Mario Ceroli (1938) torna a Milano con magnifiche opere, delle quali molte raramente esposte, spaziando dalle monumentali sculture a quelle a parete, in cui il legno è materia di riflessione sulla complessità del nostro tempo di una umanità dolente. Davide Di Maggio, il curatore racconta la mostra di un “gigante” dell’arte contemporanea
Come nasce la meravigliosa mostra di sedici monumentali opere di Mario Ceroli anni ‘70/80 presentata in Cardi Gallery a Milano?
Nasce dalla collaborazione con Nicolò Cardi della Cardi Gallery di Milano e Londra iniziata nel 2019 con la grande mostra a Londra sul gruppo MONO-HA. Da allora ho curato e organizzato varie mostre, soprattutto nel loro spazio londinese, da Gutai a Wolf Vostell, dal Gruppo Fluxus a Hidetoshi Nagasawa, da Ben Vautier ed Emilio Isgrò a Sergio Lombardo con i suoi “Gesti tipici” degli anni ’60. La mostra di Mario Ceroli nasce anche dalla necessità di colmare una sua assenza, ingiustificata e incomprensibile, dalle scene artistiche di Milano da più di trent’anni (l’ultima sua mostra a Milano fu alla Fondazione Mudima nel 1991). Considerato il suo passato e la sua età ho ritenuto prioritario realizzare questa mostra prima a Milano (poi sarà anche a Londra), con opere monumentali e storiche come forma di “risarcimento” verso un artista che ha caratterizzato la storia dell’arte italiana fin dall’inizio degli anni ’60. Come seguito a questo suo ritorno a Milano, ci sarà in primavera un suo intervento alla Fondazione Mudima, nella piscina realizzata da Wolf Vostell, in un ideale dialogo con l’artista tedesco e a dicembre, sempre di quest’anno, inaugurerà la nuova sede della Pinacoteca di Brera, Palazzo Citterio, con una grande installazione site-specific.
Al piano terra, varcata la soglia della galleria, impressionano le otto titaniche sculture in legno di pino di Russia della serie Dioscuri platonici sulla geometria, immobilizzati in pose plastiche al centro, che affiancati da fin troppo grandi opere a muro, accentuano la sensazione drammatica e claustrofobica della scena, chi ha curato l’allestimento d’impatto teatrale?
L’allestimento l’ho curato insieme all’artista ed è frutto di varie visite nel suo immenso studio romano e di un’attenta selezione delle opere. L’impatto teatrale, scenografico, è da sempre una prerogativa di Mario Ceroli e questa “abbondanza” di opere presenti in mostra trovano una collocazione quasi armonica grazie alla padronanza dello spazio che Ceroli possiede, spazio che studia e vive in maniera quasi maniacale. La sensazione di claustrofobia e disagio è voluta. Ceroli esprime in questo modo l’inquietudine di tempi difficili e l’itinerario di osservazione è organizzato in una lettura soggettiva ma anche poetica di ciò che sta accadendo e potrebbe ancora accadere. Penso, però, che in qualche misura queste sensazioni si plachino perché l’arte nel suo divenire riesce a raggiungere quasi sempre un equilibrio.
Sofferenza, fatica, tensioni muscolari, i ciclopi di Mario Ceroli portano sulle spalle il peso di una umanità dolente, che immobilizzati in movimento, due sculture hanno tre gambe, sembrano incedere verso chissà dove e resistere eroicamente alla fatica di esistere, qual è il loro messaggio?
I ciclopi di Ceroli non sono modelli di bellezza, ma colonne di sostegno delle società alla deriva che si sono succedute da quando sono stati realizzati. Quindi sono attualissimi anche adesso e lo saranno in futuro, visto che nulla è cambiato da allora, anzi è peggiorato. Mi piace molto questa sua descrizione, “immobilizzati in movimento”, anche se a me le tre gambe hanno riportato alla celebre scultura di Boccioni, “Forme uniche della continuità dello spazio” del 1913, che rappresentava la velocità e la forza del dinamismo nell’arte. Anche alcuni di questi giganti hanno una fluidità di movimento e pur sostenendo dei pesi enormi il loro incedere è determinato e sicuro, verso quel mondo migliore dove anche Ceroli vorrebbe vivere.
Al piano superiore spiccano le grandi opere in legno degli anni ’70, come La Nascita di Venere, Prova d’Orchestra e Inferno, realizzate con ramoscelli, arbusti, tronchi di varie grandezze al posto dei colori, al centro adagiato sul pavimento c’è una grande sagoma umana ricolma di cenere, anche questa sala sembra non abbastanza ampia per contenere il monumentalismo delle opere esposte, non le sembra un po’ troppo?
Quelle al primo piano sono opere a cui Ceroli è molto legato, alcune simboliche come La nascita di Venere. Sono una parte di quelle che “conosce” meglio, realizzate con i materiali che lo circondano e sono la sue presenze, il legno bruciato, la cenere, la paglia, e che tratta con estrema naturalezza. Possiamo quasi osare nel definire questi lavori un archivio del patrimonio olfattivo, che nel momento in cui percepiamo gli “odori” che provengono da queste opere, ci lasciano un’energia e una presenza forte, nello spazio e nella mente, diventando degli attivatori di tutti gli altri nostri sensi, catturando micro-momenti come il respiro, con molteplici memorie collettive rivelate dagli odori. Per questo si è deciso con lui di riunirle tutte in un unica sala che sembra come dice lei, non abbastanza grande da contenerle. Per concentrare ed accentuare al massimo queste sensazioni.
Perché Mario Ceroli attraversa ma non aderisce totalmente all’Arte Povera?
La generazione di Mario Ceroli, quella degli Schifano, Sergio Lombardo, Franco Angeli, Francesco Lo Savio, Tano Festa, Giosetta Fioroni, Renato Mambor, Pino Pascali, per citarne qualcuno, è precedente a quella dell’Arte Povera e dopo un primo tentativo di avvicinamento, orchestrato da Jannis Kounellis, (Ceroli fu presente nelle prime mostre di Celant nel 1967 e 1968), vi furono forti contrasti concettuali e caratteriali in aggiunta a quella che Ceroli definisce “la maleducazione dei critici” di quel momento, che crearono dissapori soprattutto con Germano Celant, che prima definì Ceroli “l’autentico costruttore povero” salvo poi epurarlo definitivamente, e alcuni componenti del gruppo di Piazza del Popolo ritenuti insanabili. Il primo ad allontanarsi, in maniera decisa e burrascosa, fu Sergio Lombardo, che recentemente mi ha mostrato una fitta corrispondenza tra lui e Celant di quegli anni, ove nonostante un certo corteggiamento da parte di quest’ultimo, oppose un netto rifiuto.
Secondo lei Mario Ceroli è uno scultore classico, che trova la sua identità “rinascimentale” nella rappresentazione del corpo, secondo una iconografia contemporanea, perché?
Oggi Ceroli ama parlare di “referenze”, di riferimenti che operano inversamente sull’arte del passato e, come dice lei, secondo un iconografia contemporanea. In chiave nuova e diversa, e anche negli ultimi lavori c’è l’intuito di nuovi materiali e la contaminazione fra tracce della storia e attualità. Nella recente bellissima mostra che ho visitato alla galleria De Foscherari di Bologna, vi è un mix di opere nuove e opere storiche che dialogano tra di loro. Le sue caratteristiche sagome storiche che rappresentano il corpo, riposizionate all’interno di una nuova epoca e i nuovi materiali come i fogli di rame bruciato, in relazioni tra essi, si scambiano “informazioni” e dati per acquisire una nuova dimensione contemporanea. Nella mostra di Milano invece, attinge, rimescola e usa una iconografia rinascimentale per arrivare ai giorni nostri, pur con delle opere datate.
Di chi sono le opere esposte e dove torneranno dopo questa imperdibile mostra?
Le opere in mostra appartengono all’artista e provengono tutte dal suo studio. Ho sempre pensato che le mostre debbano essere realizzate in totale empatia e collaborazione con l’artista, quando ancora vivente come in questo caso. Questo è un aspetto che per Ceroli riveste una fondamentale importanza e le opere, non solo quelle storiche, devono arrivare quanto più possibile solo dallo studio, perché sono quelle a cui l’artista tiene di più, quelle da cui non ha voluto separarsi per tanti anni e il solo pensiero di venderle lo addolora. Dopo la mostra, quelle non vendute torneranno nel suo studio, altre verranno utilizzate per altre esposizioni.