La grande mostra visibile fino al 28 gennaio al Muzeul National de Arta di Timisoara fornisce all’artista e saggista Roberto Floreani lo spunto per una riflessione sul grande Constantin Brȃncuşi
L’organizzazione di eventi importanti in aree fino ad oggi dimenticate, o, ancor peggio, saccheggiate nel corso dei decenni, è uno dei – non molti – benefici della globalizzazione. Così è la grande mostra al Muzeul National de Arta di Timisoara, in Romania, dedicata al fenomenale scultore-sciamano rumeno Constantin Brȃncuşi (1876-1957). Fino ad oggi monopolizzato solo dal mondo che conta, soprattutto da Parigi, sua città d’adozione artistica. Brâncuşi richiede quasi sempre una citazione a parte, ben oltre la ricerca plastica del XX° secolo, in una sorta di area-aura protetta, di fatto irraggiungibile. Dove il progetto ambisce all’assoluto, all’irripetibile, dove il confronto con gli altri scultori si rivela azzardato, incompleto, spesso forzato.
Brȃncuşi, il solitario, è figlio umile della sua terra, nato a Hobitza, in un villaggio rurale sperduto dell’Oltenia, nella Romania centrale. Origine di cui mantiene la semplicità, la durezza, la visionarietà, tanto da intraprendere nel 1904 il suo viaggio verso Parigi, capitale mondiale dell’arte, sacco in spalla, a piedi. L’attraversamento lento e immaginifico dell’Ungheria, dell’Austria, della Germania, rivela la profonda dimensione interiore dell’artista, il suo confrontarsi con il tempo in modo altro, considerando il viaggio come un pellegrinaggio. Così sarà il suo approccio ai materiali grezzi: marmo, bronzo, legno, gesso. La sua ricerca metodica, centrata sugli opposti, nella costante ricerca della perfezione, del punto zero oltre il quale non c’è più nulla da togliere. E la forma mira all’assoluto, all’irripetibile, all’irrinunciabile.
Un racconto primario
Le sue forme privilegiate avranno la rotondità ovoidale dei primordi e, allo stesso tempo, del prossimo venturo: volumi precipitati dallo spazio, dall’oscura profondità dei cieli. Brâncuşi sarà alla costante ricerca della verità nell’opera e il suo ideale artistico sarà semplice, essenziale, votato ad un racconto primario, senza fronzoli. Senza ulteriori spiegazioni se non quelle che scaturiscono dalla forma intesa nel suo valore più alto, cioè quando ambisce a raccogliere l’essenza ultima di ciò che rappresenta. La sua purezza formale e introspettiva raccoglie tutte le istanze della fase eroica dell’Astrattismo, anche se lo stesso artista ne capovolgerà la definizione stessa, stigmatizzandola: “Quelli che definiscono il mio lavoro astratto sono degli imbecilli. Ciò che chiamano astratto è in realtà la cosa più realistica, perché ciò che è reale non è l’esterno ma l’idea, l’essenza delle cose”.
Un altro artista, l’ennesimo, che forgia la propria consistenza concettuale affrontandone le insidie, decodificandone ogni possibile supposizione critica, ogni velleitaria lettura dall’esterno. Per forza di cose spesso inadeguata, forzata, distante dalle sue stesse intenzioni. Ma nella realtà ultima quello di Brȃncuşi è un pensiero astratto, rivolto all’impalpabilità dello spirito dell’Asia, guardando quindi ad Occidente per le occasioni ma ad Oriente per le intenzioni, sprofondandosi nel misticismo indiano e nel confucianesimo cinese. Che lo porterà a dividere le serate parigine con Marcel Duchamp e con un giovane e visionario Eza Pound, rapito dal significato ulteriore dell’ideogramma.
Oltre il materialismo
Come Steiner con il suo Goetheanum, anche Brâncuşi, illuminato da un viaggio in India dal ’33 al ’37, progetterà un tempio a forma di uovo. E, pur non realizzandolo, subirà la folgorazione del veggente e monaco tibetano Milarepa, fondendo magicamente culture differenti. Dove il materiale della terra e l’impalpabile dell’aria si combinano consegnandoci forme e significati oltre l’uomo, fuori dal tempo e dallo spazio. La conoscenza anche a distanza di Brȃncuşi non può che rivelarsi salvifica, il suo procedere sfidando il reale una guida oltre il materialismo. Dove i messaggi dei giganti di quegli anni – Steiner, Hilma af Klint, Gurdjieff, Uspenskij, Milarepa, Boccioni, Malević – ci sussurrano la strada, vibrando all’unisono.