Negli ultimi anni, alcune opere attribuite a Gino De Dominicis sono state oggetto di interessanti vicende giudiziarie. I casi affrontati dai giudici italiani riguardano, in particolare, l’attività di autenticazione delle opere. Ed infatti, nel nostro ordinamento, «chiunque, conoscendone la falsità, autentica opere od oggetti (…) contraffatti, alterati o riprodotti» commette il reato di contraffazione di opere d’arte, oggi punito «con la reclusione da uno a cinque anni e con la multa da euro 3.000 a euro 10.000» (art. 518 quaterdecies c.p.; prima della riforma introdotta dalla L. 22/2022, la stessa fattispecie era punita dall’art. 178, comma 1, lett. c), D. Lgs. 42/2004). Abbiamo esaminato tre passaggi giudiziari occorsi in tre tribunali diversi: Roma, Pesaro e Bolzano. Ve ne proponiamo una lettura in 3 puntate.
IL CASO DE DOMINICIS: LA SENTENZA DEL GUP DI ROMA N. 1984/2021.
Uno tra i casi più interessanti relativi alle opere di De Dominicis è quello deciso dal giudice dell’udienza preliminare di Roma, con la sentenza n. 1984 del 6 luglio 2021. Vediamola.
Con la richiesta di rinvio a giudizio del 10 dicembre 2019, il pubblico ministero ha contestato ai due imputati diverse ipotesi di reato: associazione per delinquere (art. 416 c.p.), ricettazione (art. 648 c.p.; fattispecie contestata, in realtà, ad uno solo degli imputati) e, appunto, contraffazione di opere d’arte (delitto previsto, al tempo, dall’art. 178 D. Lgs. 42/2004).
Secondo l’accusa, le due persone tratte a giudizio avrebbero fatto parte di un’associazione a delinquere finalizzata alla produzione di opere false.
Ed infatti, il procedimento penale ha riguardato, inizialmente, una ventina di persone: per due degli imputati si è pronunciato il gup di Roma (con la sentenza in commento); per gli altri diciotto imputati, invece, si è pronunciato il gup di Pesaro, competente per territorio, con la sentenza n. 216/2023. Nell’ambito di tale procedimento penale, le persone imputate non si sarebbero limitate alla sola autenticazione dei manufatti, ma avrebbero altresì promosso – si legge nella sentenza – la «commercializzazione dei falsi, attraverso l’organizzazione diretta di mostre d’arte ed eventi».
Gli inquirenti hanno condotto indagini piuttosto complesse e, peraltro, non poco pervasive, comprensive di appostamenti di polizia ed intercettazioni telefoniche. Nel corso di tali investigazioni, la polizia giudiziaria avrebbe ripreso e fotografato il momento in cui uno degli imputati – noto critico d’arte – firmava le autentiche, all’interno di un hotel milanese: secondo l’accusa, l’imputato avrebbe quindi autenticato le opere senza averle mai davvero visionate, ma basandosi esclusivamente su alcune fotografie dei manufatti. Tale specifica circostanza dimostrerebbe – secondo il Pubblico Ministero – la mala fede dell’autenticatore.
La tesi d’Accusa appena descritta non è stata, tuttavia, condivisa dal Giudice dell’Udienza preliminare.
Quanto al profilo della «irritualità del luogo» (l’albergo di Milano) ove sarebbero state autenticate le opere, il giudice ha precisato che si tratta di una circostanza del tutto irrilevante sotto il profilo probatorio.
Quanto, invece, alla «estemporaneità delle modalità di autentica delle opere», il gup ha rilevato che, a ben vedere, non è affatto dimostrato che l’autentica sia stata apposta senza un preventivo esame dei manufatti.
Di conseguenza, secondo il giudice romano, la tesi d’accusa non è fondata.
Infatti, in casi come questo, la pubblica accusa deve fornire la prova della «consapevolezza della falsità delle opere autenticate»: detto altrimenti, per condannare gli imputati per il delitto di contraffazione d’opere d’arte è necessario provare che questi fossero consapevoli di autenticare manufatti falsi. Nel caso di specie, secondo il giudicante, non solo tale prova sarebbe assente ma – anzi – dalle indagini espletate sembrerebbe piuttosto emergere la buona fede degli imputati. Ciò, in particolare, emergerebbe dalla trascrizione delle intercettazioni telefoniche effettuate dalla polizia giudiziaria, laddove uno degli imputati afferma di essere sinceramente convinto che le opere siano “vere”.
Ma non è tutto. Infatti, la sentenza del gup di Roma invita a prestare particolare prudenza nel giudizio penale in tutti i casi in cui le peculiarità dello stile e della tecnica dell’artista rendano difficile o incerto il giudizio relativo all’autenticità dell’opera. Più esattamente, il giudice romano evidenzia che De Dominicis è «un artista estremamente particolare (…), per il quale potrebbero non trovare applicazione le stesse categorie di falsificazione utilizzabili per altri artisti».
A ciò si aggiunga un ultimo rilievo. Nelle controversie giudiziarie che riguardano (direttamente o indirettamente) l’autenticità di un’opera d’arte, è assai frequente il ricorso alla perizia, quale mezzo di prova con cui il giudice affida ad un consulente tecnico super partes il compito di valutare se il manufatto sia falso. Il gup di Roma, però, evidenzia che nel giudizio penale per la contraffazione di opere d’arte, il ricorso alla perizia non è in realtà risolutivo. Ciò perché anche qualora il consulente d’ufficio accerti la falsità dell’opera, ciò comunque non dimostra che l’autenticatore fosse consapevole di tale falsità. Anche per questo motivo, secondo il gup, l’eventuale celebrazione del processo dibattimentale non consentirebbe di giungere alla prova dell’elemento soggettivo.
Sulla base di questi princìpi, quindi, il giudice dell’udienza preliminare ha pronunciato sentenza di non luogo a procedere, poiché manca la prova della consapevolezza, da parte degli imputati, della falsità delle opere autenticate.