Sophie Calle, al Museo Picasso di Parigi, si ispira alla figura di Gertrude Stein per interpretare il mondo di Pablo, in una delle mostre più intelligenti e acute del 2023, costruita come un saggio per capitoli
Chissà se quando ha immaginato la sua mostra al museo Picasso “À toi de faire, ma mignonne“, Sophie Calle si è ispirata al rapporto tra Pablo Picasso e Gertrude Stein nella Parigi dei primi anni del Novecento, oggetto di un’altra rassegna da non perdere: “Gertrude Stein et Pablo Picasso. L’invention du langage”, allestita con sapienza al Musée du Luxembourg di Parigi. Amici e “compagni di strada”, Picasso e Stein erano impegnati entrambi in processi di scomposizione di forme e linguaggi da punti di vista diversi ma in qualche modo complementari , in un dialogo serrato tra parola, suono ed immagine. Nella sua personale curata da Cécile Godefroy, Calle sembra quasi ispirarsi alla figura di Gertrude per interpretare il mondo di Pablo, in una delle mostre più intelligenti e acute del 2023, costruita come un saggio per capitoli, che comincia con l’interpretazione delle collezioni del museo – trasferite per l’occasione nel piano interrato – attraverso il loro nascondimento, in occasione della pandemia.
In una sala l’artista opera una sorta di censura dei capolavori di Picasso, oggetto di una venerazione quasi feticistica da parte del grande pubblico, nascondendoli sotto fogli di carta velina o impacchettandoli con carta bianca-davanti a La Chèvre non si può non pensare ai primi “wrapped objets” di Christo – , mentre in un’altra sala introduce i visitatori all’idea di interazione degli addetti alla sicurezza e dei custodi con le opere della collezione, nascoste sotto tende bianche , sulle quali sono ricamate le loro sensazioni , scaturite dall’intimità con le tele. Non immagine ma parola provocata dall’immagine stessa, che perde la dimensione di feticcio per assumere quella di attivatore di riflessioni, emozioni e sentimenti, che prosegue nella serie What do you see? (2013) dove fotografie e testi descrivono un gruppo di opere rubate negli anni passati allo Stewart Gardner Museum di Boston , attraverso i ricordi di curatori, custodi e altri membri dello staff del museo. Per Calle l’opera, assente ma capace di evocare racconti e narrazioni intime, è il leit motiv di altre sale, come nel caso di Blind (1986), dove si possono leggere i pensieri di alcune persone non vedenti, alle quali l’artista aveva chiesto di descrivere la bellezza. L’artista si relaziona in maniera molto personale con Picasso, presentando la propria versione di Guernica : una parete delle stesse dimensioni del capolavoro dove l’artista espone la sua collezione privata, con 200 opere d’arte “da camera” di autori come Maurizio Cattelan, Damien Hirst, Cindy Sherman o Diane Arbus.
Ma prima di lasciare il mondo di Pablo Sophie propone ai visitatori la “sala della Consolazione”: un dialogo con una tela del periodo blu, La Celestina (1904), una mezzana spagnola cieca di un occhio, che si svolge in una piccola sala , dove una sola sedia permette la contemplazione dell’opera in modo intimo. La seconda parte della mostra, che si svolge nei tre piani superiori del museo, è dedicata al mondo privato dell’artista, in un fil rouge legato alla scomparsa delle persone a lei più care e alla costruzione della particolare relazione che si stabilisce con i propri genitori nell’incombenza della morte. Si può vedere anche se si è ciechi? La sofferenza produce forme di racconto più profonde? Cosa significa davvero guardare un’opera d’arte? Attraverso la mediazione di Picasso Sophie Calle è stata in grado di attivare le energie simboliche presenti nelle tele del pittore catalano , per offrire al pubblico del museo punti di vista inaspettati sul rapporto tra visione e percezione. E non è poco.