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Il Sole allo Zenit #16: Pitagora non mangiava le fave

Charles Ray, Plank Piece (detail), 1973, B/w print on paper
Il sole allo zenit fa il bilancio del 2023, dedicando un pensiero, talvolta dolce, altre volte al vetriolo, ad ogni “carattere” che compone la grande commedia dell’arte. Buona lettura, e buon divertimento!

Voi non sapete quanto io aspetti le vacanze di Natale. Non tanto per le capanne in legno che servono vin brulé all’angolo, le castagne scaldate nel vicolo o le vetrine dei negozi che sembrano presepi, quanto per la sospirata chiusura della galleria e il ritorno momentaneo all’amata quiete. E allora trovo finalmente il tempo di far visita all’unica mia nonna rimasta che mi chiede “come va il negozio” e smetto di cercare un leone imbalsamato pacifico (generalmente i leoni imbalsamati sono in atteggiamenti d’attacco, lo sapevate?) per conto di un artista che chissà se mai manderà il suo progetto di mostra. Quando ormai l’esposizione più complessa dell’anno dal punto di vista allestitivo e le sue esigenze tecnologiche che non sapevo come gestire sono ormai trascorse e hanno causato solo una breve interruzione nel funzionamento del cancello d’ingresso che l’amministratore dello stabile non ha associato per fortuna alla nostra improvvisata sede. E se proprio ve lo devo dire sono contento di non aver più niente a che fare con quella collega emiliana che una malaugurata sera mi ha presentato un commerciante arabo d’oro e diamanti che avrebbe dovuto comprare quadri, in particolare opere costose che io gli avrei dovuto suggerire. C’erano anche il marito, medico chirurgo, e un’amica sgarruppata rifatta in toto. L’arabo arrivò con tre quarti d’ora di ritardo e sostenne di aver subito il furto della borsa con il cellulare all’interno, il passaporto e un po’ di contante estero. E diceva di voler comprare capolavori senza sconto che pagava dal Lichtenstein e da un altro posto che non ricordo. Ma quella sera si bevve alla goccia quattro o cinque amari e, sbiascicando senza sosta, disse di voler avere girls and fun e mi chiese di accompagnarlo in qualche party notturno. E così ho finto di uscire dal locale per telefonare e me la sono squagliata all’inglese, dopo aver pagato da bere. A parlar franco sono però dispiaciuto di non aver più sentito quel dentista che voleva un lavoro di un nostro artista ad ogni costo e che mi aveva chiesto lo sconto, un ribassamento e il pagamento dilazionato a babbo morto. Dopo aver ceduto a tutte le sue richieste, per sfinimento ovviamente, è poi sparito per sempre, ma adesso vorrei sentirlo, un’altra volta soltanto, per raccontargli che il quadro se n’è andato altrove e che è stato pagato a un prezzo migliore. Quindi grazie davvero caro amico, ovunque tu sia finito.

El Greco, San Pietro in Lacrime, 1605, Olio su tela

Peccato invece per tutto quello che mi è costato il viaggio sul taxi acqueo dal parcheggio delle auto di Piazzale Roma a Venezia‬, andata e ritorno, fino alla splendida villa di quel signore indeciso che mi aveva già confermato due opere ma preferiva vedere tutto allestito. E così io avevo obbedito, come Garibaldi al Generale, montando a puntino le nuove opere selezionate in quel contesto lagunare, lussuoso e elegante, pronto a ospitarle. “La ringrazio ma non mi convince il dialogo con gli altri elementi d’arredo”, mi sentii riferire, prima di ingoiare il rospo e alzare gli occhi al creatore. Ostrica felice del resto non fa perle, mi provo a dire.
Peccato anche per Stendhal e la sua sindrome, che quest’anno ho finalmente capito non esistere. In visita alla bellissima mostra di El Greco a Palazzo Reale, una signora non più di primo pelo, imbellettata e solare, è rimasta incantata e si è quasi lasciata cadere di fronte alle figure allungate e ai gesti eloquenti della Sacra Famiglia del maestro cretese. Capolavoro della sua produzione, unica vera versione in cui la Madonna allatta il pargolo in un’immagine considerata inappropriata e indecorosa dalla pedagogia bacchettona della Controriforma. E capisco la sua composizione perfetta e i colori che le girano attorno, come cita la didascalia nel dettaglio, e la sua intima delicatezza, ma sarai mai possibile lasciarsi andare come una pera cotta? Lei lo credeva e io pure, finché il marito non mi ha sussurrato che era dal pranzo della domenica precedente che la moglie aveva problemi di pressione. E addio Stendhal, e la sua invenzione. Lasciamo poi perdere altre tre persone – l’ingegnere, il cuoco e il venditore di malaffare – che starebbero bene in un film di Peter Greenaway e che mi hanno rispettivamente dato sfratto, buca e non pagato una grossa fattura. Andrebbero tutti cacciati dal tempio, come i mercanti in certi dipinti. Mentre gioite pure con me per non essere stati ancora scoperti da quell’industriale che pagò un’opera importante su richiesta insistita della sua terza moglie. Lei, ammiccante e generosa, pareva pure mansueta ma non sembrava aver per l’arte poi grande passione. Sceglieva in base alla tinta del divano e a quella della sottana, seguendo gli umori delle amiche consulenti che ricevevano via whatsapp le immagini in anteprima della possibile scelta definitiva. E nonostante fosse facoltosa e si vantasse di tutto quel che possedeva, lottò a spada tratta come un saraceno indiavolato per l’ultimissimo prezzo assoluto. A trattativa conclusa arrivò però la sorpresa: mi chiese di emettere fattura al marito per l’asking price completo, come se non avesse negoziato, e a lei sarebbe stata poi restituita la parte in eccedenza con fattura di consulenza da pagare a un’altra banca. Povero sventurato signore, che oltre a sborsare cifra piena per qualcosa che manco voleva (e che lei si intestò con avida sagacia) finì pure col pagare fior fior di commissione alla sua stessa sposa fedele. E io, d’altronde, cosa ci posso fare? Ma non lamentiamoci noi del “primo mercato”, che i diversi amici-colleghi che trattano nel “secondo” mi raccontano ben di peggio. Come la storia della nobile vedova di fortuna decaduta convinta di possedere un Picasso in Sicilia, ignara della sua tragedia. Il marito infatti aveva già venduto il vero quadro, facendosi fare una copia senza dirlo, e solo al momento della cessione la Signora scoprì di possedere una crosta senza valore.

Giuseppe Capogrossi, Superficie 154, 1956, Olio su tela, 80×100 cm

O la vicenda di quel quadro di Capogrossi pubblicato sul catalogo generale, del quale l’autentica sembrava introvabile. E in effetti l’opera era solo una copia meticolosa, seppur con qualche impercettibile sbavatura. E come potrei dimenticare il presunto omaggio al quadrato di Joseph Albers che aveva i bordi clamorosamente dritti seppure l’autore li dipingesse a tratti imperfetti. Qualcosa sembrava proprio non tornare, nonostante il proprietario sostenesse che l’opera stava per essere archiviata e mostrasse a sostegno della sua teoria varie email inviate alla Fondazione omettendo però le risposte ricevute. E a proposito di Albers: un giorno a un collega è stato mostrato un lavoro pubblicato su un catalogo di Christie’s, asta ovviamente seria e garanzia di bontà dell’opera.

Joseph Albers, Study for Homage to the Square: Departing in Yellow, 1964, Oil paint on fibreboard, 76,2×76,2 cm

Peccato che il disgraziato millantatore avesse falsificato il catalogo cartaceo modificando l’immagine di un altro lotto stampato. E concludo anno ed elenco con il fac-simile Keith Haring su tela, eseguito per un brand della moda, che fu donato a un amante dell’artista, con vicende varie annesse e tanto di tresca rocambolesca precisamente descritta. Tutto sventato da una restauratrice, esperta dell’autore, che di fronte all’apertura dell’imballo in tre secondi tolse camice e guanti, dichiarando: “per me è sufficiente, l’opera non esiste”.
Buon Natale gente!

PS: le immagini pubblicate non corrispondono ai lavori menzionati nel testo

Nicola Mafessoni è gallerista (Loom Gallery, Milano), curatore (Settantaventidue, Milano) e amante di libri (ben scritti). Convinto che l’arte sia sempre concettuale, tira le fila del suo studiare. E scrive per ricordarle. IG: nicolamafessoni

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