Il sole allo Zenit, in questa 17.ma puntata, è in versione ampliata: um saggio dedicato ai padri della storia – ma anche della cronaca e della critica – dell’arte, dall’Antichità al contemporaneo, seguendo percorsi metodologici, affermazioni e smentite.
Nel 1855 Jacob Burckhardt sosteneva che nel Trecento, apparentemente indipendenti da Giotto, rimasero solo gli inabili e fra questi soprattutto i bolognesi, spaventosamente maldestri e insignificanti, dei quali anzi, se fossero vissuti a Firenze, non sarebbe stato neppure il caso di parlarne. Toccò alla Pinacoteca di Bologna, novantacinque anni dopo, ridare interesse alle figure di Vitale da Bologna, Jacopino, Simone dè Crocefissi, Giovanni da Modena e altri. Ma quanto influì quel giudizio personale per i precedenti anni? Quanti appassionati, studiosi o passanti casuali si persero le loro opere per quel parere forte? Quanti pittori della realtà rimasero nell’ombra per colpa dell’amore per il bello ideale di Giovan Pietro Bellori? Sarà davvero Gesù il personaggio che al Tiepolo mai riuscì come sosteneva Roberto Calasso? Era Piero della Francesca “al di sopra del suo tempo” come scrisse Focillon? Splendettero “le terse immagini del Giambellino di verità dell’eterna luce” come scrisse Vittorio Moschini? E “fu lui, con la sua costante coloristica, l’iniziatore della pittura veneziana o fu Giorgio da Castelfranco, detto Giorgione, che precorse, iniziò e formò la pittura veneziana del Cinquecento”, stando all’introduzione di Giorgione e il Giorgionismo scritta dal Venturi junior? Il quale addirittura aggiungeva che le sue opere autentiche, una tradizione contemporanea, scrittori antichi e moderni, concordavano nel dare su Giorgione tale giudizio. E poi che “appena dall’astratto enunciato il giudizio si concreta nella visione della realtà, discordano tutti: per deficienza di critica stilistica, gli antichi; per trascuranza nell’analisi delle fonti scritte, i moderni. Così che la figura del pittore assume ora l’aspetto di un amabile vaporoso sogno; ora, di un fantoccio privo di forma; mai di una personalità definita con precisi contorni.” E pensare che il Vasari diede un giudizio sintetico di rara perspicuità: “il posto di Giorgione nella storia dell’arte è non solo d’aver superato Gentile e Giovanni Bellini, ma di competere con coloro che lavorano in Toscana e sono autori della maniera moderna”.
In quali vorticosi abissi siamo entrati? Nella critica della critica. Ma ormai ci siamo.
Il rigoroso Berenson diceva di raccontare l’arte dal punto di vista delle opere, tralasciando le persone, ma Gombrich scriveva che l’arte non esiste, esistono gli artisti. Chi ha ragione, dunque? Del resto bisogna pur farsi un’opinione e tanto più i critici, che altrimenti non sarebbero tali. E anche meglio se la posizione è chiara, soggettiva, dettata dallo studio e espressa con personalità. Che se Amleto avesse recitato il suo monologo seduto, l’effetto sarebbe stato certo diverso, come notava Umberto Eco. Mentre Simone de Beauvoir raccontava che Sartre poteva entrare in una discussione qualunque e prendere una parte o l’altra indifferentemente, con grande sicurezza: in base alla sua nuova posizione avrebbe portato avanti il discorso giustificandolo logicamente, nonostante il suo favore iniziale si volesse posare sulla ragione opposta. Questa sfrontatezza animava senz’altro lo spirito del ventiquattrenne Roberto Longhi quando nella Breve ma Veridica Storia si permise di trattare in fretta Raffaello poiché non faceva parte della schiera dei puri pittori ma degli illustratori grafici degli ideali di vita, valutando la sua superiorità come criterio morale, non come criterio estetico. E addirittura Longhi indicò poi la fine dell’arte italiana: “con i nomi radi, e a gravi intermittenze, di Caravaggio e di Preti; di Tiepolo e di Giordano; e in un ordine nuovo creativo inferiore, di Magnasco e di Guardi” la storia della pittura italiana era per lui finita. Ai tempi del 1914 infatti gli storici dell’arte non si occupavano di critica recente, tantomeno di quella contemporanea, che veniva considerata cronaca e non storia. Almeno fino al 1929 quando Lionello Venturi pubblicò il suo volume di saggi “Pretesti di critica” che fece ovviamente rumore. Eppure lo storico come il critico dovrebbe sempre accettare il nuovo, anche quando non è all’altezza del passato, come consigliava Gillo Dorfles che di nuovi, nella sua lunga vita, ne aveva scorti parecchi. Johann Joachim Winckelmann ebbe non poche responsabilità in questo distacco dal contemporaneo poiché tracciò una storia della forma considerando l’arte greca come la sola grande arte dell’antichità, condannando quella romana al ruolo di copia e considerando il bello ellenistico come fermo punto di riferimento. La reazione alle teorie del Winckelmann tolse l’interesse per l’arte moderna dagli storici di professione che fu accolto allora da poeti e romanzieri, giornalisti e persino politici. In certe occasioni, legate spesso a feste religiose, venivano esposte opere di artisti attivi al momento che venivano sottoposte a giudizio. A Venezia nel Settecento era possibile acquistare opere d’arte del Canaletto o Francesco Guardi direttamente alle mostre della Scuola di San Rocco ma, come raccontava al tempo Francesco Algarotti, esse rappresentavano anche un vero e proprio tribunale della pittura, dispensatore di critiche e onori per gli artisti. Una versione italiana insomma dei celebri Salons di Parigi, dove il rapporto con l’arte dei contemporanei veniva mantenuto dai critici continuatori di Diderot che si dividevano a loro volta il campo tra i neoclassici sostenitori di Ingres e i romantici a favore di Delacroix. Tra i vari giudizi ci sono però anche questioni personali. Il favore risaputo del Vasari per artisti conterranei toscani, ad esempio, o la gelosia e l’ansia da primato che dominava Roberto Longhi e Bernard Berenson. Ma come quei famosi sei indiani ciechi, non possiamo pensare di conoscere l’elefante toccandogli solo la coda, la zampa, la zanna o il fianco, altrimenti la percezione diviene parziale e ognuna certamente diversa. Poiché vale il principio gestaltico secondo cui il tutto è più della somma delle singole parti e la globalità non può essere spiegata ricorrendo alla semplice unione di più elementi. Ma tale critica risulta applicabile a qualunque opzione, come potrebbe essere la scelta di una bella cravatta: stretta o larga? Corta o lunga? Tinta unita o fantasia? E se è la fantasia a vincere, si propende per la geometria, la floreale o i pois più informali? E quale tessuto? Quale sartoria? E soprattutto quale dei disponibili ottantacinque nodi? Tralasciando la scelta di taglio, incappucciatura, giuntura, chiusura, rovescio, finitura, imbustitura e via che forse è meglio uscire casual e applicare la critica ad altro. Che poi le cravatte quasi nessuno più le indossa.
Charles Schulz risolse un dubbio sul piacere o meno a una persona con un’attenta osservazione: “se mette un vestito bianco per te allora le piaci davvero, altrimenti non spenderebbe mai i soldi della tintoria”. Ma torniamo all’arte, che vale la pena di menzionare velocemente qualcuno di quei pensatori che qualche base nell’arte e nella critica l’ha di certo gettata, a partire da Rudolf Eitelberger von Edelberg che fondò la nuova storia dell’arte, studiando l’opera nel suo periodo storico e spostando l’attenzione dalle singole individualità alle opere materiali e alle fonti documentarie. Moritz Thausing gli successe e contribuì alla collocazione rigorosa della storia dell’arte come disciplina scientifica autonoma, mentre l’estetica della pura visibilità fu poi elaborata da Konrad Fiedler e perfezionata da Von Hildebrand e Marées. Fiedler fu una sorta di svolta e istituì la teoria della pura visibilità secondo la quale l’arte non creava un secondo mondo a fianco di un altro che esisteva comunque, ma creava il mondo per la prima volta e non poteva configurarsi come imitazione della realtà per il semplice fatto che ognuno di noi percepisce la realtà in modo diverso.
Von Hildebrand approfondì i problemi della forma ed elesse a parametro di giudizio il modo di rappresentare, tracciando la visione ravvicinata o quella a distanza: la prima sarebbe stata tattile, la seconda ottica. Franz Wickoff invitava a studiare ogni momento dell’arte antica e considerava la continuità e i collegamenti tra passato e moderno, sostenendo anche il metodo Morelliano. Giovanni Morelli infatti riteneva che le fonti e i mezzi esterni sui quali abitualmente si sforzavano gli storici dell’arte fossero inutili perché privi di oggettività e certezza. Suggeriva dunque di fare luce su peculiari aspetti interni e di studiare analiticamente i particolari anatomici del testo figurativo. Orecchie, mani, bocche, capelli, ma anche forme del paesaggio, vesti e panneggi, costituivano la calligrafia del pittore e bastava paragonarli tra loro per individuare le varie personalità e identificare pregi o difetti. Alois Riegl si cimentò nell’analisi dei motivi ornamentali indicandoli come derivanti da schemi iconografici autonomi o indipendenti e evidenziò come le trasformazioni di quei motivi decorativi non fossero frutto di spontaneità o di casualità ma derivassero da un’evoluzione ininterrotta dei modelli rintracciabile nel Kunstwollen, ovvero l’impulso artistico che orienta l’insieme di produzione delle differenti epoche storiche.
E sul Kunstwollen in tanti si confronteranno. Panofsky non lo considerava un impulso ma un senso definitivo dell’opera, Hans Sedlmayr una volontà superindividuale, Otto Pächt la direzione propria di un popolo in analogia con l’impulso della natura che crea e stabilisce le proprie leggi. È in questa fase di approfondimento del tardo antico che si insidiò la convinzione che non esistevano periodi storici di decadenza artistica alternati a periodi di floridezza e che ogni momento andava studiato nella sua peculiarità, all’interno del proprio quadro storico, intendendolo come processo di sviluppo continuo. L’analisi di Riegl abbandonò i tradizionali schemi basati sui concetti di armonia, proporzionalità e equilibrio tra le parti, e contribuì a creare un’estetica della disintegrazione che ereditava il pensiero kantiano e idealista, sottolineando finalmente il contributo dell’esperienza soggettiva.
Max Dvorak considerava ogni indagine come essenzialmente storica e l’arte come Zeitgeist, ovvero come espressione dello spirito del tempo. Analizzò il manierismo alla luce della profonda crisi spirituale dell’Occidente a ridosso del Concilio di Trento e il Rinascimento sulla base della visione idealistica che dava della realtà. Hans Tietze calcò invece sull’artisticità e la necessità dell’estetica non di verificare bellezza o qualità dell’opera, considerati criteri soggettivi, ma le reazioni dei fruitori, ossia l’effetto e la durata che un’opera aveva nel tempo. Anche Dvorak dette grande importanza alla personalità dell’artista e vide le opere derivanti dalle esperienze tecniche, stilistiche, spirituali e culturali dei singoli. Julius Von Schlosser intendeva l’arte articolata come un linguaggio mentre Adolfo Venturi formulò la famosa strategia del “vedere e rivedere”, sottointendendo la necessità di un’aderenza ai testi ma insistendo su una conoscenza diretta e indispensabile degli originali, che privilegiasse la storia delle forme e dello stile e che trovasse il suo culmine nel momento attributivo. Venturi tra il 1901 e il 1940 fece anche la gran fatica di pubblicare in venticinque tomi la Storia dell’arte Italiana inaugurando la critica moderna in Italia, servendosi anche delle ricerche precedenti di Giovan Battista Cavalcaselle che interpretava la storia dell’arte italiana come costituita da tessere regionali collocate in un quadro nazionale unitario. Suo allievo fu Pietro Toesca che divenne maestro di Roberto Longhi e che da quest’ultimo fu descritto come uomo solingo somigliante a un monaco, sebbene Longhi ne ammirasse l’approfondimento dell’arte Lombarda e Piemontese. Bernard Berenson si focalizzò sulla pura forma, indicando negli elementi decorativi tutti quegli aspetti formali come i valori tattili, di movimento, di composizione spaziale, di raggruppamenti strutturali e di accenti coloristici o di tono. In particolare si fermò a lungo, per mancata pace del Longhi, sui valori tattili, ovvero sul chiaroscuro accentuato e sulla disposizione delle cosiddette linee funzionali, cioè gli elementi separatori delle singole superfici. Compito dei valori tattili era quello di suggerire la terza dimensione per dare l’impressione di poter materialmente toccare la realtà rappresentata e girare intorno alle figure. Eccitare il senso tattile era per Berenson uno dei compiti dei pittori, tra i quali lodava grandemente Giotto e Masaccio, mentre ammirava il Pollaiolo per i valori di movimento, gli artisti umbri per la composizione spaziale e i veneti per il colorismo. Gli elementi illustrativi erano invece quelli legati al valore della cosa rappresentata, tipici di pittori come Duccio e Raffaello, e costituivano un elemento discriminante nel giudizio di valore dell’opera perché relativi a ideologie dei committenti e mutevoli nel tempo: Berenson era convinto che se un’opera avesse contenuto quasi solo elementi illustrativi sarebbe sparita con gli ideali che essa stessa riproduceva.
Nel libro sul disegno dei pittori fiorentini trattò l’attribuzione e la distinzione delle varie maniere, considerando sicuramente il metodo morelliano ma introducendo il criterio soggettivo della valutazione della qualità di un maestro nei confronti di un altro, della sua attività disegnativa rispetto a quella pittorica, del suo contributo all’umanizzazione dell’uomo. La difesa della classicità diverrà uno dei suoi temi ricorrenti e uno dei suoi parametri nel giudizio che lo portarono a snobbare vari periodi come il tardo antico e il barocco o alcuni movimenti come il surrealismo e l’espressionismo, considerati un ritorno alle barbarie e al primitivismo. Continuò su questa scia del formalismo Roger Fry, che scelse però di insistere su linee di continuità come quella tra Signorelli, Rembrandt e Cézanne, cercando di affrontare il metodo in cui questi artisti risolsero i problema formali. E più scrivo più mi rendo conto che i nomi sono infiniti e le possibilità di visione varie e pur diverse. In Francia comparvero nel duello anche le teste di Male, Michel e Faure ad esempio, e Manuel Gómez-Moreno Martínez si mosse in Spagna, mentre Anton Springer, Carl Justi, Hubert Janitschek, Wilhelm Vöge, August von Schmarsow, Adolph Goldschmidt, Wilhelm von Bode, Max Friedländer studiarono nuove raccolte e soluzioni in Germania, e chissà chi altro ancora. Ma avvicinandoci all’Italia, passando dalla Svizzera, è forse corretto sostare all’ombra del nome di Heinrich Wölfflin che fu allievo di Burckhardt e affrontò il problema della mutazione di stile dal Rinascimento al Barocco, esaminando la reazione della nostra mente agli stimoli delle forme.
E chi mai avrebbe immaginato al tempo che la nostra psiche sapesse reagire agli stimoli che provengono dalle forme? Che se le forme sono simmetriche e classiche conducono a una reazione psicofisica d’armonia, ma se sono asimmetriche e alterate l’effetto è di affaticamento e disagio. Da questi spunti Wölfflin giunse a rivalutare il Barocco e preferì insistere su una considerazione oggettivistica e naturalistica che negava la possibilità di realizzare ogni cosa in ogni tempo perché l’artista è per forza sempre coinvolto in una determinata situazione storica e non può superare i limiti del proprio periodo: può arricchire il linguaggio formale dell’arte ma rimane essenzialmente vincolato alle possibilità dell’età in cui vive. E infine giunse ad una considerazione: il Rinascimento voleva essere esauriente quindi ha avuto bisogno di uno stile chiaro e di eventi narrati con completezza, mentre il barocco non voleva dir tutto e lasciava spesso indovinare.
E la bellezza non coincideva più con le forme chiare e pienamente visibili ma passava a quelle che possedevano qualcosa d’inafferrabile e che all’osservatore sembravano sfuggire via. Non c’era molto spazio dunque per l’inclinazione individuale ma forma e tempo tenevano tutto nelle loro mani. A questa svalutazione dell’individuo e alla formazione dell’opera d’arte senza nomi obiettò però Hauser che riportò in auge le disposizioni psicologiche individuali dell’artista. Altra diatriba, insomma. Ma ad un certo punto nella storia dell’arte entrò da Amburgo Aby Warburg, con il suo obiettivo dichiarato di costruire una nuova scienza dell’uomo. Dalla sua famosa e invidiabile biblioteca che sorgeva su quattro piani partì un approccio diverso basato su un’impostazione interdisciplinare che prevedeva di far derivare ogni opera da un complesso di idee. Da lui in poi la storia dell’arte non venne più studiata indipendentemente e vide emergere dalla sua libreria altre personalità molto importanti come Fritz Saxl, Rudolf Wittkower, Edgar Wind, Jean Seznec e Otto Kurz, con il suo amore per le biografie. Da poco sotto Amburgo s’imbarcò per simili rotte Erwin Panofsky che tornò a rivedere le tesi del Wölfflin, si soffermò sul ruolo dell’interpretazione di ciò che si vede e rintracciò il Kustwollen nel senso che l’opera portava in se stessa. Anche Panofsky concepì l’arte visiva come un linguaggio e cercò di interpretare la realtà attraverso forme simboliche ponendo molta attenzione alla differenza tra iconologia e iconografia. Nel frattempo in Italia aveva preso piede, sulle orme del padre, Lionello Venturi che dette importanza ai giudizi critici per la ricostruzione storico-artistica e identificò la storia dell’arte con la valutazione critica di se stessa, chiaramente influenzata dall’estetica crociana. L’arte era per lui legata a questioni spirituali e a una sintesi d’intuizione e espressione. La creazione era intesa in senso individuale e fattori intellettuali, scientifici e tecnici non erano da considerarsi nell’analisi dell’opera d’arte. Ai fini di questa piccola deriva interessa poi la nozione della sua categoria di gusto: un concetto interpretativo che indica le scelte o le preferenze dell’artista nell’ambito della cultura e permette di inserirlo in una determinata epoca o scuola. Roberto Longhi arrivò infine ad arricchire le sue spiegazioni con parole attentamente scelte e con un linguaggio colto, ricercato, che con quella prosa tutto poteva dire e in Italia la critica d’arte quasi finì con lui, anche se grossi contributi furono dati da Matteo Marangoni, Sergio Ortolani, Mina Gregori, Federico Zeri, Giovanni Testori e i divulgatori d’oggi. E se qualcos’altro si può imparare dagli appassionati studi di questi numerosi cultori d’immagini è proprio la varietà di opinioni e soluzioni.
Qualcuno valuta in base a problemi formali, qualcuno in base a questioni simboliche, qualcuno ancora non se la sente di giudicare e prende per buono ogni operato poiché uscito da quel dato irripetibile momento storico, con tutte le circostanze a esso collegate. C’è chi applica i canoni del passato come metro di giudizio e chi vede la personalità dell’artista influente, a discapito di chi ricerca l’oggettività; chi inventa nuovi nomi, chi nuovi concetti, chi intuisce, chi ha bisogno di riguardare. Ma c’è una conclusione del Berenson, nel suo capolavoro su Lorenzo Lotto, che mi rimane più impressa di altre, ed è quando l’autore si interroga sulle domande che si potevano essere posti Tiziano e lo stesso Lotto in attesa di ritrarre qualcuno. L’uno pareva più attento a dipingere personaggi che avessero l’aspetto e il portamento che il rango e le circostanze richiedevano, l’altro interessato alla psicologia delle persone, al desiderio di conoscerli e coglierli nelle loro ansie giornaliere. Tiziano avrebbe chiesto: “Chi sei? Quale carica tieni?”. Mentre il Lotto avrebbe domandato: “Qual’è il tuo carattere? Come prendi la vita?”. Non avevo mai pensato alle domande che possono porsi gli artisti.
Nicola Mafessoni è gallerista (Loom Gallery, Milano), curatore (Settantaventidue, Milano) e amante di libri (ben scritti). Convinto che l’arte sia sempre concettuale, tira le fila del suo studiare. E scrive per ricordarle. IG: nicolamafessoni