Alla Fondazione Biscozzi | Rimbaud di Lecce la mostra personale “Lucus” di Yuval Avital, curata da Massimo Guastella
Nell’eburneo nocciolo che irradia il nobile e chiaro riverbero della “Signora del Barocco” e tende la gentil mano all’arco di Trionfo, eretto in onore dell’imperatore Carlo V, con le sue colonne corinzie binate e insegne con trofei e panoplie sul frontone triangolare e adiacente al corpo di Santa Maria della Provvidenza, la cui facciata fu eretta nel 1724, su disegno dell’architetto Mauro Manieri, per volontà del barone Giuseppe Angrisani, anticamente parte del complesso monastico dei francescani formati che seguivano la regola di San Pietro Apostolo d’Alcantara, nella piazzetta Baglivi, sorge il palazzetto storico a due piani, sede della Fondazione Biscozzi | Rimbaud.
Prezioso involucro eterogeneo, il nuovo Museo di arte moderna e contemporanea di Lecce, è stato costituito il 19 febbraio 2018 dai coniugi Luigi Biscozzi e Dominique Rimbaud e, aperto al pubblico da martedì 2 marzo 2021, come pietra miliare connotata dalla valorizzazione di una ricca raccolta di circa duecento opere tra dipinti, sculture e grafiche che denotano una vivace attività culturale nel capoluogo di provincia più orientale d’Italia. Il tesoro custodito informa un rilevante segmento dell’arte del Novecento, comprendente nomi italiani e internazionali, tra i quali si ricordano Filippo de Pisis, Arturo Martini, Enrico Prampolini, Josef Albers, Alberto Magnelli, con speciale riferimento agli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta con Fausto Melotti, Luigi Veronesi, Alberto Burri, Piero Dorazio, Renato Birolli, Tancredi, Emilio Scanavino, Pietro Consacra, Kengiro Azuma, Dadamaino, Agostino Bonalumi, Angelo Savelli, Mario Schifano, e tra i salentini e i leccesi contemporanei, i nomi di Salvatore Sava, Michele Guido e Salvatore Esposito.
Luigi Biscozzi, nell’introduzione al catalogo della collezione, scrisse: “Ho un debito di riconoscenza nei confronti della mia città di Lecce: mi ha dato la sua bellezza e una base scolastica che mi ha consentito di proseguire gli studi a Milano. Desidero consegnare questa raccolta di opere alla mia città di Lecce e al Salento“. Il suo percorso permanente si colloca al primo piano e si sviluppa cronologicamente per tipologie stilistico-formali: dalle “origini del contemporaneo” alla sezione sull’informale in Italia e in Europa, per passare poi al filone astratto-geometrico e cinetico-programmato, alla pittura analitica e, infine, alle ricerche che oltrepassano gli statuti tradizionali del quadro e della scultura. L’itinerario di visita è stato progettato dal direttore tecnico-scientifico Paolo Bolpagni di concerto con Arrigoni Architetti.
Dopo le esposizioni di Angelo Savelli (“L’artista del bianco”, 2021), Salvatore Sava (“L’altra scultura”, 2022), Grazia Varisco (“Sensibilità percettive”, 2022-2023), Mirco Marchelli (“Voci in capitolo”, 2022-2023), la quinta mostra temporanea della Fondazione è “Lucus”, personale di Yuval Avital, con novanta opere, di cui alcune recenti e altre realizzate site-specific, curata da Massimo Guastella, appena conclusasi nelle tre sale del piano terra e al primo piano tra le opere della collezione permanente. L’installazione si dirama in quattro momenti e, come afferma il curatore, “si tramuta in una metafora del paesaggio mediterraneo, perduto ma persistente nella memoria, in una sorta di ‘total room’ immersiva, molto prossima all’opera totale che è al contempo la cifra personale dell’artista”.
Come per l’artista svizzero Paul Klee, l’“Angelus Novus” è figura stilizzata di un angelo con le ali spiegate, quell’angelo della storia che, secondo Benjamin, ha gli occhi rivolti alla memoria del passato e le ali trascinate da un vento tempestoso verso il futuro tra le rovine decadenti, così l’albero del “Locus” di Yuval Avital è quella figura che coniuga, attraverso il tronco del presente, il passato delle radici al futuro dei rami che vertono verso l’infinito, l’eterno progresso che marcia imperituro tra le distruzioni boschive della macchia mediterranea, fertile costellazione dello Ionio e dell’Adriatico. È il Giano – memore della ὕβρις (tracotanza) – che richiama un modello di estrinsecazione operativo-espressiva del nostro, nella metamorfosi della mano affamata della miseria speculativa in una foresta incantata e che riveste plumbee presenze di fascino estatico e di fatata grazia. Ed ecco che mille sentinelle si riappropriano d’un candore ingessato nell’ἀρχή (archè) per avvolgere il nudo terrifico spirito della natura.
In una coltre di semioscurità si ravvisa il “trait d’union” nella ricerca di una geografia dell’equilibrio tra la potenza e l’atto dell’opera e il suo depositarsi di una narrazione velata di reminiscenze culturali-naturali e allusiva a una realtà effimera che, seppur misuratamente ordinata, sfugge l’effettività del presente. Sin da principio, si effonde un’aura visivo-sonora e sciamanica-rituale che riesuma le tracce umane e identitarie nel rapporto con la terra e invoca un prominente volume di coinvolgimento, avverso alla de-umanizzazione.
Salvatore Settis, in “Paesaggio Costituzione cemento. La battaglia per l’ambiente contro il degrado civile” (Einaudi 2019, p. 3), scrive: “Il paesaggio è il grande malato d’Italia. Basta affacciarsi alla finestra: vedremo villette a schiera dove ieri c’erano dune, spiagge e pinete, vedremo mansarde malamente appollaiate sui tetti un giorno armoniosi, su terrazzi già ariosi e fioriti. Vedremo boschi, prati e campagne arretrare ogni giorno davanti all’invasione di mesti condomini, vedremo coste luminose e verdissime colline divorate da case incongrue e ‘palazzi’ senz’anima, vedremo gru levarsi minacciose per ogni dove. Vedremo quello che fu il Bel Paese sommerso da inesorabili colate di cemento. Villaggi che per secoli avevano saputo crescere, conservando l’impronta di una cultura dell’abitare tanto più nobile quanto più povera sono sempre più spesso assediati da nuovi, anonimi quartieri, che cancellano dall’orizzonte campanili, torri, mura, alberi secolari. Sempre più spesso sono consegnate a speculatori senza scrupoli le città che furono per secoli il modello d’Europa per l’armonioso innestarsi di ogni nuovo edificio sul robusto, mirabile tessuto antico, per una cultura urbana diffusa che vietava non alla mano, ma al cuore e all’anima di deturparne la bellezza. Monti, campagne, marine sono sempre meno il tesoro e il respiro di tutti i cittadini, sono anzi ormai la troppo facile riserva di caccia di chi cinicamente li devasta, calpestando il bene comune per il proprio ceco profitto”.
Pongo brevemente l’attenzione sul site-specific per sottolineare l’importanza dell’operato di Yuval Avital che tende a sviluppare degli interventi strettamente connessi con il luogo e con tutto ciò che implica a livello storico, antropologico-culturale rispetto a una tendenza semplicistica dilagante che vuole a tutti i costi rivolgere qualsiasi ricerca artistica in un confronto approssimativo con un qualsiasi luogo proposto. Ragguardevoli compendi dell’otium, nella sua sostanza rituale virtuosa, sono le serie le “Bagnanti”. Inverosimili figure, variamente articolate, narrano una mite surrealtà, con sinistra leggerezza. Come in una fantasticheria onirica, corpi plastici bianchi compongono una visione vacillante e frammentata. Spettri umani arborescenti sono padroni di una condizione sine tempore. Yuval Avital designa l’identità individuale d’esistenza, quell’esserci che si sottrae tanto al tempo presente omologante, quanto alla sua rappresentazione. Così, in “Bagnanti”, traccia un paesaggio familiare con un fare estetico, iconico-sonoro.
Sono figure umane ritratte in diversi momenti al mare, come nelle sue giornate, trascorse con la figlia ai laghi di Alimini, e altre immagini che da un riaffioramento di memoria personale tramutano in ricordi collettivi e allargano quelle visioni con un tratto che, come ceruleo orizzonte marino, sconfina la superficie dei supporti per collegare i diversi periodi della vita a immaginari archetipali. Ed ecco che percepiamo, senza ingiunzioni, le canzoni estive anni Sessanta, forse provenienti da un jukebox. Ci si immerge in una fauna che “con – move” e chiede di essere traversata tra l’ombra delle quattordici presenze in gesso e in anima in metallo, le trentadue chine e acquerelli su carta, le diciannove in acquerello su carta e gli “Spiriti in cabine e Spirito Guardiano”, dalla serie “Spiriti”, in tecnica mista su carta. Lo Spirito Guardiano fluttuante ingloba, come presenza magica, le cabine per rimembrare il legame con gli elementi naturali come il fuoco, l’acqua, la terra e l’aria, provocando una relazione che spinge all’utilizzo della loro energia per i rituali che invocano la buona fortuna nella nostra esistenza. Il primitivismo incontra un’ingenuità naïf, in una suggestione sacrale, di cui si caratterizzano anche la serie “Fadings” e le opere “Madre e eterozigoti” e “Spiriti in cabine e Spirito Guardiano”. L’artista esplica: «La vacanza all’italiana non è un vizio ma un rito. … tutto diventa una grammatica umana e da questo nascono i “Bagnanti”, una sorta di ‘bosco di corpi’». Suono e immagine si attraversano in una versatilità lirica espressiva che coagula tradizionale e multimediale.
Sono le dodici “Maschere sonore” o “Singing Masks”, realizzate con altoparlanti, uniti a diversi materiali, dal marmo alla ceramica, dal tessuto alla cartapesta, dal cuoio al metallo e al legno, ad attrarci nella seconda sala. Fattura, fattezza e suono sono stati realizzati dall’artista, con il coinvolgimento di sapienti artigiani. Il nostro è, dunque, il corifeo che annoda, in un unico sussurro tribale, le voci provenienti dalle bocche dei mascheroni. Le opere sono state esposte per la prima volta nel 2019 in occasione della mostra “Nephilìm”. I materiali e le forme impiegati ricordano figure antiche come le Statue Stele Lunigianesi di tipologia A e le maschere orientali. Tra i mascheroni, “Leviatano” ci riconduce sia al suo essere citato in diversi libri della Bibbia ebraica e nella Genesi, e all’essere anche figura mitologica di diretta continuazione del mostro marino ugaritico Lôtān che ha preso un posto di rilievo nella mitologia del vicino Oriente Antico, sia all’opera di filosofia politica scritta da Thomas Hobbes, nel 1651, e che parla dello Stato come un grande organismo, le cui membra sono i singoli cittadini. L’opera letteraria è considerata come la teorizzazione e l’atto costitutivo dello Stato assoluto moderno, secondo cui la libertà individuale è corrispondente all’esercizio dei propri diritti.
I suoni remoti dell’antica macchia boschiva accolgono il visitatore in una catarsi generativa e lo persuadono a procedere verso i “Menhir” che convogliano nell’ultimo ambiente il fascino dei megaliti salentini: il “Menhir delle Valdare” di Diso, noto per la sua forma a T, il “Menhir Montebianco” di Botrugno o “troncone” di Botrugno, Il “Menhir di Staurotome”, dal griko Croce Grande, a Carpignano Salentino, il “Menhir Miggiano”, situato nella contrada Madonna di Miggiano, e il “Menhir della Madonna di Costantinopoli”, sito nella struttura muraria dell’omonima cappella di Morciano di Leuca. Le opere sono omaggio alla tradizione salentina della cartapesta e vedono come autori l’artista e gli artigiani leccesi, quali il ceramista Cosimo Quaranta e il cartapestaio Dante Vincenti.
Celato nella selva dei “Menhir”, “Light Recordings n. 8 Taidung/32” rivela una cerimonia notturna di caccia sacra su una montagna nel locus di una tribù indigena. Il nesso uomo-natura si insinua nel respiro del visitatore che, districandosi tra i megaliti, diviene inconsciamente parte di un camminamento rituale. Il light box della serie fotografica “Light Recordings n.8 Taidung/32” del 2018 registra le tradizioni autoctone della gente di Taiwan. Taitung è, infatti, la capitale della Contea di Taitung che si trova sulla costa sudorientale di Taiwan ed è provincia della Repubblica di Cina. Nell’intervista “Yuval Avital. Tremori armonici” di F. D’Amico (La Stampa, 16 marzo 2018), l’artista chiarisce: «… È molto difficile separare l’ambiente dalla circostanza umana perché in qualche modo l’ambiente è l’habitat che, anche se desolato, è sempre luogo umano. A volte cerco di smarrirmi in esso, per esempio nella serie di Light Recordings dove la volontà è quella di catturare la luce e il rapporto tra il mio modo di vedere l’ambiente e lo stesso. …».
Icone e simboli di ritualità silvestri e sacri, come un’aureola dorata, creature misteriose, umanoidi, figure monocellulari, segni di credenze popolari ed elementi tipici del territorio salentino, quali i peperoncini, i muretti a secco delle campagne, la donna dei cervi, ispirata all’omonima nella Grotta dei Cervi a Porto Badisco, la pagghiara e i gechi, i pesci, i mammiferi bicorni, altri animali e lu Laurieddhu sono solo alcuni dei soggetti dei pittogrammi e delle pitture che eludono l’horror vacui dei megaliti. Questi, talvolta, dettano la forma delle figure e delle composizioni che arginano, talvolta i soggetti corrono liberi sulla superficie segnata dallo scorrere ciclico del tempo, come suggeriscono il sole e il tramonto. La torcia – in possesso del visitatore – cattura, nella sua luce, un’ultima opera, un occhio ciclopico, frutto della mano della figlia di sette anni, Alma Avital.
L’artista dichiara: “La novantesima opera è per me importante perché è un’opera di mia figlia Alma, sette anni, che ha impresso il suo segno di sacro e nella sua inconsapevolezza forse ha creato una ‘vettorialità’ per uno sguardo non solo indietro verso le radici ma anche verso il futuro. Questo è un bosco di oscurità, di ascensione, di luci, di sagome, in cui invitiamo a usare la torcia del cellulare per scorgere i dettagli, come degli archeologi, per trovare il bambino dentro noi stessi“.
Il ciclo delle opere esposte per “Lucus” termina al primo piano, ove sono collocate tre opere sulla pavimentazione: “Singing Tubes” n. 2, un’alta giraffa, “Singing Tubes” n. 3, un enorme ragno blu, e “Singing Tubes” n. 6, un bruco gigante e verde, in dialogo con le opere della collezione permanente di Turcato, Calzolari, Zorio e Schifano. Il titolo della serie ricorda il termine ebraico “tubo”, con il significato di “connettore tra l’uomo e il divino, l’invisibile e il mondo materiale”; “è una parola importante – afferma l’artista – nella mistica cabalistica ebraica perché rappresenta quel canale che permette all’anima di ascendere in cielo, un connettore fra l’umano e il divino“. E “gli animali magici, fiabeschi – scrive il curatore Massimo Guastella – sono collocati, in accostamenti improbabili e pur senza alcun intervento irriverente, tra i variegati esiti dell’arte del Ventesimo secolo lì esposti, con i quali si intersecano e insieme contribuiscono ad accrescere un clima di tempo sospeso. Sono attestazioni della creatività strabordante di Yuval, che spande qua e là ambiguità semantiche mediante il gioco ironico e provocatorio dei rimandi“.
Ciò conferma l’impegno della Fondazione Biscozzi | Rimbaud nello sviluppo di connessioni tra la collezione conservata e le opere degli artisti che ospita temporaneamente al suo interno. La mostra è documentata da un catalogo, a cura di Massimo Guastella ed edito da Dario Cimorelli Editore.
http://www.fondazionebiscozzirimbaud.it