Il MAH di Ginevra (Museo di Arte e di Scienze), in concomitanza all’opening dell’edizione 2024 di ArtGenève, ha presentato la sua quarta edizione del programma “Carte Blanche”, quest’anno affidato all’artista belga Wim Delvoye
“Carte Blanche à…” è un progetto che coinvolge tutte le sale del piano terra del maggiore museo svizzero in fatto di grandezza, il MAH di Ginevra. Una sfida che non era scontato risolvere in una maniera egregia come Delvoye ha fatto, ponendo sul piatto – oltre alle opere – una riflessione profonda sui meccanismi che regolano la percezione degli oggetti, la malattia del collezionismo e dell’archivio, la potenza della storia e le possibilità di una iconoclastia surreale che oggi, più che mai, appartiene pericolosamente non solo all’arte ma a tutte le declinazioni della cultura. La differenza tra la distruzione del senso operata dai media e quella caustica di Delvoye è, però, abissale e, chiaramente, tutta giocata sul piano della conoscenza della cultura; viene in mente Picasso e la sua “A dodici anni dipingevo come Raffaello, però ci ho messo tutta una vita per imparare a dipingere come un bambino”. Delvoye, come un bambino coltissimo, si permette di offrire alla storia dell’arte e al “senso comune” intorno agli oggetti un détournement, una metamorfosi di significanti (ovvero il concetto veicolato da un’immagine) che ci portano a entrare in un quello che si potrebbe difinire un altro grado di realtà, il mondo dell’artista.
Nato nelle Fiandre nel 1965, Wim Delvoye non ha mai fatto mistero della sua appartenenza ad un territorio che di Surrealismo e di visioni ha fatto la propria bandiera, basti pensare a Paul Delvaux, a Magritte, o alle produzioni contemporanee di colleghi come Jan Fabre e Berlinde De Bruyckere, inquietantemente ancorati a quel che resta di una realtà che si sfalda sotto il nostro sguardo. Marc-Olivier Walher, direttore del MAH e compagno di Wim Delvoye in svariate avventure intellettuali, iniziate a New York nei primi anni 2000, dove i due si conobbero come “espatriati dell’arte”, cita il filosofo Eric Bracke per definire la poetica di Delvoye come quella di “Un artista che si situa tra Diogene e Prometeo, tra cinismo e sublime. Un esteta che non smette mai di rimandarci alla mutevolezza e alla fragilità della realtà, sottoponendo il nostro sguardo alle stesse torsioni e deformazioni che infligge a certi capolavori d’arte”.
E infatti, si parte da una serie di copie di sculture classiche “vitalizzate” attraverso lo scorrere in esse di una serie di sfere metalliche, strani percorsi che ricordano flipper d’antan vicini alle estetiche surreali dei belgi, chiaramente, ma anche di Dalí o De Chirico. Un’esplorazione del nascosto, del pieno e del vuoto, di quello che sta “dentro” e “dietro” le opere d’arte.
D’altronde, la riflessione da cui Wahler e Delvoye sono partiti è proprio dedicata allo “status” museale: come si può immaginare un altro sguardo ad una collezione? Attraverso quali “altre esperienze” si può andare oltre un dispositivo, una cornice? Come liberare le idee precostituite e il portamento “ingessato” che si riserva alle visite ai musei? L’artista risponde, in questo caso, con un’installazione (Le juste retour des choses) che da sola varrebbe la visita all’intera mostra e che – ad un primo sguardo – può apparire un puro esercizio iconoclasta: attraverso un sistema di binari-tubi d’acciaio che si arrampicano sui muri e sfondano riproduzioni di dipinti di Picasso e sculture lignee a tema religioso, attraverso i quali passano grandi biglie il cui rumore destabilizza lo spettatore, si aprono buchi, gallerie, varchi che formano nuovi pensieri intorno ai concetti di sacralità e inviolabilità dell’opera, ma anche degli spazi culturali; che cosa si nasconde oltre i muri, e che cosa significa “giocare” tra stucchi e storia? Inoltre, si apre qui un vero e proprio dialogo illustre, quello con il video Conical Intersect (1975) di Gordon Matta-Clark, che aveva a sua volta “denudato” e disvelato l’architettura pre-Beaburg.
“Tutta la mostra – scrive il curatore – è attraversata da questa esigenza di sguardo sempre dinamico, passando da un sistema di riferimento all’altro, dalla quotidianità alle Belle Arti, dal banale al sublime, dall’ornamentale al giocoso”.
Continuando nelle sale successive sono un annaffiatoio, un motorino, un carrello, un secchio – tra gli altri oggetti – ad essere trattati alla stregua di manufatti “nobili” (come potrebbero essere considerati gli strumenti musicali), atti alla produzione di arti liberali e non di arti servili: questi attrezzi da “lavoro”, infatti, hanno trovato grazie a Delvoye la loro relativa custodia foderata di velluto rosso: l’involucro che si riserva – appunto – alle “cose preziose” quando le si mette a dormire. Un altro colpo alla percezione dello spettatore, perso tra l’atteggiamento ludico e il rigore di un allestimento che fa a pari con la collezione permanente del museo, ricca dei colori scuri e delle armature pesanti che appartengono alla storia d’Europa.
Sarebbe molto facile definire tutta questa operazione un ready-made ispirato ad una raccolta, ma il gioco di Delvoye è ben più sottile: strizza l’occhio a Duchamp, ma anche alla politica – dipingendo lo stemma del Canton Genève su un’asse da stiro – e all’ossessione del collezionismo. Di qualsiasi tipo. Impressionante, infatti, è la raccolta che Delvoye ha realizzato dei coperchi di formaggio La Vache qui rit: in 126 pannelli sono raccolte tutte le edizioni, tutte le tipologie e tutte le versioni – comprese quelle esportate, dalla Germania alla Tunisia. E proprio attraverso un progetto dell’artista con Laiteries Réunies Genève (Latterie Riunite Ginevra), l’arte di Delvoye uscirà dal museo iniziando un nuovo circolo: sui coperchi dei barattoli di creme spalmabili saranno stampate una serie di immagini di opere presenti in “Carte Blanche. L’Ordre des choses”, così che tutti – a milioni – potranno diventare collezionisti e replicare, di una certa forma, la compulsione dell’artista per gli oggetti e il loro accumulo organizzato.
Ma l’ossessione per la collezione, a volte, fa rima con quella per la costumizzazione, per il logo che accompagna l’esterno, l’involucro che – in realtà – dovrebbe essere semplicemente il guscio di altro ben più importante: rovesciamento del contenitore che supera il contenuto. Nella Sala 13 sono due scocche di due auto di lusso (una Ferrari e una Maserati) a formare l’installazione La peur du vide, dedicata all’horror vacui, o meglio, alla necessità ossessiva di colmarlo. La carrozzeria delle auto, irriconoscibili a un occhio non allenato, viene qui interamente ricoperta di motivi decorativi di stampo medio-orientale, a rimarcare anche la passione di alcuni territori e di alcune culture per il “tutto-pieno”. In questa sala d’armature e armi, quasi Delvoye l’avesse trasformata idealmente in una boutique monomarca di qualche global-brand, ritroviamo anche pale da neve la cui struttura metallica è riccamente decorata, oltre ad una valigia Rimowa dentro una vetrina, a sua volta completamente piena di motivi, a dimostrazione che le strade si incrociano e si accavallano tra ossessione e collezione, tra ricerca di originalità e volontà di ostentazione di status-symbol.
Chiudiamo, infine, con l’omaggio che l’artista fa alla coppia di svizzeri Fischli e Weiss e al loro film Der Lauf Der Dinge (1987): in questa sala, una delle ultime della commissione, Wim Delvoye – seguendo il filo de Le cours des choses (come del resto si intitola questa sezione) suggerisce l’anarchia della processualità: partendo dai disegni aerotecnici di Panamarenko, Delvoye accosta le trasfigurazioni, le modificazioni, i “colpi di genio” e anche i colpi bassi che accompagnano la nascita di un prodotto attraverso i suoi schizzi preparatori, mettendo in mostra una serie di disegni al limite tra il fantastico e il reale che avvicinano il surrealismo alle più incredibili ingegnerie. Così, Delvoye, come scrive in chiusura Marc-Oliver Wahler, resta “uno specialista nello strappare l’oggetto alle nostre routine percettive per donargli uno splendore, una luce nuova attraverso una serie di interventi e diversivi”. E continuando – aggiungiamo noi – a mettere la pulce nell’orecchio nella società contemporanea da quasi 30 anni, da quei maiali tatuati che già nel 1997 mostravano sulla loro pelle il segno della decadenza e dell’assillo della brandizzazione.