiste un orizzonte nella disperazione. Nemmeno voi vi accorgete di una nave giungere da lontano. È lì in alto in fondo a destra. Potete gridare a squarciagola, spremete le corde vocali e fatevi sentire. Guardatemi. Provate, non demordete, continuate ad urlarmi che c’è sempre una speranza. Anche in una situazione di disumana mattanza. Perché per tutti, per tutte le anime tormentate del mondo, tutte quante cerchiamo, in ogni modo, di tornare verso casa.