Negli ultimi anni, alcune opere attribuite a Gino De Dominicis sono state oggetto di interessanti vicende giudiziarie. I casi affrontati dai giudici italiani riguardano, in particolare, l’attività di autenticazione delle opere. Ed infatti, nel nostro ordinamento, «chiunque, conoscendone la falsità, autentica opere od oggetti (…) contraffatti, alterati o riprodotti» commette il reato di contraffazione di opere d’arte, oggi punito «con la reclusione da uno a cinque anni e con la multa da euro 3.000 a euro 10.000» (art. 518 quaterdecies c.p.; prima della riforma introdotta dalla L. 22/2022, la stessa fattispecie era punita dall’art. 178, comma 1, lett. c), D. Lgs. 42/2004). Abbiamo esaminato tre sentenze, di tre tribunali diversi: Roma, Pesaro e Bolzano. Ve ne proponiamo una lettura in tre puntate.
IL CASO DE DOMINICIS: LA SENTENZA DEL GUP DI PESARO N. 216/2023 E L’IMPUGNAZIONE DELLA STESSA DA PARTE DEL PUBBLICO MINISTERO
Con la sentenza n. 216 del 27 giugno 2023, il giudice dell’udienza preliminare di Pesaro si è pronunciato nell’ambito di un procedimento penale che riguarda i presunti falsi De Dominicis.
I diciotto imputati erano accusati di diversi reati: associazione per delinquere (art. 416 c.p.), truffa aggravata (artt. 640 e 61 n. 7 c.p.), ricettazione (art. 648 c.p.) e contraffazione di opere d’arte (delitto che, all’epoca dei fatti, era previsto dall’art. 178 D. Lgs. 42/2004). Secondo la pubblica accusa, le persone chiamate a giudizio avrebbero, infatti, creato un’organizzazione stabile finalizzata a commettere «un numero indeterminato di delitti, tra cui i reati di contraffazione, autenticazione, detenzione, commercializzazione e truffa di opere d’arte false attribuibili ed a firma dell’artista Gino De Dominicis».
Ora, il giudice dell’udienza preliminare è chiamato a valutare se le accuse possano reggere nel corso del processo dibattimentale. Più esattamente, se il giudice ritiene che la tesi d’accusa possa condurre ad una «ragionevole previsione di condanna» (art. 425, comma 3, c.p.p.), allora egli dispone il giudizio nei confronti degli imputati e, così, si avvia la celebrazione del processo dibattimentale. In caso contrario, invece, il gup emette una sentenza di non luogo a procedere.
Nel caso che ci occupa, il gup di Pesaro ha scelto questa seconda opzione.
Con riferimento alle fattispecie di truffa, ricettazione e contraffazione d’opere d’arte, il magistrato non ha escluso la sussistenza dei reati, ma ha ritenuto che gli stessi fossero ormai prescritti.
Sul punto, la sentenza premette che, nel corso della sua vita, Gino De Dominicis avrebbe prodotto «non più di 850 opere». Tuttavia, dopo la morte dell’artista, avvenuta nel 1998, si sarebbe gradualmente sviluppato un «fiorente mercato di falsificazione e commercializzazione». L’attività degli inquirenti si è concentrata attorno a tale mercato: in particolare, tra il 2012 ed il 2014, sono stati eseguiti una serie di sequestri di opere ritenute contraffatte, subito sottoposte al vaglio dei consulenti tecnici della Procura della Repubblica, scelti – si legge – «tra i più autorevoli esperti di arte italiana del secolo scorso». L’analisi degli esperti ha confermato che i manufatti sequestrati non sarebbero riconducibili al De Dominicis. Sulla base di queste considerazioni, il gup non ha escluso che gli imputati abbiano commesso i delitti contestati dall’accusa: tuttavia, il giudice ha comunque pronunciato sentenza di non luogo a procedere poiché, come s’è detto, i reati sarebbero ormai prescritti.
Per quanto riguarda, invece, il delitto di associazione per delinquere, il giudice ha seguito un ragionamento diverso, affermando che «ne è palese l’insussistenza». Il giudice pesarese ha, anzitutto, premesso che l’associazione per delinquere ricorre laddove venga stretto «un patto stabile per dare esecuzione ad un programma criminoso che comprende un numero non determinato di reati». Se manca tale requisito di stabilità del vincolo, non si commette il delitto associativo, ma si versa nell’ipotesi del mero concorso di persone nel reato. Con riferimento al caso di specie, il gup ha evidenziato che «le prove restituiscono il ritratto di un gruppo di correi che provvedeva semplicemente a falsificare le opere di un artista defunto, le faceva autenticare e le metteva sul mercato». In una siffatta attività non può riconoscersi, secondo il giudicante, una struttura stabilmente organizzata. A ciò si aggiunga che, sempre secondo la ricostruzione del gup, l’attività criminale si sarebbe protratta soltanto per due anni: anche il dato temporale escluderebbe che i correi abbiano dato vita ad una stabile associazione a delinquere. Pertanto, sulla base di tali rilievi, il giudice dell’udienza preliminare ha dichiarato il non luogo a procedere in riferimento al delitto punito dall’art. 416 c.p. perché il fatto non sussiste.
Un ultimo aspetto merita interesse. Come si è detto, nel corso delle indagini preliminari sono stati sequestrati diversi beni e, fra questi, anche alcune delle presunte opere contraffatte. Il pubblico ministero aveva chiesto al gup di confiscare definitivamente tali opere: la richiesta del PM, però, è stata disattesa dal giudice. Ciò perché – si legge nella sentenza – la confisca di opere d’arte contraffatte presuppone che il giudice abbia compiuto un accertamento, seppur minimo, sulla falsità dei manufatti. Nel caso che ci occupa, però, le uniche valutazioni in ordine alla autenticità o falsità delle opere sono state fornite dai consulenti della Procura della Repubblica: si tratta, quindi, di una valutazione di parte e non di un apprezzamento terzo ed imparziale condotto dal giudice. Per questo motivo, in applicazione dei princìpi appena descritti, le opere non sono state confiscate ma sono state, invece, restituite agli aventi diritto.
Fin qui si è ripercorso il contenuto della sentenza n. 216/2023 del gup di Pesaro. Per completezza ed esattezza, va però precisato che tale provvedimento non è definitivo, poiché esso è stato impugnato da parte del pubblico ministero. Per quanto qui interessa, con il proprio atto di impugnazione, la pubblica accusa ha censurato la decisione sotto tre profili.
In primo luogo, il pubblico ministero non ha condiviso i criteri di calcolo del termine di prescrizione effettuato dal gup ed ha ritenuto, invece, che gran parte dei reati contestati non si siano ancora prescritti.
In secondo luogo, l’accusa ha insistito per il riconoscimento del delitto di associazione a delinquere: a tal fine, il pubblico ministero ha evidenziato che gli imputati hanno istituito, per perseguire le proprie finalità criminose, una Fondazione ed una simile struttura organizzativa ha senz’altro il carattere di stabilità richiesto dalla fattispecie di reato.
In terzo luogo, il Procuratore appellante ha ribadito che, nell’ipotesi in esame, è obbligatoria la confisca delle opere contraffatte e che, in ogni caso, il giudice avrebbe potuto e dovuto compiere ogni accertamento utile per l’applicazione della confisca.
Aspettiamo di leggere, quindi, nei prossimi mesi, la decisione d’appello.