Auro e Celso Ceccobelli (Roma, 1986) vivono a Todi, lavorano a quattro mani sperimentando con i vari materiali le diverse tecniche scultoree e pittoriche. Definiscono i propri lavori sculture performative “post-apocalittiche”, realizzate con oggetti di scarto della nostra società consumistica, con inserti di strutture vegetali e con voci della natura emesse da musica liquida; archeologie contemporanee trasformate poeticamente, fino a diventare macchine celibi, che cercano di trovare un equilibrio tra tecnologia, natura e uomo. Partecipano a esposizioni collettive e personali a livello nazionale e internazionale, spesso in dialogo con il padre Bruno Ceccobelli.
Parliamo di ruote, così centrali nella vostra produzione. Che rapporto avete con questo oggetto?
La ruota ha la forma dell’evoluzione sia della tecnica che della tecnologia, la quale ha portato, negli anni, ad una sempre maggior evoluzione della tecnica stessa. La ruota è il primo elemento tecnologico, e anche oggi mantiene un forte legame con il passato.
Vi rivedete nella moto con due ruote, come due siete voi?
Ci piace molto giocare con il doppio, in fondo siamo gemelli. I nostri lavori siamo noi: ciò che pensiamo, le idee nei confronti della società e di tutto ciò che vediamo e viviamo. Sono provocazioni, suggerimenti, lavori umorali, morali ed educativi allo stesso tempo.
Mi piacerebbe tornare più tardi su questo aspetto morale ed educativo. Intanto, chiacchierando con voi, conoscendovi, mi sono accorta che la parola “provocazione” viene fuori spesso.
Noi giochiamo sempre, tranne quando realizziamo lavori divertenti. Proprio per questo aspetto ludico la gente, a volte, non ci capisce proprio. Per noi il quadro non deve essere per forza quadrato o rettangolare, realizzato con acrilici od oli. Non abbiamo la necessità, e ad essere onesti nemmeno il talento innato, di dipingere entro gli standard accademici.
Penso alle vostre Pneumagrafie: come siete arrivati a realizzarle?
Inizialmente eravamo molto affascinati dal nero su bianco e abbiamo iniziato a sfruttare supporti Garaggeschi per realizzare frottage: olio esausto e grasso di motore su pneumatico, che poi veniva impresso su carta, come se la ruota fosse un torchio, un meccanismo in cui la tecnologia agisce insieme a te sulla carta. Da lì poi abbiamo iniziato a dipingere andando in bici e in moto, passando in bici o in moto prima sul colore (olio esausto e pigmenti naturali) e poi sulla carta.
Anche le cornici delle Pneumagrafie mi sembrano tutt’altro che canoniche.
Esatto, piuttosto che andare dalla corniciaia siamo andati a far visita al nostro sfascio di fiducia, e siamo tornati a casa con dei finestrini.
Avete menzionato prima il termine Arte Garaggesca: cosa significa per voi?
L’Arte Garaggesca è fortemente legata al Caravaggio: i suoi modelli sono persone scartate dalla società, miseri, prostitute e vagabondi, così come gli oggetti che noi riutilizziamo per i nostri lavori. Il Caravaggio non cambiava gli abiti alla prostituta, e nemmeno lavava i piedi al modello: li dipingeva così come li aveva davanti, a lui interessava la crudezza della realtà, fermava l’essenza e l’esistenza di un soggetto in un istante. Allo stesso modo, noi prendiamo la ruota in tutta la sua storia, con ancora i sassi e i vetri incastrati e intrappolati nella gomma calda. Non mettiamo mano alla gomma, la lasciamo piena dei detriti che ha raccolto in corsa. Guardando una gomma, puoi vederne tutto il suo trascorso, il suo passato, lo spazio e il tempo.
Ed è quindi in quest’ottica che si inserisce la scelta di usare materiali come l’olio esausto misto pigmenti per dipingere?
Esatto, è sempre nell’ottica di riutilizzare un oggetto scartato, dargli una destinazione che non sia inquinante, stoccata sotto terra. Ci sentiamo di appartenere ad una generazione che porta sulle spalle un fardello di angoscia: dover recuperare tutti gli errori commessi dalle generazioni precedenti in materia di consumi, spreghi e riciclo. Sentiamo l’esigenza di coesistere con la natura, non solamente esistere.
E quindi, dove risiede la bellezza di un oggetto per voi? Come stabilite il valore di ciò che vi passa per le mani?
Smontandolo. Può essere bello perché puro, o perché è funzionale nella sua singolarità che, insieme ad altri pezzi, diventa qualcosa di nuovo. È una bellezza che non è necessariamente indipendente, ma si completa di più elementi. C’è una sorta di santificazione del pezzo, che viene decontestualizzato, ricontestualizzato e a cui viene data nuova vita. Il termine Pneumagrafia si rifà in realtà al termine greco pneuma, letteralmente “soffio vitale di oggetti animati”: noi lo abbiamo trasferito sugli oggetti inanimati, che per noi hanno una loro vita.
Parliamo un po’ delle Sfuocografie: come si inseriscono nel rapporto uomo-tecnologia-natura?
Le Sfuocografie nascono per dare rilievo alla tecnologia, il cui elemento fondamentale è però il fuoco, che è Natura che si sposta nelle varie direzioni. Vedi, c’è un equilibro tra le componenti: l’uomo interagisce con la natura, il fuoco e il contesto intorno, e con la tecnologia, ovvero il supporto del fuoco e la camera che permette lo scatto. La bellezza della natura è evanescente e non sarebbe possibile vedere tali forme ad occhio nudo, ed è una bellezza anche nel tempo e nello spazio, non è realmente percettibile o palpabile, non la puoi afferrare. In questi scatti la natura prevale: non solo è evanescente, ma non inquina e non danneggia.
Tornando all’aspetto morale ed educativo, ascoltandovi è inevitabile cogliere il vostro impegno attivo e di sensibilizzazione.
Vogliamo delle nuove generazioni che si dedichino alla bellezza del mondo, anche con piccole opere vogliamo essere d’esempio. Abbiamo una visione molto critica del mondo dell’internet: ne riconosciamo il grande valore come strumento tecnologico, ma abbiamo delle perplessità rispetto all’uso che ne viene fatto, e che sta portando le persone a chiudersi in una realtà fittizia perdendo di vista persino i colori che hanno intorno e la vera bellezza del mondo. Anche per questo scegliamo di utilizzare solo colori puri, quelli dello spettro della luce che si vedono se un raggio attraversa un prisma. Non sopportiamo l’arte che viene mangiata e digerita in pochi secondi, preferiamo essere fastidiosi ma incuriosire, vogliamo che le nostre opere non smettano di porre quesiti. Abbiamo trovato un modo quasi dissacratorio per farlo: provochiamo.