Print Friendly and PDF

“Mi sono fatta del male senza sapere perché”. Girl gangs (e non solo) tra ossessione, noia e vuoto esistenziale

Ai Navigli, Milano, pochi giorni fa, nove studenti erano usciti da una cena e stavano passeggiando per tornarsene a casa. Una banda di ragazzine li ha avvicinati per molestarli e provocarli: «Volete fare a botte?». Quelli non hanno neanche risposto e hanno continuato a camminare. E allora è partita l’aggressione, pugni e calci. Quando uno di loro ha reagito e ne ha buttate giù un paio a spintoni, sono intervenuti tre ragazzi a dar man forte alla baby gang al femminile. La rissa è degenerata e le piccole minorenni si sono accanite senza pietà su quelli caduti a terra. La modalità dell’agguato fa quasi pensare a una prova di maturità da sostenere nella scala delinquenziale della violenza metropolitana. Ma questo di Milano non è l’unico caso di un fenomeno che è sempre più diffuso. Le girl gangs picchiano per rubare, ma anche per il semplice gusto di umiliare il più debole. E fanno paura esattamente quanto il loro corrispettivo maschile. Sono gruppi di giovanissime che si associano per i motivi più disparati. Molte di loro crescono in situazioni di grande disagio. Non possono permettersi quello che le altre coetanee possiedono, non indossano la felpa del momento, il telefonino di ultima generazione, le scarpe alla moda, e cercano di procurarselo depredando chi invece questi simboli li esibisce. L’imitazione dei modelli maschili porta queste ragazze a compiere gli stessi atti, perché così credono di sentirsi più forti. La ricerca costante del più debole è una ossessione che compensa le proprie frustrazioni. Il bisogno di appartenenza, ma anche quello di sicurezza e protezione, sono le radici su cui si fondano queste aggregazioni, che non sono solo delinquenziali, dettate spesso dalla rabbia con cui percepiscono una ingiustizia sociale, ma anche espressione di un vuoto esistenziale dominato dalla noia.

Se la violenza è diventata una rappresentazione comune della nostra società, anche l’altra metà del cielo non può esserne esente. Questo malessere diffuso ci riporta indietro di decenni, al furore iconoclasta degli Anni Settanta. Non ci sono le stesse matrici politiche, ma c’è la stessa lontananza fra generazioni contrapposte. Quello che colpisce è la giovanissima età di alcune protagoniste. A Ferrara la squadra mobile ha fermato una baby gang che aveva appena rapinato due studentesse. La prima, di 21 anni, era stata avvicinata con una scusa nella zona delle mura, colpita con lo spray urticante spruzzato in faccia da una delle bambine, mentre e altre le rubavano il cellulare. La seconda era stata accerchiata vicino alla stazione e obbligata a consegnare lo smartphone. Le quattro ragazze terribili, smascherate dalle riprese dei video di sorveglianza, sono state fermate dalla polizia ferroviaria mentre tornavano in treno a Bologna. La capa ha 11 anni, le sue complici 12 e 13. Persino nella pacifica e tranquilla Siena, una delle città italiane con il più basso tasso delinquenziale, sono finite sul registro delle indagini 10 giovanissime, tutte di 14 e 15 anni, che agivano esclusivamente per bullismo. Utilizzavano qualunque pretesto per umiliare, offendere e deridere vittime scelte a caso sui social. Che poi erano attirate con l’inganno o con le minacce a un appuntamento fissato in un luogo appartato, dove venivano aggredite dalla leader del gruppo, spalleggiata dalle altre che riprendevano la scena da diffondere sui social.

Ma siamo tutti davvero così violenti, uomini e donne? Ebbene sì. Almeno in potenza siamo tutti assassini: o autolesionisti o omicidi, come sosteneva Freud. Se non riusciamo, per debolezza dei freni inibitori, a fantasticare il male che vorremmo fare e che non ci permettiamo di fare, oppure a sublimarlo trasformandolo in positivo (quante gentilezze hanno il sapore del capovolgimento) siamo più o meno dei violenti distruttivi o contro noi stessi o contro gli altri. La difficoltà di vivere nella nostra società liquida e fragile ci impedisce di riconoscere l’altro nella sua diversità all’interno di una qualsiasi relazione, e a non superare quell’egoismo narcisistico che è del tutto indifferente ai bisogni degli altri. Basta scorrere i social per constatare al di là di ogni dubbio che certa cieca e feroce violenza è trasversale sia agli uomini che alle donne e che è sempre più diffusa, basta soffermarsi sulla lapidazione alla Ferragni dopo il caso Balocco, per rendersi conto come l’aggressione verbale sconfini ormai nel bullismo – a torto o a ragione non entro nel merito – . Però dovremmo chiederci che cosa ci lascia dopo, la violenza.

A Castelluccio dei Sauri, un paesino montuoso al limitare dell’Appenino sannita, in provincia di Foggia, due ragazze di 18 anni, Mariena e Annamaria, hanno spezzato il loro destino per uccidere la compagna di scuola, Nadia Roccia, che era di origini modeste come loro, terza di 4 figli, e che non era neanche la prima della classe, perchè la più brava e intelligente era Annamaria, bionda bellezza dai tratti rinascimentali, come evocava il suo cognome, Botticelli, con i boccoli che le ricadevano sulle spalle. Erano molto amiche, ma Nadia era più semplice, non coltivava i sogni di grandezza delle altre due. Un pomeriggio di marzo, mentre studiavano insieme la uccisero e quella che le stringeva il collo gridava «questa bastarda non muore». Cercarono di inscenare un suicidio, ma furono scoperte in fretta, smascherate dall’autopsia. Confessarono dopo pochi giorni. Sul suo diario la ragazzina dai riccioli biondi aveva scritto: «La vita mi ha riservato tre cose: il sesso, l’intelligenza e la morte. Ho scelto le prime due, la terza la lascio agli altri». Ma tanti anni dopo un giornalista andò a trovarla in carcere. Stava in una cella con una branda e grandi macchie di umidità sulle mura. La sua bellezza era sfiorita, restava solo una luce negli occhi azzurri di infinita melanconia. Pianse tutto il tempo. Disse che Nadia non meritava di morire. Era buona. Forse troppo buona. Lui le chiese perché l’aveva fatto. Lei rispose «non lo so. Mi sono fatta del male senza sapere perché».

Commenta con Facebook

Altri articoli