L’uomo e lo psicanalista, Jacques Lacan, raccontato attraverso le opere d’arte che ha collezionato e i lavori di artisti contemporanei in grado di dialogare con esse. Fino al 27 maggio 2024 al Centre Pompidou di Metz, Francia.
Anche se ora assumono un’eco meno impattante, quasi anacronistico, le idee di Jacques Lacan rimangono un passaggio profondissimo e fondamentale nella storia della psicologia. Gli studi dello psicoanalista e psichiatra francese affondano così tanto nell’esistenza umana da superare gli argini stessi della disciplina di riferimento, andando a toccare ambiti come la linguistica, la critica cinematografica e, più in generale, la sociologia e filosofia. Non sorprende, dunque, che il Centre Pompidou di Metz abbia deciso di dedicargli una mostra, ampliando l’analisi del suo pensiero anche in una declinazione artistica. Stupisce, anzi, il fatto che nessuno ci abbia mai pensato prima, anche alla luce della collezione che Lacan assemblò durante la sua vita. Da questa, in parte raggruppata per l’occasione, parte l’esposizione francese.
Se quel che immaginate è un mero elogio indiretto alla psicanalisi, be’, rimarrete delusi. “La mostra non riguarda la psicoanalisi”, dice il curatore Bernadac Marcadé, “ma racconta il rapporto di Lacan con le opere d’arte”. Lacan parlava spesso di opere d’arte nei suoi scritti ed era un collezionista piuttosto attivo, che ritrovava nell’espressione artistica un’occasione di introspezione, riflessione, apertura di senso. Era amico di Salvador Dalì, Marcel Duchamp, Pablo Picasso e Dora Maar (di cui fu anche terapeuta). Tutti artisti di cui troviamo opere in mostra, per un totale di 60 autori tra moderni e contemporanei, interpreti di medium differenti: pittura, scultura, fotografia e installazioni di varia natura.
L’opera più iconica della sua collezione, anch’essa in mostra, è indubbiamente L’Origine du Monde (1866) di Gustave Courbet. Oggi di proprietà del Museo d’Orsay, che raramente ne concede il prestito, era conservata da Lacan dietro una porta scorrevole di legno, sulla quale il suo amico (e futuro cognato) André Masson dipinse un’interpretazione surrealista, con nuvole fluttuanti, curve come colline e peli pubici divenuti fiori. A Metz, invece, il dipinto è posto accanto a opere contemporanee di Mircea Cantor, Victor Man, Betty Tompkins o Agnès Thurnauer, che ne reinterpretano l’iconografia attualizzandola. D’altra parte, in generale, alcuni dei concetti trattati da Lacan e ripresi in mostra (come sesso, amore, identità, genere, potere), sono oggi al centro del dibattito pubblico.
Sono proprio le principali teorie espresse dallo psicanalista a dettare il percorso espositivo, che prende avvio dallo Stadio delle specchio. Una fase, nell’infanzia del bambino, in cui egli prende le misure con la proprio immagine riflessa nello specchio, identificandolo prima con quella di uno sconosciuto, poi ne comprende la realtà e infine riesce a farla coincidere con se stesso. Il legame con l’autoritratto, ma non solo, viene da sé. Tra le opere della sezione troviamo così il Narciso di Caravaggio, Uomo col panchetto di Michelangelo Pistoletto e un video di Robert De Niro in Taxi Driver (1976) di Martin Scorsese, quando “si sfida” parlando con se stesso allo specchio. Nella parte intitolata Lalangue, che si rifà alla lallazione, l’espressione vocale tipica degli infanti, dominano le opere degli artisti che lavorano con la parola. Tra queste Un tiro di dadi non abolirà mai il caso di Marcel Broodthaers, ripresa dall’omonimo poema di Stéphane Mallarmé del 1897.
Segue una sezione dedicata ai significanti del desiderio, oggetti o parti del corpo che suscitano nell’uomo l’eccitazione o il riferimento sessuale. Non poteva mancare una parte dedicata al fallo, contenente per lo più astrazioni scultoree che richiamano al membro maschile: Princess X di Constantin Brancusi, Presse-papier à Priape di Man Ray e due opere di Louise Bourgeois, Janus Fleuri e Fillette. Ma ci sono anche opere che richiamano al godimento e alle feci, che portano ad accostamenti particolare come quello tra un estratto del film Blow Job (1964) di Andy Warhol – un primo piano del volto di un giovane mentre gli viene fatto un pompino – vicino alla Merda d’artista di Piero Manzoni.
Spinoso, in particolare modo, il tema del femminile. Non è un mistero che le teorie freudiane e lacaniane prediligessero una visione fallocentrica dell’uomo, ma la mostra prova comunque a inquadrare l’identità e l’esperienza sessuale della donna in una cornice che mantenga fede al pensiero lacaniano, pur contestualizzandolo al giorno d’oggi. Il piacere femminile è così sintetizzato nel trasporto mistico dell’Estasi di Santa Teresa del Bernini, mentre una sua visione contemporanea è data dalle opere di Anselm Kiefer e ORLAN.
Su questa linea, la mostra prosegue poi nel dettagliare uno dei capisaldi della filosofia di Lacan: a separare “uomo” e “donna” non è la differenza anatomica, ma i ruoli simbolici nelle strutture di potere. Nella sezione Il nome del padre, le opere affrontano la figura dominante maschile come simbolo della legge e delle restrizioni che governano il desiderio e la comunicazione, ma anche il rapporto di amore-odio che si crea con la figura di riferimento. Tragica, per esempio, l’esperienza di violenza domestica raccontata da Niki de Saint Phalle nel film Daddy (1972), di cui troviamo esposto un estratto. In un’ottica più positiva e progressista, invece, gli scatti di Nan Goldin e Man Ray approfondiscono temi come la transessualità e l’identità di genere, anche ampliando il pensiero lacaniano (piuttosto scarno) in proposito.