Con la mostra Africa. Le collezioni dimenticate, i Musei Reali di Torino si confrontano con la questione coloniale e il tema delle restituzioni dei manufatti, esponendone alcuni in collaborazione con ’Istituto di Studi Etiopici di Addis Abeba e l’artista, docente universitario e intellettuale etiope Bekele Mekonnen. Fino al 24 febbraio 2024.
Tra i ricchi doni che Menelik II, imperatore d’Etiopia, fece portare nel 1889 a Umberto I re d’Italia, in occasione della ratifica del trattato di Wuchale, era presente un magnifico kebero – tamburo ecclesiastico simbolo della Chiesa Ortodossa Etiope – estremamente raro e prezioso per la sua cassa di risonanza in lega di rame e finiture in argento, interamente decorata da raffinati motivi a intreccio che formano al centro una croce greca. Non era la prima volta che Menelik tentava, attraverso l’invio di delegazioni diplomatiche portatrici di doni, di costruire relazioni di reciprocità e collaborazione per difendere il proprio territorio e la sua autonomia, scongiurando il conflitto con l’Italia, sempre più aggressiva nei confronti dell’appena consolidato e forte regno etiope.
È noto quanto tali sforzi siano stati vani: il tentativo italiano di imporre un protettorato in Etiopia portò alla guerra tra i due paesi, alla tragica sconfitta dell’Italia presso Adwa (1896) e successivamente alla violenta e sanguinosa conquista dell’Etiopia, che divenne colonia italiana nel 1936 fino al 1941. Entrato nelle collezioni dell’Armeria Reale dei Savoia, il kebero di Menelik fa parte delle centinaia di oggetti, provenienti da diverse regioni dell’Africa, finiti per anni nell’oblio dei depositi e adesso finalmente riportati in luce, restaurati ed esposti presso le Sale Chiablese dei Musei Reali di Torino.
La mostra Africa. Le collezioni dimenticate, ideata e prodotta dai Musei Reali con la Direzione Regionale Musei Piemonte e il Museo di Antropologia ed Etnografia dell’Università di Torino, in corso fino al 24 febbraio 2024, è un’operazione coraggiosa e necessaria, frutto di un complesso lavoro collettivo che è solo all’inizio e ci si augura possa proseguire secondo gli intenti dichiarati dalle curatrici Elena De Filippis, Enrica Pagella e Cecilia Pennacini. Rappresenta infatti il prendersi carico di una sfida importante per i musei: quella di confrontarsi con la questione coloniale e il tema delle restituzioni, ormai ineludibile nel dibattito internazionale. Nel suo voler essere “un contributo alla decolonizzazione nella città di Torino” questa mostra porta il capoluogo piemontese in prima linea nella costruzione di un nuovo paradigma museale (insieme al MAO, Museo d’Arte Orientale che pure di recente ha avviato un discorso di decostruzione della colonialità) attraverso la creazione di una rete di istituzioni.
Essa comprende il Museo delle Civiltà di Roma, fortemente impegnato a ricollocare criticamente il proprio patrimonio e la propria identità nella storia globale, che per questa occasione ha prestato alcune importanti sculture e pitture, ma anche l’Istituto di Studi Etiopici di Addis Abeba e l’artista, docente universitario e intellettuale etiope Bekele Mekonnen. Quest’ultimo ha svolto, in collaborazione con la curatrice e storica dell’arte Lucrezia Cippitelli, una residenza presso i Musei Reali che gli ha permesso da una parte di partecipare al progetto e dare il proprio prezioso contributo a una più corretta interpretazione delle collezioni riportate in luce, dall’altra di reinterpretarle attraverso nuovi lavori appositamente prodotti e inseriti nel percorso espositivo.
Parola d’ordine è stata dunque fare sistema, includendo le istituzioni, e quindi gli studiosi e gli artisti, dei paesi da cui provengono le raccolte: per creare ponti e permettere non solo al pubblico italiano, ma anche a quello dei paesi d’origine, di riscoprire questo patrimonio insieme alla storia che racconta, in un’ottica di condivisione e collaborazione che superi la ristretta concezione occidentale di proprietà.
Non è semplice né scontato, in un paese come l’Italia che ha rimosso il proprio passato coloniale e troppo a lungo si è crogiolata nel falso mito di un colonialismo buono e portatore di civiltà, negando che le guerre e le conquiste coloniali italiane siano state, al pari di quelle di altre nazioni europee, operazioni violente e illegittime nei confronti di popoli che furono sottomessi (anche ricorrendo a mezzi illeciti, come l’uso di gas venefici e asfissianti), trucidati (basti citare la brutale rappresaglia nota come strage di Addis Abeba, compiuta nel 1937 da civili italiani, militari e squadre fasciste contro civili etiopici) e poi discriminati, sfruttati e depredati della propria identità culturale. Al contrario di quanto si tende a pensare, seguendo luoghi comuni abbracciati dalla cronaca odierna più superficiale e sensazionalistica, la cancellazione del passato è stata operata dalla narrazione ufficiale. Riportare alla luce la memoria storica, lasciando che gli oggetti e i documenti di quel passato ci parlino da prospettive molteplici, è allora l’unica vera operazione utile a contrastare l’oblio.
Coprendo un arco temporale compreso tra il 1832 e il 1936, la mostra propone un percorso storico che partendo da sculture, utensili, amuleti, gioielli, armi, scudi, tamburi e fotografie storiche mette in luce le figure che ne motivano l’arrivo in Italia e l’inclusione nelle collezioni sabaude. A partire dai primi esploratori, o “avventurieri”, che contribuirono alla costruzione dell’ideologia coloniale attraverso la diffusione di un immaginario di viaggio frutto di pregiudizi e presunzione di superiorità, passando per le raccolte di ingegneri, tecnici e operai italiani al servizio dell’amministrazione belga in Congo. Infine, le sale dedicate alle opere provenienti dai territori occupati dall’Italia (Eritrea, Cirenaica e Tripolitania, Somalia, Etiopia): molte di esse arrivate come doni diplomatici, altre come trofei di guerra e altre ancora depredate.
L’intervento di Bekele Mekonnen si inserisce in punta di piedi nelle sale dedicate all’Etiopia, con video, tracce sonore e testi che restituiscono identità linguistica e culturale agli oggetti esposti, mentre nell’ultimo ambiente si manifesta con l’impatto di una grande installazione site-specific, The Smoking Table. Il tavolo è quello della spartizione dell’Africa, avvenuta durante la Conferenza di Berlino del 1884-85, a cui l’Italia partecipò assicurandosi il suo boccone. Mekonnen ricorre a oggetti simbolo di guerra e sopraffazione (gli stivali militari e le valigie dei colonizzatori, metaforicamente piombate con violenza sui popoli africani), avvolti da un fumo che è indizio di “un fuoco che ancora brucia” e che non permette di “vedere chiaramente le cose”. Alle pareti della stanza l’artista ha affisso pagine di quotidiani italiani d’epoca che riportano la cronaca della conquista dell’Etiopia. Ci vogliono forza e onestà per leggerle e confrontarsi con quelle parole di dominio e disprezzo. Occorre allora guardare onestamente al passato, afferma Mekonnen, per decolonizzare il nostro immaginario: questo forse è il nodo più difficile da sciogliere, più importante di qualsiasi restituzione.
Curiosamente, negli stessi giorni in cui inaugurava Africa, apriva al pubblico a due passi dalle Sale Chiablese la mostra Liberty a Torino, presso Palazzo Madama. L’epoca dell’Art Nouveau coincide con gli anni dell’imperialismo occidentale ed è noto, ad esempio, che nelle grandi esposizioni delle arti e delle industrie – anche in quella, celebre e celebrata, del 1902 – fossero presenti i cosiddetti “zoo umani”, allestiti a beneficio della propaganda coloniale. Ma di questo non c’è traccia in una narrazione che esalta il mito della bellezza ideale nella sua versione rinascimentale italiana, dimenticando che in quegli stessi anni accadeva l’incontro fatidico tra l’arte africana e quella occidentale: niente sarebbe stato più come prima. Anche se Picasso e gli altri continueranno per lungo tempo a definire le civiltà africane come selvagge e primitive, replicando lo stesso meccanismo di oggettivazione dell’Altro alla base dell’ideologia coloniale.