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From LA to Rome. Il gallerista François Ghebaly porta 11 artisti in mostra alla Rhinoceros gallery

Mike Kuchar, Fresh Air, 2022, pencil, pen, felt pens, ink on paper
Undici artisti internazionali arrivano alla Rhinoceros gallery di Roma – diretta da Alessia Caruso Fendi e progettata da Jean Nouvel – per la mostra DRAWN-OUT, realizzata in collaborazione con la galleria François Ghebaly di Los Angeles. Dall’1 dicembre 2023 al 10 febbraio 2024.

Tutta Roma si fregia dell’epiteto di città eterna, ma solo un luogo può vantare di essere la culla di questa civiltà. La leggenda racconta infatti che Romolo e Remo, abbandonati lungo il Tevere, approdarono vicino all’Arco di Giano, nella zona del Velabro, tra il Campidoglio e il Palatino, dove furono adottati dalla lupa. Da lì ebbe inizio la loro vicenda, che è alla base della storia di Roma e di buona parte dell’Occidente.

Ora, in questo luogo ancora imbevuto di fascino, sorge Rhinoceros, sede di Fondazione Alda Fendi. Proprio accanto all’Arco, in quelle che erano case popolari, l’architetto Jean Nouvel ha ricavato uno spazio polifunzionale. Una galleria al piano terra e cinque piani che fungono anch’essi da spazio espositivo, disseminati di appartamenti dove è possibile soggiornare, caratterizzati da ambienti ibridi tra ciò che era – muri grezzi, mattonelle anni Settanta – e ciò che racconta il modernismo – porte scorrevoli, mobili in acciaio, linee essenziali. Lusso contemporaneo che veste uno scheletro antico. Al suo apice si trova una terrazza, completa di bar e ristorante, ma soprattutto di una vista mozzafiato sui Fori Imperiali, sui colli che hanno dato vita al mondo come lo conosciamo.

É qui che incontro François Ghebaly, seduto a un tavolo mentre sorseggia un caffè, che nella tazzina si agita appena al soffio del primo vento dicembrino. É cresciuto tra la Francia e la Svizzera, dove i genitori lo immaginavano avvocato come loro, ma lui per inseguire la strada dell’arte nel 2008 si è trasferito a Los Angeles. Qui ha aperto il suo primo spazio a Downtown, seguito da un altro a West Hollywood. Due anni fa la galleria si è espansa a New York. Nel mezzo un successo lampo, che ha nutrito e si è nutrito dei giovani artisti scoperti e lanciati da Ghebaly, con un approccio rischioso basato sulla scommessa e sulla valorizzazione. Molti di loro, oggi, sono figure importanti nel panorama internazionale.

Un’audacia in sintonia con quella di Fondazione Alda Fendi, che l’ha scelto per avviare il nuovo corso di Rhinoceros, incentrato sulla collaborazione con importanti gallerie internazionali, chiamate a organizzare importanti pop up exhibition che ne raccontino l’identità. Un primo episodio della collaborazione c’è stato in primavera, quando Ghebaly aveva esposto in galleria una collettiva con Neïl Beloufa, Max Hooper Schneider, Em Rooney e Ludovic Nkoth. Ora è tornato a Roma per il secondo atto, una mostra incentrata sul disegno che unisce ben undici dei suoi artisti: Mariem Bennani, Sascha Braunig, Sharif Farrag, Patricia Iglesias Peco, Mike Kuchar, Ann Leda Shapiro, Sayre Gomez, Jessie Makinson, Danielle Orchard, Max Hooper Schneider e Ross Simonini.

Mike Kuchar, Fresh Air, 2022, pencil, pen, felt pens, ink on paper

Da Los Angeles a Roma. C’è un filo rosso che lega il percorso della François Ghebaly Gallery?

Come per ogni imprenditore, molti passaggi sono stati frutto di occasioni e opportunità. Ma poi c’è anche un discorso legato a un’evoluzione sentimentale che intreccia la mia storia personale, le mie passioni e i miei interessi. Tutto è iniziato a Los Angeles, una città speciale, che ha dato i natali all’industria del cinema e l’ha poi influenzata. Già questo, per esempio, è un interessante parallelismo con Roma, anche se poi differiscono: LA è una città modernissima, mentre Roma è la culla del classicismo. In comune hanno la capacità di generare narrazioni e immaginari, e poi di riuscire a raccontarli.

In primavera, c’è stata una prima mostra.

La prima mostra era una collettiva di vari artisti particolarmente rappresentativi della Galleria. Tra questi Neïl Beloufa, uno dei primi autori con cui ho collaborato, che lavora con dipinti, sculture e altri medium per riflettere sui metodi di produzione e distribuzione della cultura. Sulle narrazioni dominanti, insomma. E poi Max Hooper Schneider, che riflette sulla relazione tra uomo e natura da una prospettiva ibrida tra scienza e arte, essendo lui biologo marino. Ma anche Ludovic Nkoth, che con i suoi dipinti racconta la questione migratoria, essendo lui emigrato dal Camerun. Un punto di vista, questo, che ci interessa molto come Galleria. Del resto, io stesso mi sono spostato dall’Europa agli Stati Uniti.

E ora una seconda.

L’idea era di fare due esposizioni che raccontassero tanti degli artisti che la galleria ha promosso e continua a promuovere. Questa seconda è più leggera della precedente, ma allo stesso tempo stimola la riflessione attorno ad alcuni temi trattati, soprattutto il corpo e la natura, la politica e questione ambientale. In più volevamo proporre qualcosa di nuovo, internazionale, anche d’ispirazione per il pubblico romano. Il punto di vista è quello queer e femminista, di cui mi piace il contrasto con l’anima classica di Roma, che pure negli anni ha ospitato anche molti artisti contemporanei ed è pronta per la novità.

Non la preoccupa la distanza dall’arte classica?

Niente affatto. In fondo anche l’arte classica se guardata da vicino presenta degli aspetti bizzarri, eccentrici, che forse l’arte contemporanea ha poi portato all’estremo. Credo che la mostra sia accessibile e sfidante al punto giusto. Prendiamo per esempio Mike Kuchar, la cui arte si mette in relazione con i corpi perfetti della classicità, di cui Roma è piena, ma in modo ironico e provocatorio. In fondo di questo tema si tratta: capire come il corpo, a secondo delle epoche e della sensibilità, assume significati differenti.

Che ruolo assume, invece, l’esposizione nel percorso artistico della galleria?

La galleria solitamente non ci concentra su un solo medium, spazia trasversalmente in tutte le forme dell’arte contemporanea, ma questa volta abbiamo colto l’occasione per concentrarci su un suo aspetto specifico: il disegno. É una mostra pop up, itinerante, che ha un carattere introduttivo, vuole aprire il discorso su artisti e mostre che terremo in altre location, creare una conversazione organica che spero di portare avanti a Roma come negli Stati Uniti.

Il disegno è un medium troppo spesso sottovalutato.

Mi piace molto il disegno, mi trasmette una sensazione speciale, quasi d’intimità con l’opera e il suo autore. La carta è un mezzo diretto, dove imprimere all’istante un’idea prima che voli via. I disegni rivelano la struttura interna, il processo creativo di un artista.

Sayre Gomez, Untitled, 2023, ink and screentone on cold press watercolor paper

Ci può fare qualche esempio dalle opere in mostra?

Sayre Gomez è conosciuto per i dipinti e le sculture con cui indaga i paesaggi americani, soprattutto urbani, cercando di immaginarne la deriva ultra-capitalistica e apocalittica. Nel disegno in mostra vediamo in piccolo quello che è il suo tema prediletto, ma anche gli elementi e la prospettiva compositiva che più spesso utilizza: una macchina abbandonata in primo piano e lo skyline cittadino che si perde sullo sfondo.

Disegno come punto di partenza, campo di sperimentazione. Ma a volte anche punto d’arrivo.

Esattamente. Sascha Braunig ci mostra proprio la soluzione inversa, con il disegno che segue la ricerca plastica e scultorea. Nelle sue opere elementi inorganici, come corde o forme geometriche, sono accostate in modo da formare figure umane. Prima di disegnarle, con questo stile ibrido tra iperrealismo e illustrazione, le assembla concretamente, combinando gli oggetti che poi trasporta sul piano bidimensionale.

Oppure occasione di inaspettati intrecci.

Come per Sharif Farrag, il cui medium prediletto è la ceramica, a ogni sua opera nasce da un disegno fatto su papiro, che richiama le sue origini egiziane. Riscontra una manualità simile tra i due metodi espressivi, accomunati dall’intuizione, da un risultato immediatamente apprezzabile, anche se poi può essere sistemato. Sono medium che accettano l’errore, e sono immediati. E poi anche la ceramica ha la doppia valenza di opera d’arte in sé e di studio preparatorio. I pastelli ad olio di Danielle Orchard, invece, in parte riproducono l’effetto pittorico e si avvicinano quindi ai dipinti. Nelle sue opere è evidente lo sguardo femminile sul nudo di donna, una prospettiva diversa e forse più genuina di quelle a cui siamo abituati. Usando un linguaggio cinematografico, i disegni di Jessie Makinson si configurano come dei piccoli spin off: porzioni dei grandi dipinti che realizza, affollati di persone, di relazioni, di dinamiche e azioni. Qui invece i personaggi sono come estrapolati, isolati, ci si può concentrare su di loro e sulle specifiche azioni che compiono. Infine, Ross Simonini, che insegna anche a UCLA, imposta le sue opere come delle sfide, dove impone a lui o ai suoi studenti delle sfide prima di disegnare – come non dormire per due notti, digiunare, lavorare con i piedi – in modo da aggiungere una dimensione performativa al disegno.

Nella sua carriera da gallerista ci ha abituato a scoprire e lanciare nuovi talenti. Qualcuno degli artisti in mostra è atteso da importanti eventi?

A Ross Simonini e Sharif Farrag dedicheremo delle mostre personali nelle nostre sedi il prossimo anno. Sayre Gomez è stato in mostra alla Fondazione Sandretto Re Rabaudengo nel 2022, mentre l’anno prossimo sarà protagonista da Xavier Hufkens a Bruxelles. Mariem Bennani, artista di origine marocchina ma di stanza a NY che lavora con l’animazione, nel 2024 sarà protagonista di una mostra da Fondazione Prada, a Milano, che le ha commissionato un’opera per l’occasione.

Danielle Orchard, After Beckmann, 2023, oil pastel on paper
Max Hooper Schneider, Anemone Textile, 2008, pen and marker on paper
Sascha Braunig, 1st study for “Fountain”, 2020, acryla-gouache on paper
Sharif Farrag, Visionary Crotch, 2023, solid marker, color pensil on papyrus

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