Alla Libreria Antiquaria Gonnelli la mostra collettiva “Grotteschi e Arabeschi in nero. La carne, la morte e il diavolo nella grafica del Simbolismo”, a cura di Emanuele Bardazzi e di Silvia Scaravaggi
“… . Che mai avrebbe pensato, e che mai avrebbe scritto, lo sventurato, se avesse inteso la teologa del sentimento sopprimere l’Inferno per amore del genere umano, il filosofo della cifra proporre un sistema di assicurazioni, una sottoscrizione da un soldo a testa per la soppressione della guerra, e l’abolizione della pena di morte e dell’ortografia – due follie parallele – e tanti altri malati che scrivono, l’orecchio volto al vento, fantasie rotatorie altrettanto flatulente dell’elemento che gliele detta? Se aggiungete a questa impeccabile visione del vero un’effettiva incapacità in determinate circostanze, una delicatezza di sensi così squisita che una sola nota falsa bastava a torturare, una finezza di gusto che tutto, salvo la proporzione esatta, rivoltava, un amore insaziabile del Bello, che aveva assunto la potenza di una passione morbosa, non vi sorprenderete che per un uomo simile la vita sia diventata un inferno, e che sia finito male; vi stupirete semmai che sia potuto durare così a lungo”.
Charles Baudelaire conclude, con tali parole, la prima parte del suo saggio “Edgard Poe, la vita e le opere” che introduce i “Racconti del mistero”, in cui lo scuro vocifera, inesorabile, tra i fuorvianti intrighi di una spessa nebbia per sviscerare, tra il tremolio di una foglia e una gocciola di rugiada, l’“odore che usciva dalla foresta (in cui) si spalancava un universo di suggestioni, un gaio e fantastico corteo di pensieri entusiastici e disordinati”, avulso dalla luce del nichilismo e dell’erotismo dell’animo di Sade. In Inghilterra, avrebbero affermato “The romantic agony” di Praz, profluvio descrittivo della cultura romantica europea del secondo Ottocento e del suo tormentoso e agonico svigorimento nel Decadentismo di fine secolo.
Vagare in un’enigmaticità perturbante, artigliati da un giogo della psiche, tra perpetui grotteschi e arabeschi che si avviluppano tra le fitte e vertiginose chiome cineree e tra fonti melmose e livide dell’esiziale ubbia di Fosca. Sulle cime delle cattedrali dello spirito, si elevano i soliloqui dell’essere, prima del Giudizio Universale. Scendere in una bellezza medusea, intorbidata dalla morte fino al candore d’Ermione, “mentre la Luna è prossima a le soglie/cerule e par che innanzi a sé distenda un velo/ove il nostro sogno si giace…”. Il fuoco espressivo trascende il rappresentato nella minuzia dei tratti che si inseguono, affiancando l’espandersi dei sensi in un collocamento visibile che traccia l’immagine interiore. Così, le Foreste dei simboli baudelairiane sorgono spontanee nel cesellamento capillare del segno.
Max Klinger riportò il concetto dell’incisione come mezzo più esplicativo della silente segretezza della personalità degli artisti nel suo trattato “Malerei Und Zeichmung” (1891). Con tale premessa procediamo all’interno della nuova sede della Libreria Gonnelli, in via Fra Giovanni Angelico 49, a Firenze, per accedere all’universo di una quadreria, in cui si disvelano le opere dei contemporanei “neo-simbolisti” Agostino Arrivabene, Edoardo Fontana, Sonia De Franceschi e Simona Bramati, prossimi alle opere di Félicien Rops, Armand Ransenfosse, Jules Barbey d’Aurevilly, Joséphin Péladan, Fernand Khnopff, Alexandre Séon, Henry Chapront, Max Klinger, Otto Greiner, Fran von Stuck, Max Zschoch, H. Thiriez, Alméry Lobel-Riche, Marce- Lenoir, Valère Bernard, Harry Clarke, Frank C. Papé, Austin Osman Spare, Oscar Wilde, Willi Geiger, Georg Lührig, Bruno Héroux, Fritz Pauli, Richard Müller, Tyra Kleen, Franz von Bayros, Olidon Redon, James Ensor, August Brömse, Gino Dé Bini, Alberto Martini, Marcel Roux, Hans Schwaiger, Ignatius Taschner, Joseph von Divéky, Karl Reisenbichler, Alfred Kubin/Jules Barbey d’Aurevilly, Jan Konůpek/Karel Jaromìr Erben, John Austen, Henry Evernepoel, Romeo Costetti, Carlos Schwabe, Charles Ricketts, Victor Prouvé, Charles Schtüz, Henri Bellery Desfontaines, Vernon Hill, Rudolf Jeittmar, Félix Bracquemond, Edmond van Offel, Edward Gordon Craig, Carl Nagel Dick, Wilhelm Heise, Frank Sepp, Willy Pogany, Wilhelm Schultz, Sascha Schneider, Maurice Dumont, Louis Legrand, Raoul Dal Molin Ferenzona, Hans Antsberger, Franz Christophe, Wilhelm Hecht, Hans Thoma, Paul Albert Besnard, Angelo Jank, Eugène Viala, Stefan Eggeler e Aubrey Beardsley.
Dall’Ottocento, la Libreria Antiquaria Gonnelli è fulcro d’incontro di pittori e letterati, tra i quali Giovanni Fattori che vi vendeva le sue tavolozze per qualche cavurrino e i maestri del Novecento, quali Giorgio de Chirico, Primo Conti e Ottone Rosai che esponevano nei locali, depositandovi il prestigio della loro memoria. Luogo di preziose edizioni, libri antichi e rarità, fu frequentato anche da personaggi della cultura, come Gabriele D’Annunzio, Giovanni Papini, Ferdinando Martini, Benedetto Croce e gli illustri bibliofili, da Tammaro de Marinis a Umberto Saba.
Nel distinto ornato di compostezza gemmata, privo di insensate ampollosità decorative, in uno sposalizio tra il bianco di Pietrasanta e il verde di Prato, Florentia dispone, sull’Insula Episcopalis e sulle decadenti membra di Santa Reparata, il Duomo della Madonna del “fiore” che è forse giglio dell’Annunciazione dell’Angelo, forse stemma fiorentino, o rosa dei beati dei versi del XXXI Canto del Paradiso di Dante. Ricoperto dalla magnificenza della Cupola del Brunelleschi e fiancheggiato dal campanile di Giotto e dai suoi 398 scalini, il Duomo si scorge – in un lirico scorcio da via Ricasoli, ove dinanzi al Teatro degli infuocati, fu fondata la Libreria Gonnelli nel 1875. Da quattro generazioni tramanda il titolo di una tra le più antiche e storiche librerie antiquarie d’Italia. Tra Otto e Novecento vi erano, infatti, altre due librerie Gonnelli: l’“A.S. Gonnelli”, in via dei Servi 2, gestita da Amos Silvio Gonnelli e specializzata in autografi, e la “Libreria Antica e Moderna Ferrante Gonnelli”, in via Cavour 50 e gestita da Ferrante Gonnelli.
All’ingresso dell’attuale Casa d’Aste vi è il simbolo distintivo, nato nel 1928, dall’incontro tra Hugh Cecil Brooks e Aldo Gonnelli che sostituirono le iniziali dell’editore con le loro rispettive poste sulla destra e sulla sinistra di un maestoso delfino coronato e ispirato da un marchio tipografico precedentemente impiegato da Piero Pacini di Pescia. Secondo lo storico Luigi Passerini, il delfino è simbolo del coraggio, della lealtà, della rigenerazione e divinazione, Nel 1699, quando il territorio di Pescia fu elevato al rango di città dal Gran Duca di Toscana, Cosimo III de’ Medici, il cetaceo divenne coronato. La mitologia vede Apollo frequentemente tramutato in delfino psicopompo, nell’atto di trasportare un uomo sul dorso salvandolo dal destino della morte in mare. Numerose sono le raffigurazioni di Amore o Cupido che cavalca il delfino, e di delfini, che guidano gli uomini in mare. Esempio celebre è l’opera “Trionfo di Galatea” di Raffaello Sanzio. Tra le prime immagini, invece, troviamo quella della civiltà minoica cretese nel Palazzo di Cnosso. Il nobile mammifero apparse, dalla notte dei tempi, come creatura magica e rappresentata con sembianze leggendarie, fino al suo primo avvistamento del 1888, quando affiancò la goletta Brindle, diretta a Nelson.
Nel Revival della Saletta Gonnelli – che reca, al di là della sua soglia, l’insegna “Saletta Gonnelli. Alcuni macchiaioli toscani ed altri. Dipinti dell’Ottocento…” – il ciglio si sofferma immediatamente sulla prima parte espositiva, quella dedicata agli artisti contemporanei. Tuttavia, seguiremo l’ordine che i curatori Emanuele Bardazzi e Silvia Scaravaggi hanno attribuito, con perizia d’ingegno e rigore filologico, all’esposizione suddivisa in otto sezioni.
Per inoltrarsi negli arcani meandri del percorso, rimaniamo assorti nella bellezza de “Gli occhi chiusi” (1890) di Olidon Redon, il “Principe dei sogni misteriosi, paesaggista delle acque sotterranee e dei deserti sconvolti dalla lava“, secondo Joris – Karl Huysmans. Tra conscio e inconscio, in un processo di “individuazione” junghiana, come termine ultimo della propria interezza, oltre la concretezza della vita, l’androgino e sognante volto a occhi chiusi fiorisce dalle acque. Si illuminano, su sponde salvifiche, la distruzione del Caos e la riconciliazione con il tutto, mentre in un’aura soffusa, si compie il peregrinare verso le viscere più interne dell’io. Come epifania di Cristo pronta a chiudere i cicli della Tentazione flaubertiana, si manifesta l’allusione al ricordo, forse allo “Schiavo morente” del Divin Maestro. Si giunge a “Il Sogno” (1883) di Pierre Puvis de Chavannes, “monumentale pittore di allegorie” per D’Annunzio. Sotto al chiaro di luna un giovane riposa fortuitamente nei pressi di un tronco d’albero con rami rigogliosi. Appare una visione celeste, una visione onirica, un sogno nel cielo stellato, in cui fluttuano tre giovani donne. Sono Amore con le rose, la Gloria che reca una corona d’alloro e Fortuna che dissemina monete in terra. Forse è riecheggiamento allucinatorio alle tre Cariti che d’altro canto richiama le tre Moire.
Un turbine evoca, nella sua spirale, un efferato susseguirsi di ossimori eraclitei. “Spleen e ideale. Abissi e redenzioni della Decadenza” è la prima sezione espositiva che si riferisce alle fondamenta del secondo Ottocento e che richiama la logica degli opposti con cui si connota il vivere del poeta-artista veggente. Questi nel sentimento della solitudine, accarezza quella purezza sacrale che è il richiamo all’unico vero “progresso”, quello dell’io che cerca sé stesso nella sua profondità d’essere, contro i beceri risultati del positivismo che strappa via una rosea essenza dirigendo l’uomo allo smarrimento della coscienza. Charles Baudelaire, in “Spleen” (1857), poeticamente trascrive come “…scorre nella grondaia l’anima d’un poeta, /vecchio, triste fantasma frettoloso…”. L’Ideale è aureola che convive con l’antico serpente tentatore. Quando l’angelo “Portatore di Luce” cade dal cielo, quando il figlio dell’aurora cade nel nero, la luce dimora nel buio. Nella scura discesa si desta il desio di elevazione. Il plumbeo goccia, mentre l’oro sublima. Benjamin asserisce di Baudelaire che “la sua vita fosse gonfia di sprofondi, in cui avanzare costernati, rincorrendo arabeschi tracciati su madidi sentieri”. Molti furono gli artisti e scrittori a subire il fascino di “Les Fleurs du Mal”.
Emanuele Bardazzi, nel suo saggio “Con Dio o con Satana? La duplice natura dell’essere umano da Baudelaire a Huysmans”, ricorda che “Nel 1890 Olidon Redon pubblicò per l’editore belga Deman le sue interpretazioni dei ‘Fleurs du Mal’ che seguivano il principio analogico del simbolismo ermetico piuttosto che quello dell’aderenza letterale. Due memorabili edizioni di lusso, per la prima volta interamente figurate, videro la luce a Parigi, la prima nel 1899-1901 e la seconda nel 1900, illustrate a colori rispettivamente da Armand Rassenfosse e da Carlos Schwabe”. Redon, in realtà, non ha mai voluto illustrare “Les fleurs du mal”, ma ha seguito un percorso personale e alla ricerca di consonanze che non hanno certamente ricoperto l’intero componimento. In “Il fiore sulla palude” (1885), la testa lunare scevra del sorriso di “Cul-de-lampe”, nella sua umanizzazione, si erge sullo stelo, chinandosi mentre eccede di luce riflessa nella miserevole impotenza dell’acquitrino paludoso, in cui si annidano le sue radici. “Far vivere umanamente degli esseri inverosimili secondo le leggi del verosimile mettendo per quanto possibile, la logica del visibile al servizio dell’invisibile”.
In “Cul-de-lamp” (1890), il volto enigmatico appare circondato da aculei che imprimono il dolore baudelairiano. Al contempo, antiteticamente, compare il sorriso in un’identità che pendola fra l’angelico e il demoniaco. Già in “Il ragno che sorride” (1888), Redon ha voluto realizzare, probabilmente, un pendant del suo “Ragno che piange” (1881), un ragno con volto antropomorfo e sentimenti umani. Il binomio pianto-riso parla della mutevolezza del destino e dell’imprevedibile Nemesi. Nel 1895, dopo Félician Rops (1866) e Olidon Redon (1890), Armand Rassenfosse viene scelto dalla Société des Cents Bibliophiles per illustrare i “Fleurs du mal”, in un’edizione speciale. Come afferma Vittorio Pica, in “Emporium” (1971), Rassenfosse era stato “amico e collaboratore di quel Félicien Rops, che a Baudelaire fu dilettissimo”. Rassenfosse fu fedele ai poemi, riprendendo spesso un loro elemento specifico, secondo una subordinazione all’autore che non si configurò mai come servilismo. Nell’acquaforte, in “Les Pièce condamnées des Fleurs du mal. Avec une au-forte d’Armand Rassenfosse” (1903) di Charles Baudelaire, due giovani donne, forse amanti, su un letto, sono irradiate da un fascio di luce intenso che le involge in un’esistenza piena, mentre alle loro spalle, la morte suona con il flauto la sinfonia oscura del memento mori, in un’estetica wagneriana che coniuga l’amara sinfonia immaginativa-musicale.
Dopo la scomparsa di Baudelaire, Rops firmò un contratto con l’editore parigino Lemerre, con il quale realizzò otto illustrazioni fotoincise per “Les Diaboliques” di Jules Barbey D’Aurevilly. La prima edizione, pubblicata nel 1874, contenente sei racconti, si esaurì in pochi giorni e le successive copie furono sequestrate per i contenuti scandalosi. In “À un dîner d’athées”, la donna protagonista è nel culmine dell’adulterio, mentre una candela, legame tra materia e spirito, uomo e divino, sfavilla nello scuro. A sancire la collaborazione tra Rops e D’Aurevilly era stato Joséphin Péladan che conosceva l’artista sin dal 1883, instaurando con lui un rapporto che si ruppe verso il 1888, quando lo scrittore aderì con determinazione all’esoterismo e fondò il Salon de Rose+Croix. Nello stesso anno, affidò “Istar” a Fernand Khnopff, capofila delle psychique simbolista. Nel frontespizio, l’artista sembra ripristinare una scena della catabasi della dea, nel momento in cui la sorella Ereshkigal ordina al suo ministro Namtar di scagliarle contro sessanta malattie e colpirla in ogni parte del suo corpo. Una creatura, forse un’apparizione maligna, sembra possederla con i suoi tentacoli arborei. Contrariamente a Dafne, la donna si abbandona in un piacere estatico che ne sancisce la lettura della sua immagine come femme fatale. Contro l’insensatezza di un fuorviante materialismo e delle tentazioni della carne, il Sâr oppose un’estrema idealizzazione della purezza virginale.
Per Peladan lavorò, tra gli altri artisti, Alexandre Séon. Personaggio eccentrico è citato anche nell’“Inferno” di Strindberg che scrive: “…Il primo maggio lessi, per la prima volta, il libro di Sâr Péladan ‘Comment on devient un mage’. Sâr Péladan, fino a quel momento a me sconosciuto, arriva come una bufera, come un’apparizione nata dal ‘Superuomo’ di Nietzsche, e con lui il Cattolicesimo fa il suo ingresso solenne e trionfale nella mia vita …”. Nel 1891 Joris-Karl Huysmans pubblica Là-Bas, di cui un’edizione postuma (1912) fu illustrata da Henry Chapront con acqueforti e acquetinte a colori. L’abisso è quello del satanismo, in cui il personaggio protagonista viene coinvolto. Lo stesso ispira l’etere pernicioso delle rappresentazioni di Chapront. Huysmans lodò “Les Fleurs du Mal” tanto da includere il volume nel suo romanzo “A’ rebours”, di cui il protagonista Des Esseintes impersonifica l’eroe decadente. A fare da sipario tra la prima, la seconda e la terza sezione dell’esposizione è l’artista contemporanea Sonia De Franceschi.
La seconda è interamente dedicata a “Max Klinger antesignano del surreale, tra mito, dramma e straniamento”. Tra le incisioni come “Intermezzi”, “Amor und Psyche, “Vom Tode II” e altre provenienti da diversi cicli, mi vorrei soffermare su “Tote Mutter” (Madre morta) (1889-1893). In “Tote Mutter”, l’artista recupera la scena della pergula dell’antica Basilica di San Pietro in Vaticano, visibile nell’affresco di Raffaello (1520) e che copriva la tomba di San Pietro, modello per le future architetture. La colonna tortile – che in origine adornava il Tempio di Gerusalemme, eretto da re Salomone – è nuovamente esempio per le quinte che, nell’opera dividono l’interno intimo in primo piano, dallo scorcio rigoglioso di un giardino, al cui centro trionfa il giglio mariano che simboleggia la purezza di Maria, Vergine antepartum, in partu et post partem, con i suoi bianchi petali e le antere dorate. Ciò rende il bambino, in primo piano, il Cristo nella sua eternità e rinascita, sopra il corpo della Vergine incoronata e nell’atto di pregare. La posa del bambino guarda la medesima che assume il mostro nel “L’incubo” (1781) di Johann Heinrich Füssli, rinnovando il dualismo tra il bene e il male, anima alla base dell’esposizione. Scrive Giorgio de Chirico che “… Ciò dimostra la genialità dell’opera Klingeriana, che per quanto altamente fantastica o ricca d’immagini le quali, a prima fronte, ed a persone poco scaltrite nelle sottigliezze metafisiche, possono sembrare paradossali e insensate, si basa sempre sul fondamento d’una chiara realtà, potentemente sentita, e non erra mai in deliri e vaneggianti oscuri”. In conclusione a questa sezione, cito l’opera “Die Toteninsel” (L’isola dei morti), (1890). L’artista contemporanea Sonia De Franceschi, in “The Twilight Ritual” (2007) si ispira all’opera di Arnold Böcklin.
L’inconscio recupera la memoria personale e figurale. Nel tempo ciclico riemergono, da un paesaggio non delineato, chiome di alti e vertiginosi cipressi. Nelle plumbee acque primordiali, la nascita e la perdita si fondono in favore della rivelazione più autentica dell’uomo. La dispersione di una natura terrena incontra il ricongiungimento con la profondità del cosmo e con l’intimità più autentica della propria natura spirituale. Nel rituale al crepuscolo, piccole fiamme divengono scie della Rubedo, tramite la sublimazione. La scena si fonda su una simmetria e su una dualità che riporta all’elemento dell’acqua. Un certo riferimento è quello ad Aubrey Beardsley, la cui arte è decantata da Gisbert Combaz, come “un vero tripudio di arabeschi capricciosi, di fiori soprannaturali, di mostri dai volti contratti, di paesaggi incantati – tutta la magia di un’immaginazione errabonda ed estrosa”.
La nostra ricongiunge, inoltre, la prima sezione alla terza dal titolo “La Dama di Picche” che indaga l’eterno femminino. La sua raccolta “Spleen et Idéal”, parte de “Les Fleurs du Mal” (1857) di Baudelaire, è ispirazione per l’omonima incisione che l’artista realizza tra il 1993 e il 1994. Altra fonte fondamentale è il dipinto “Studio per Spleen e Ideale” (1907) di cui una versione era stata già realizzata da Carlos Schwabe, nel 1896. Torna la circolarità vorticosa delle linee nel legame volatile tra le due figure. Matrimonio tra Amore e Morte è sostituito dalla metamorfosi nelle fate di racconti nordici che si muovono in uno spazio indefinito. Riferimento alla terza sezione sono, invece, “Invocation” (2003) e “The Awakening” (2006). La prima è suggerita dal romanzo “Il monaco” (1796) di Matthew Gregory Lewis. La donna, in procinto di trafiggersi il polso per invocare il diavolo, in aiuto del religioso è Matilda. La donna ha una posa ieratica e una gremita e nerissima capigliatura. In secondo piano e in volo, l’angelo ricorda la soglia tra il divino e il demoniaco. La seconda opera vede una delle spose di Dracula rappresentata in un’illusione visiva a metà tra la caduta e un rovesciamento dell’immagine. La veste e i capelli della donna discendono o ascendono tra due teste femminili scolpite nella pietra. Da un ammasso roccioso, in secondo piano, sembra fuoriuscire il simbolo di Dracula che ci inoltra nella donna demonio e nel femminismo “satanico” della terza sezione.
Sono numerosi gli artisti che hanno affrontato la misoginia, la pornocrazia e il femminismo satanico che hanno affrontato nelle loro opere, come Félicien Rops, Otto Greiner, Marcel-Lenoir e Franz von Stuck, fino alle illustrazioni della Salomè di Oscar Wilde, eseguite da Aubrey Beardsley, Marcus Behmer e Alastair. Gran parte delle rappresentazioni di von Stuck si incentrano sulla maestosa sensualità della femme fatale. Il femminino diviene tentazione diabolica per l’uomo di genio che tende all’amore spirituale. Nella mente dell’artista si districa, sinuoso, sulla carne della donna, il serpente della Genesi, retaggio del peccato primordiale che avvolge la voluttà corvina della peccaminosa. Oscar Wilde, in “La bella donna della mia mente”, così inizia a descrivere le sue sensazioni verso la donna: “Una fiamma di incendio mi divora, /ho i piedi insanguinati dal cammino, /per aver troppo invocato il mio Amore, /le mie labbra non sanno più cantare. …”.
A questa sezione appartiene anche il lavoro dell’artista contemporaneo Edoardo Fontana. Due suoi cicli hanno visto la luce negli ultimi anni: del primo fa parte la xilografia “Salomé” che reca l’omonimo nome del ciclo iniziato nel 2012 e terminato intorno al 2021; il secondo intitolato “Nekya” del 2022 è concepito con quattro xilografie ed è ancora in fase di realizzazione. Il nostro attinge a un archivio colto. Per l’opera “Olalla o Empusa” si è ispirato all’omonimo romanzo di Robert Luis Stevenson (1885). In un ripudio delle pulsioni, Olalla china raffinatamente il capo con elegante chignon, mentre la tensione liberativa dell’estasi si appoggia sulle mani congiunte che sorreggono il busto curvato in avanti. Olalla, unica sopravvissuta al processo di “regressione” della sua famiglia, cela il mistero del risanamento spirituale. La giovane donna, devota e colta, si dota di una protesi ornamentale, un foulard, la cui decorazione sconfina dal tessuto per abbracciarne le natiche. Per Joseph Rykwert, l’ornamento è da assimilarsi al concetto più ampio di “decor”, secondo lo svelarsi di un percorso di sensi, voluto nella costruzione dell’opera come parte integrante del manifestarsi dei suoi significati primari, senza i quali non può considerarsi completa.
Dunque, il procedere decorativo rivela l’essenza stessa della donna. Il piccolo volatile, appartenente alla famiglia degli Anatidi, secondo i Celti, i Sanscriti e i Greci, è uccello sacro per il suo valore simbolico, quello della creazione del mondo. La sua migrazione – che si compie ogni anno in coppia ha la valenza di ricerca spirituale come ciclo delle rinascite. Gli antichi Egizi lo associavano alla dea Iside, divinità celeste e moglie di Osiride, dio dell’oltretomba. Ciò rivela la vera natura di Olalla e la sua preoccupazione verso il soldato con cui nutre un reciproco affetto. Il romanzo fu pubblicato il 24 dicembre durante la strenna di Natale, in corrispondenza della diffusione di racconti sulla rinascita. Empusa o Ecate, come il Giano, si riferisce all’abilità di interagire con due differenti realtà, per il suo appellativo di amfiprwspoz (dalla doppia faccia). Nel sistema caldaico Ecate svolge la funzione di mediatrice tra i due regni, l’intellegibile e il sensibile, in cui si pone come anima cosmica, oltre a essere guida protettrice nella discesa agli inferi e nella successiva ascesa in terra. “Olalla – afferma Silvia Scaravaggi – non rivolge il suo sguardo a chi la osserva…, lo farà un istante dopo guardando fissi negli occhi gli astanti, in “Nekyia”, xilografia cruciale del ciclo, realizzata sempre nel 2022… nel temine greco “Nekyia” è racchiusa sia l’evocazione dei morti compiuta da Odisseo in un episodio del suo viaggio narrato da Omero, sia la riflessione sul tema del Vampiro … .
Il doppio intride altre due opere dell’artista: “Il diadema” (2023) e “Il sacrificio” (2023). Nella prima, un teschio di una ragazza greca si sostituisce alla testa del Battista. Tuttavia, la figlia della Erodiade è la stessa Olalla, incoronata dal serto del Museo Archeologico di Patrasso, dotato di fiori e di frutti di mirto in terracotta smaltata. Il mirto, simbolo di purezza, è legato al nome di Venere. Il nome Olalla si riferisce, infatti, a una santa e martire spagnola. La rinuncia all’amore carnale è salvezza che avvia all’amore puro tra la vita e la morte. In “Il sacrificio”, una Olalla regge una falce rituale, l’altra una lucerna. La falce è tra i simboli più arcaici del mito greco, ed è attributo sia di Kronos sia di Saturno. Il saggista Robert Graves indica la falce di curva Kronos come becco del corvo e falce lunare. Kronos con un falcetto di diamante evira il padre Urano, come accadrà con Zeus verso Kronos stesso. Da tale evirazione nascerà Afrodite. La falce, in Saturno, è attribuibile invece al tempo curvo di aion e dell’ouroboros. La falce trova, inoltre, un archetipo nell’apocalisse di Cristo quando risorto è rappresentato con una falce su una nuvola, durante la mietitura escatologica del giudizio divino, tema caro a Bosch. Nel suo doppio, Olalla regge una lucerna, legata ai riti di purificazione e di divinazione sacre nel mondo greco-romano. La lucerna, nell’esoterismo, è principio della conoscenza, la luce che illumina le tenebre e l’uomo, purificandolo. La sua sostanza, dispersa nell’aria, si eleva mettendo in connessione il terrestre e il divino. Il tema dell’estasi e dell’amore conduce alla quarta sezione, “Estasi, tormenti e trasgressioni dell’Eros”.
Non solo “Les Diaboliques” di Jules Barbey d’Aurevilles ma anche la passione ardente degli amanti di Willy Geiger, “Psyche et Pan” (24 dicembre 1905) di Tyra Kleen e “Circe” di Franz von Bayros ci trasportano nei molteplici corridoi dell’amore e della sessualità.
Partirei dalla finezza espressiva di un’artista donna che scelse la litografia come mezzo privilegiato d’espressione. Anticonformista, Tyra Kleen si trasferì in Germania tra il 1890 e il 1895, ove svolse il suo apprendistato con Max Klinger, a Monaco di Baviera. Nel 1902, torna a Stoccolma, in concomitanza della pubblicazione del poema “En Psykesage” (Una favola di Psiche), da lei ideato e illustrato, forse a seguito di un’influenza scaturita dall’affiancamento di Klinger che realizzò quarantasei acquetinte per la favola di “Amore e Psyche” di Apuleio. Il suo rientro, nel territorio natale, fu brevissimo. Solo pochi mesi dopo, ripartì per partecipare, con le sue undici illustrazioni, all’“Esposizione Internazionale di Bianco e Nero”, a Roma. Sempre a Roma, realizza “La Chevelure” (La Capigliatura), ispirata all’omonima poesia dei “ Les Fleurs du Mal” di Charles Baudelaire. Psyche è poeticamente colta nella disperazione della perdita della gioia e dell’amore, mentre si lascia trasportare a riva dalle correnti del fiume su un terreno brullo e ricoperto da una distesa di pietre. In lontananza si erge l’imponente figura di Pan, intento a suonare il suo flauto, mentre il suo riso ricorda il suo animo selvaggio e privo di valori, dinanzi al dolore indotto alla fanciulla dalle brutture esistenziali.
Nel passaggio alla quinta sezione, chiudo la precedente con “Lussurie” di Paul Verlaine che, nei primi versi, restituisce appieno il sentimento dell’Eros nelle sue sfumature: “Carne, o solo frutto addentato dei giardini di quaggiù/frutto dolce amaro che impasta i denti di chi è solo/degli affamati di solo amore, bocche o gole, /e buon dessert dei forti, loro allegro desinare. (…). “Danze macabre e orrori della guerra” comprende, tra le diverse opere: “La Mort: Cest moi qui te rends Sériuse; enlacons-nous” (La Morte: sono io che ti rendo serio: abbracciamoci) (1986) di Olidon Redon, “Squellettes voulant se Chuffer” (Scheletri che vogliono risaldarsi) (1895) di James Ensor, “Teufelskinder” (1921) di Alfred Kubin, “Allegoria della guerra” (1915) di Carlos Schwabe, “Tales of misystery and immagination” (1919) di Harry Clarke. Mentre il diavolo si insinua nell’uomo, il Male diventa memento per la salvezza dell’anima e ricorda, nella credenza cristiana e anticonformista, l’esistenza di Dio e della redenzione. Roux esegue le otto serie di acqueforti, realizzate tra il 1904 e il 1913, su tali credenze. Tra queste, “Danse macabre” (Danza Macabra) (1904) vede la ricorrente figura della Morte-scheletro pronta a divorare l’anima della donna in una danza tetra e visionaria. La luce irrompe nel buio, illuminando il corpo della donna e il cielo sopra le oscure ali, mentre la Nera Signora suona la campana. Subito ci sembra di sentire “Totentanz” (La danza della morte) (1859) di Franz Liszt. Mentre osserviamo la scena, sembra di udire i passi dello scheletro di “Danza macabra” di Baudelaire.
Spontaneo è il passaggio alla sesta sezione “Le tenebre e la luce” che accoglie, oltre alle atmosfere notturne di Rudolf Jettmar, a quelle angoscianti di Marcel Roux dalla raccolta “Variations”, alle illustrazioni di John Austen per l’“Hamlet” di Shakespeare, di Willy Pogany per “The rime of the ancient mariner” di Coleridge, alle favole figurate di Wilhelm Schulz, anche le opere del maestro contemporaneo Agostino Arrivabene. In “Vanitas”, piccole stille sanguigne color rubedo colmano il Sacro Graal, nella Passione che la Vergine feconda accoglie nella purezza del giglio, mentre nel numero trino del frutto e della sua foglia ricade il suono perpetuo della Trinità. Così radici serpentine si avviluppano in una nuova fertilità che, doppia, trionfa nella rinascita dal nero. Nel desertico terreno, come guglia si innalza la Regina della notte. La nube scende sulla Madre, mentre la tenda sostiene la gemmazione. La rosa dorata rompe la pietra filosofale nel soffio dello spirito.
In “Theoin”, nella sterile veduta si posa Morfeo che stringe, nel divin cerchio, due giovani amanti mentre, per volere di Zeus e per amore di Demetra, si libra un turbinio con forza ciclopica femminea che si sprigiona nel ritorno di Ade e Persefone. Il trionfo di Eros invade “Erotomachia infera” (2023), mentre la germinazione della purezza ingloba “Noplastico” (2021). Afferma la curatrice: “ ‘Olos-Caustos’ (2019-2020) e ‘Vergine fossile’ (2021) (sono) manifestazioni più recenti della cogitazione dell’artista sui temi del sacro. Due immagini universali, Cristo, figlio Redentore, e la Vergine, madre e Madonna si presentano come frutto maturo di un attraversamento dei miti primigeni, dalla mitologia greca con i misteri eleusini e le simboliche rappresentazioni di dèi e dee fino ai testi cristiani e a una dimensione spirituale universale”.
La figura di Cristo ci accompagna alla settima sezione, dal titolo “Cristo all’inferno, i due contendenti”. Si apre il dualismo tra lo spirito e la carne e tra il sacro e il profano che coesistono in ogni individuo. Il conflitto manicheo tra il Bene e il Male si esprime nelle visioni apocalittiche di Sascha Schneider, nelle crocifissioni di Otto Greiner, nel “Lucifero” di Franz von Stuck, nell’“Autoritratto in veste di Cristo” di Louis Legrand e da “Les doux Conquérant” di Maurice Dumont. “Lucifero” risale al periodo del “Monumentale oscuro” di von Stuck. Uomo-demone, possente, con le ali nere dispiegate, dirige lo sguardo fermo verso l’osservatore, mentre assume la posa de “Il pensatore” di Rodin.
L’ottava e ultima sezione “Dissonanze/Dissidenze dell’ibrido e del difforme” contempla nuovamente la spiritualità e la carnalità, l’umanità e l’animalità, il maschile e il femminile, binomi che si concretizzano in creature fantastiche come fauni, centauri, sirene e mostri, nelle opere di Félicien Rops, Max Klinger, Otto Greiner, Austin Osman Spare, Franz von Bayros, Aubrey Beardsley, Hans Thoma, Stefan Eggeler, Eugène Viala, fino agli illustratori di “Jugend”. Si rompe l’estetica convenzionale per giungere a creature semi animali nel desiderio di un ritorno alla natura originaria. A quest’ultima sezione, si lega l’operato dell’artista contemporanea Simona Bramati che, mentre in “Villaggio Mondo” (2023) circoscrive un paradiso di centauri liberi, in un prato, come nell’opera “Velfogter Centaur” (1881) di Max Klinger, in “Coga” rappresenta una sirena, recuperando una ricca tradizione figurale, ispirata al soggetto.
Da “Abgeblitz!” (Respinto!) (1897) di Hans Thoma a “Centaure et nimphe” (Centauro e ninfa) (1900) di Paul Albert Besnard, dall’illustrazione per “Dulces Umbras. Novellen 12 Bildbeigaben” (1900) di Franz von Bayros a “Centauresse” (Centauressa) di Félicien Rops. Richiamando un sentire interiore in grado di sprigionarsi nella materia, Simona Bramati infonde, nelle trasparenze e nelle sovrapposizioni delle velature, un sentimento puro che solleva l’essere dalle increspature del non detto. Le Cogas, cacciate dal paese di Villa Cidro, erano dotate di un piccolo pezzo di coda. Esseri magici, venivano identificati come demoni e streghe, e per questo forse associate dall’artista alle sirene. Il corallo è volto della creatura ibrida, talismano di protezione contro il malocchio nella vita presente e futura, è sangue di Cristo nella sua Passione e Resurrezione, nella natura umana e divina. Sia la sirena, sia il corallo sono meravigliose creature marine. L’oro rosso appartiene al mondo animale, come affermato da studiosi e medici, tra i quali l’alchimista e astrologo Filippo Finella e Henry Lacaze-Duthiers, nel volume “L’histoire naturelle du corail” (1864). Sgorga vivido e intenso il Corallium Rubrum, preziosa apparizione marina, mentre il corpo si prepara all’ascensione verso il divino.
Secondo la filosofia platonica, “Parusia” è presenza delle idee e del divino e dell’essenza ideale nel mondo sensibile. Così in Nut, il serpente è forza spirituale ed esprime il potere, l’autorità, la trasformazione, la rinascita e la rivitalizzazione del divino. Tuttavia, l’immagine rievoca la terza sezione della femme fatale e le opere, in cui la sensualità femminile coincide con l’essere demoniaco che tenta e distoglie l’uomo, conducendolo verso la lussuria, come in “Sensualità” (1891) e nel “Il peccato” (1899) di Fran von Stuck. Quelli della nostra sono esseri soprannaturali, sopraggiunti nella realtà da un armonico vincolo tra utopia, immaginazione e memoria personale. “Luperco” e “Diaballo” (2023) sono due momenti di purificazione dalle tenebre. “Diaballo” si libera dal velo, nella lotta con il sangue, per riconoscere e stringere l’epidermide dell’essenza, nella meraviglia di un oscuro che rivela la purezza della luce. La separazione riconosce, nelle parti ricongiunte, l’amplesso dell’essere.
Il catalogo è edito nella collana Quaderni Gonnelli (Quaderno n. 11) che, da oltre quarant’anni, esplora il campo della grafica con approfondimenti inediti del periodo italiano e straniero tra Ottocento e Novecento.